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Vertigine e Vertigo
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Due film  che si trovano casualmente a condividere lo stesso titolo: “Vertigine” diretto da Otto Preminger del 1944 (titolo originale “Laura”) e “Vertigo”, diretto da Alfred Hitchcock nel 1958 (titolo italiano: “La donna che visse due volte”). Sono entrambi considerati generalmente dei film noir: “Vertigine“ è una delle opere che hanno contribuito a definire il genere mentre “Vertigo” è come tutti i film di Hitchcock, nei quali la personalità del regista è tale che hanno sempre qualcosa di più e di diverso dal genere a cui li si ascrive: del noir ha soprattutto l‘atmosfera di mistero, dell’incombenza di qualcosa di indefinibile cupo e inquietante. C’è anche da dire che il noir più che un genere è un’atmosfera, non è definibile con precisione essendo stato creato a posteriori e presentando caratteristiche comuni a diversi altri generi (così come definiti dallo studio-system) quali il poliziesco, il gangster, il thriller, l’horror.

Sono film molto diversi che rispecchiano le personalità artistiche di Preminger ed Hitchcock, ma hanno tuttavia alcuni aspetti non secondari in comune.

Vertigine, ritorno di Laura

Vertigo, lettera di Judy

 

La storia in entrambi i film presenta una netta cesura a metà del racconto: qui gli eventi hanno una svolta improvvisa e cioè la protagonista creduta fino ad allora morta, si rivela invece essere viva e vegeta. Preminger mostra la sua formazione teatrale mostrando il “ritorno” della protagonista (sotto al proprio ritratto) come un vero «coup de théâtre»: una sterzata inaspettata e sorprendente che ribalta completamente ciò che sembrava vero, spiazzando gli altri protagonisti del film. Hitchcock, invece, è fedele alla sua filosofia della suspense, per ottenere la quale riteneva indispensabile che il pubblico fosse a conoscenza della realtà delle cose mentre nella diegesi del film permane ignoranza o insicurezza dello stato reale: ciò crea tensione per mezzo dell’incertezza: infatti Judy/Madeleine appena ricomparsa ci svela subito l’inganno perpetrato, scrivendo una lettera al protagonista Scottie in cui racconta i fatti realmente avvenuti, mentre questi, seppure colpito dalla somiglianza, appare incerto e dubbioso sulla sua reale identità.

Vertigine, ritratto

Vertigo, ritratto

Altro punto di contatto è l’importanza cruciale di un ritratto femminile in entrambi i film: in “Vertigine” il ritratto, unitamente alle testimonianze raccolte sulla sua personalità, concorre in modo decisivo a creare l’idealizzazione della donna e l’attrazione verso da parte del poliziotto interpretato da Dana Andrews e la sua ricomparsa mentre è assopito sotto il quadro è particolarmente significativa al riguardo. In “Vertigo” il ritratto fa da tramite tra la presunta Madeleine e la sua ava Carlotta Valdes della quale riprende l’acconciatura e indossa la collana, che sarà poi decisiva per svelare la sua vera identità e la finzione operata ai danni di Scottie: è veramente “vertiginoso” il fatto che la donna che si finge di essere la moglie di Gavin Elster finga che questa, a sua volta immagini di essere la reincarnazione di un’altra donna (Carlotta)! La «vertigine», la circolarità spiraliforme, è il metalinguaggio del film di Hitchcock.

Gene Tierney e Clifton Webb

Vertigo,Judy/Madeleine

 

In tutti e due i film, poi, i due protagonisti si innamorano di una donna irreale: in Vertigine è un’elaborazione intellettuale del poliziotto a far scattare la molla, non la conoscenza diretta della persona che invece è creduta morta; in Vertigo, nella seconda parte, il protagonista, con un’insistenza quasi maniacale, vuol rivestire una donna con la sua immagine dell’altra, anch’essa creduta morta, che, a sua volta era una finzione e quando scopre la coincidenza delle due, provoca la distruzione sia dell’immagine ideale che della persona reale, ormai inscindibili.

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