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Quand’ero ragazzino feci una cosa bellissima e proibita. Anche un pochino pericolosa, ma fa parte del gioco. Frequentavo parecchio Pisa in quegli anni. Dei miei amici di famiglia avevano una grande casa nei pressi di Piazza dei Cavalieri, meravigliosa. E proprio lì accanto c’era il medioevale Palazzo dell’Orologio, che incorporò la torre detta della Fame. Ai tempi il Palazzo era in rovina, chiuso e abbandonato, con i portoni sbarrati e le finestre sigillate. Noi, di notte, passando dai tetti, ci intrufolammo, camminando in equilibrio su assi che attraversavano sale dove i pavimenti erano semi-crollati, addentrandoci alla luce delle nostre torce in stanze e saloni dalle volte affrescate e sbiadite.

La scena - che sarebbe di certo piaciuta a Stephen King - era per noi due volte intrigante. Al padre dei miei amici - quasi un padre anche per me - piaceva raccontarci storie orripilanti e a noi piaceva ascoltarle. E la Torre della Fame, magari lo sapete, custodiva una storia davvero tremenda, narrata da Dante nella Divina Commedia: la storia del conte Ugolino della Gherardesca che - rinchiuso nella torre con figli e nipoti - stremato dalla fame, si cibò dei figli. Immaginate il batticuore di trovarsi lì dentro…

Fu lì, in una di quelle stanze, che in un baule trovai alcune lettere ottocentesche che trafugai, insieme a qualche altre carta, custodendole poi in una di quelle scatole in cui i ragazzini tengono le loro cose preziose: lo stemma della Mercedes trovato per terra, una vecchia penna stilografica di bachelite, una bussola d’ottone, cartoline, banconote estere e qualche moneta fuori corso. L’altro giorno, costretto a rifar ordine dalle necessarie manovre di svuotamento del mio studio, che andava ripittato causa infiltrazione d’acqua dal condomino di sopra, ho ritrovato quella scatola dimenticata. Vi risparmio le emozioni provocate da ciascuno degli oggetti, ma vi riferirò di una sola di queste: lo stupore, enorme, nel leggere su una di quelle carte ai tempi trafugate dal palazzo medioevale la celebre frase, vergata a mano da un pennino antico, scritta dal Sommo Poeta: Più che ‘l dolor poté il digiuno. E sotto un nome: Carlo Verdone, quasi fosse una firma.

Ai tempi non mi accorsi del caso singolare, della straordinaria coincidenza. Semplicemente non potevo: avrò avuto 12 anni, era metà degli anni ’70 e le prime apparizioni di Verdone risalgono a qualche anno dopo. La vera fama poi gli arrivò nel 1980 con Un sacco bello, e io stavo già pensando a tutt’altro, figuratevi se mi ricordavo di quel biglietto.

Ma ritrovarlo ora, mi ha dato i brividi. Perché proprio qualche sera prima ho provato a dare una chance al film di Verdone su Amazon Prime Video: Si vive una volta sola. Già, è finito lì, in streaming, senza passare dalle sale cinematografiche, proprio ora che hanno riaperto. La cosa non ha mancato di suscitare pensieri e accese reazioni in molti. “Ma come?” si sono detti “Proprio lui, lui che he gestito una sala - il cinema Roma, nella capitale - , lui che è un po’ l’erede e il figlioccio di Sordi, lui che è stato una degli ultimi alfieri della tradizione della commedia all’italiana, ci molla così? Lo hanno pensato e detto ad alta voce soprattutto quelli dell’ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema), che hanno stigmatizzato questa scelta della Filmauro (che produce e distribuisce il film). Il motivo è semplice: Verdone è stato molte volte campione di incassi: il suo film che ha incassato meno ha fatto 8 milioni di euro, ma in altri casi ha raggiunto i 12 milioni, persino i 15 con Il mio miglior nemico. Cosa quindi di meglio, per far ripartire il sistema-cinema italiano, di un film di un celebre comico italiano di successo?

Cosa pensare quindi di questa scelta che - per usare parole dolcemente diplomatiche - potremmo dire poco solidale? Che il cinema italiano e gli esercenti italiani hanno perso un alleato? Che la solidarietà è più facile farla a parole che non mettendo mano al portafogli?

E di chi è la colpa? Di Verdone? Della produzione? Di Prime Video?

È tutto oscuro in realtà. Se Si vive una volta sola fosse uscito in sala ora, avrebbe avuto magari 200-250 sale. Se fosse stato ben sostenuto magari avrebbe potuto - tiro a indovinare - realizzare un milione di incassi, o magari addirittura due. Certo, molti meno di quelli cui Verdone era abituato. Certo il film sarebbe andato in perdita. Ma sapete che onore? Sapete che orgoglio per Verdone poter dire: ecco il mio film, tornate al cinema, io lo sostengo, fatelo anche voi…

Invece no. Eppure non credo che Amazon Prime abbia pagato alla Filmauro di più, non riesco a immaginarlo. E allora perché, Carlo? Perché?

Questi dubbi si sono risolti con la visione del film. Non mi sbilancerò con una recensione personale, vi linkerò però questa che non è propriamente tenera, sempre per usare eufemismi garbati. Non è nemmeno nostra, anche se quelle che trovate sul sito sono del medesimo tenore.

Si affaccia quindi un’ipotesi: che Verdone (che poi alla fine mi sta anche simpatico) abbia pensato che non poteva dare una terribile mazzata al sistema-cinema italiano con un film così inguardabile. Lo ha fatto per noi: lui gioca dalla nostra parte e vuole affossare Prime Video, è chiaro. Vuole farci capire che il cinema vero, quello bello, lo riserva alle sale. Vuole staccarci dallo streaming generando un’esperienza negativa capace di condizionarci, provocando in futuro un rigetto.

In alternativa, l’altra ipotesi plausibile è che - visto l’andazzo - abbia pensato che in realtà il film avrebbe incassato davvero poco e allora ha ceduto alla tentazione della piattaforma e dei pochi, maledetti e subito.

In questo caso si spiegherebbe l’incredibile coincidenza del biglietto trovato anni addietro nella Torre della Fame, riapparso tra le mie mani proprio ora. Un caso inquietante.

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