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Général Idi Amin Dada: Autoportrait
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 Se la riscoperta di una pellicola ci fa ricordare qualcosa a cui non pensiamo più da tempo, ma che all’epoca ci occupava e incuriosiva, allora la distanza prospettica aiuta a capire quello che il marasma del presente confonde.

Idi Ami Dada fu per anni, i settanta del secolo scorso, la star dei media di tutto il mondo, un colosso nero di cui sapevamo tutto, tranne forse quello che più bisognava sapere. Tenere bassa l’attenzione sulla vera identità di un uomo politico ben introdotto nello scacchiere internazionale, sulle coperture che lo mantengono al potere, sul balletto delle alleanze, gli intrighi delle diplomazie e le decisioni politiche ed economiche fatte sulla testa della gente, è cosa che avviene e avverrà sempre, solo che a volte arriva qualcuno che dice: “il re è nudo”.

Idi Amin Dada era universalmente conosciuto come un sanguinario dittatore dedito a pratiche su cui i media si diffondevano con morbosa sollecitudine, enfatizzandole al punto che diventavano perfino incredibili. Era facile immaginarlo come l’uomo nero degli incubi infantili più terrorizzanti.

Sapere poi che dal 1979, buttato giù dal palco, finì tranquillo i suoi giorni nel ritiro dorato dell’Arabia Saudita  fino alla sua morte, il 16 agosto 2003, senza essere mai stato condannato da alcuna autorità internazionale,
era qualcosa di incomprensibile, ma poi subentrò l’oblio e, come sempre accade, fu dimenticato.

Barbet Schroeder, collaboratore dei Cahiers du Cinéma e registi come Godard e Rivette, candidato all’ Oscar come miglior regista nel 1991 per Il mistero Von Bulow. ampia filmografia anche come attore, fondatore della casa di produzione Les films du losange a soli 22 anni, regista di due primi lungometraggi emblematici della cultura hippy, decise di girare nel 1974 un film sul generale, di recente autoproclamatosi presidente dell’Uganda dopo l’eliminazione di Milton Obote, di cui era stato l'uomo di fiducia.

Al colpo di stato del 25 gennaio 1971 erano seguite espulsioni militari e politiche, esecuzioni di massa e deterioramento dei rapporti con Stati Uniti e Israele. Insomma il solito repertorio di ogni buona dittatura.

 Da bravo allievo dell'Occidente fino a quel momento, Idi Amin Dada era divenuto il portavoce delle cause del Terzo mondo e il grande amico di Gheddafi.

Le vicende di quel decennio sono complesse, ripercorrerle è interessante, soprattutto se chi parla è il protagonista.

Contattato dunque  il leader ugandese e fingendo di mettersi "al suo servizio", Barbet Schroeder ottenne un autoritratto del generale che, come diceva il Foscolo di Machiavelli, … temprando lo scettro a' regnatori | gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela | di che lagrime grondi e di che sangue”.

E machiavellico fu il disegno di mostrare al mondo un tragico giullare che si pavoneggiava in preda a delirio di onnipotenza, un autoritratto che il soggetto dipinse a suo piacimento senza percepire il contraccolpo immediato su chiunque lo guardasse.

Schroeder mantiene una distanza glaciale, il suo intervento esplicito si avverte quando fa poche domande in francese o nei primi quattro minuti, dove riassume l’antefatto, parla delle condizioni di difficoltà dell’Uganda con un’inflazione dal 20 al 50 per cento, delle gravi conseguenze della “rivoluzione economica” lanciata da Amin e chiude sui filmati di fucilazioni e alcuni nomi autorevoli eliminati dal regime.

Per il resto il film sembra una mano offerta alla propaganda,  ma in filigrana invece riformula continuamente il suo punto di vista attraverso il montaggio delle riprese e l’inserimento di filmati di repertorio.

E’ evidente che il formato che abbiamo oggi non è identico a quello sottoposto a Idi Amin, il cui controllo sul girato e poi sulla pellicola finita fu ossessivo, e Schroeder fu costretto a fare tagli altrimenti 200 cittadini francesi residenti in Uganda non avrebbero più rivisto la via di casa.

 Del resto, la fama nera di Idi Amin diffusa dai media non era uno scherzo e avrebbe dissuaso chiunque, ma l’esito è così originale che le vicissitudini della pellicola, fino alla caduta di Amin nel’79, sono state ampiamente ripagate dal risultato.

L’interesse che suscita è nella sua originalità e nelle considerazioni che induce sul mezzo cinema e il suo rispecchiamento della realtà, sul rapporto tra il regista e il materiale da riprendere, sul suo messaggio al pubblico affidato alle scelte di regia.

Protagonista assoluto, ed evidentemente convinto di esserlo, è Idi Amin Dada, personalità delirante che fu preso molto sul serio, ed è questo che trasforma il comico in tragico.

Amin si comportò come un regista, la sua influenza arrivò a dettar legge spesso anche ai cameramen, ma la narrazione che fa di sé induce a riflessioni sul potere e sui suoi meccanismi eterni molto interessanti.

La storia di quegli anni e la cronaca insieme ci hanno detto quasi tutto sui morti, la miseria del Paese e la violenza del regime.

Se invece ascoltiamo la sua voce e lo vediamo così sorridente, deciso e bonario insieme, intento a costruire di sé un  ricordo perenne, un monumento alla memoria, un autoritratto che neanche Hitler o Stalin riuscirono a farsi fare da nessuno, capiamo quanto sia vicino a noi e facile un ritorno dei mostri.

Schroeder gli lascia tutto lo spazio per il suo autoincensamento continuo, è lui l’ unico a parlare in scena, a raccontare i suoi successi, la grandezza delle sue scelte politiche, la felicità del suo popolo, i rapporti con i grandi del mondo, fra i quali lui si annovera ai primi posti, la politica economica che ha dato ricchezza e libertà all’Uganda.

L'immagine è quella di un uomo gioviale e affabile, sorridente, dalla battuta pronta, un mix di considerazione di sé così da arrivare a proclamarsi unto dal signore, machismo, paternalismo, rozzezza e sottocultura che, sciorinate così platealmente, dovrebbero indignare o far ridere se non riconoscessimo, un momento dopo, le stesse stimmate in tanti personaggi contemporanei.

" L'errore di Hitler è non aver ucciso abbastanza ebrei", ha detto veramente questo? “ gli chiede Schroeder. La risposta di Amin è una risata radiosa:

Ma no! Hitler è il passato, ora guardiamo al presente, e al futuro!”.

E il presente si riassume in poche massime, fra cui questa:

“Siamo determinati a fare in modo che il comune destino ugandese sia essere padroni del proprio destino e, soprattutto, a vedere che si gode della ricchezza del proprio paese. La nostra politica deliberata è di trasferire il controllo economico dell'Uganda nelle mani degli ugandesi, per la prima volta nella storia del nostro paese.” (Idi Amin sulla persecuzione delle minoranze).

Chi lo circonda, dai ministri del suo governo alle alte cariche militari, dagli ospiti stranieri alle categorie professionali a cui distribuisce consigli e moniti, dalle masse popolari perennemente osannanti al suo passaggio ai diciotto figlioletti scorrazzanti nel parco di casa, avuti da quattro mogli, le prime tre ripudiate perchè non abbastanza “rivoluzionarie”, tutto racconta molto bene in quale teatro si svolga sempre la recita del potere.

Lo scopo del film? Seppellire Idi Amin Dada nell'orrore dei suoi discorsi, nel ridicolo racconto dei suoi sogni profetici ("Lo so, perché l'ho sognato, esattamente quando, come e quando morirò. Conosco l'anno e la data. Lo so già, ed è un segreto"), nei suoi occhi che guardano l’obiettivo e in cui non sappiamo se scorgere malvagità o pazzia, o nulla, solo la ferrea determinazione ad essere quel che si è, ben conoscendo le regole del gioco e giocando sul sicuro.

La Storia gli ha dato ragione.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

 

 

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