Espandi menu
cerca
WAR PHOTOGRAPHER
di yume
post
creato il

L'autore

yume

yume

Iscritto dal 19 settembre 2010 Vai al suo profilo
  • Seguaci 115
  • Post 117
  • Recensioni 600
  • Playlist 47
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

“ Se le tue foto non rendono è perché non eri abbastanza vicino

(Robert Capa)

Si apre così, con queste parole di Robert Capa, il documentario dello svizzero Christian Frei, nomination all' Oscar 2002 come Miglior Documentario, sul fotoreporter James Nachtwey, fotografo di guerra tra i più famosi al mondo, uomo schivo, un “lupo solitario” lo definiscono, nato nel 1948 negli States e ben presto votato alla fotografia di guerra, solo di guerra.

El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Cisgiordania e Gaza, Israele, Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, Afghanistan, Filippine, Corea del Sud, Somalia, Sudan, Rwanda, Sudafrica, Russia, Bosnia, Cecenia, Kosovo, Romania, Brasile e Stati Uniti sono stati il teatro del suo lavoro, ma tutto cominciò dalle immagini che arrivavano in Occidente della guerra in Vietnam.

Le immagini che venivano da là erano in contraddizione con quello che dicevano i politici e i militari

Jim decise che quella era la sua strada, e tutte le contrade del mondo invase dalla guerra da allora l’hanno visto all’opera con lo zaino sulle spalle e le sue macchine, a due passi dai feriti, dai morti, dalle bombe, con le mani sugli occhi colpiti dai fumogeni, sempre concentrato allo spasimo sul suo lavoro.

Robert Capa è stato il suo maestro ideale, Jim aveva sei anni quando il grande Robert cadeva a Thao Binh (Vietnam) il 28 maggio 1954, dopo aver calpestato una mina anti-uomo.

Capa aveva solo 41 anni e la sua vita lasciò un segno leggendario nella storia di un’arte, la fotografia, a torto considerata minore.

Capa fu soprattutto fotografo di guerra, ma non solo, Nachtwey è solo fotografo di guerra.

Forse perché i tempi sono tanto cambiati e chi frequenta fronti dove perfino la guerra ha perso ogni residuo carattere di umanità nella sua disumanità conclamata difficilmente riesce a pensare ad altro. Quello che Nacthwey racconta con i suoi reportages è orrore puro, è qualcosa che va oltre il pur miserabile scenario che una guerra porta con sé. Le guerre di Nacthwey sono quelle a cui assistiamo da almeno cinquanta anni, le guerre in tempo di pace, quelle decine, centinaia di scenografie della morte che neppure la morte è mai stata in grado di immaginare.

Lo stupro sistematico dell’uomo su sé stesso.

 Normale, quindi, che un uomo dedichi tutti gli attimi della sua vita a guardare, scattare una foto dopo l’altra, cercare di far vedere al resto del mondo che c’è uno spazio della terra dove è assurdo vivere perchè nessuno, lì, ha più diritto alla vita.

Christian Frei è molto attento ad interpretare il senso di questa vita così eccezionale riuscendo a non farne un’icona. Jim è solo Jim, lo vediamo sempre calmo (è il suo credo, e forse l’ha salvato in tanti anni), determinato, attento e coinvolto.

Un villaggio dato alle fiamme in Kosovo apre il documentario. Jim sul prato scatta, di tanto in tanto deve spostarsi per le esalazioni di fumo, e la musica di Arvo Pärt lo segue e lo seguirà per gran parte del film, una meditazione che va oltre il reportage. Fra le rovine da cui cadono pezzi infuocati, vetri scricchiolano, frammenti carbonizzati volteggiano leggeri in aria, Jim si ferma davanti ad un quadro a terra fra le macerie, col vetro rotto.Una cornice dorata, pretenziosa, da salotto buono, e un nudo di donna di profilo, quasi un preraffaellita.

La vita, o forse la morte, ha le sue ironie.

 “Per me è un mistero -   dice Christiane Amanpour, corrispondente CNN- non so cosa lo spinga ad essere così. E’ proprio un lupo solitario. E a volte bisogna anche esserlo per lavorare così bene e per dare così tanto di sé. E’ difficile coordinare l’attenzione, le emozioni e l’energia. Devi avere una sola idea in mente, e lui ce l’ha.”

Durante o dopo la guerra, fotografare per Nacthwey è un imperativo categorico, quel villaggio con le case bucate dalle granate, tutte le povere mercanzie sparse per strada, vecchi e bambini che si guardano intorno silenziosi, caricano cocci vecchi su carretti e trattori per andare chissà dove, carogne carbonizzate e alberi stecchiti, e un bambino con una pistola giocattolo…E poveri rituali di sepoltura, i sopravvissuti con le loro preghiere, le lacrime, la miseria.

Quando ho deciso di fare il fotografo era per essere fotografo di guerra.Le foto che venivano dal Vietnam erano documentazioni dirette che denunciavano fortemente la guerra, mostrando com’ era ingiusta e crudele. Lo scopo della mia vita è diventato il proseguimento di questo impegno. Ho avuto bisogno di molto tempo prima di sentirmi sicuro di poter fare questo lavoro. Prima di cercare di convincere gli altri dovevo convincere me stesso.E’ stato nel 1980: una notte mi svegliai e capii che avevo imparato abbastanza ed era tempo che  andassi a New York presso una rivista per farmi assumere”.

Assistere ad un dramma che si scriveva minuto per minuto, capire, anticipare, partecipare emozionalmente, intellettualmente a quanto accadeva, questo divenne il suo lavoro.

Ho dovuto anche sviluppare un punto di vista personale per esprimere ciò che provavo. Ho dovuto chiarire i miei sentimenti. Attraverso la scelta delle immagini ho imparato a scoprire il mondo e anche me stesso.”

 Mentre parla Jim dispone alcune foto sul pannello e quella che ha in mano, in un bianco e nero livido, chiuderà il film. E’ la testa rasata di un bambino in primissimo piano, ripreso solo fino agli occhi, di sbieco, un’istantanea scattata a pochi centimetri di distanza. Sullo sfondo, una strada a perdita d’occhio fiancheggiata da scheletri di palazzi sventrati.

“Non avrei potuto fare queste foto senza essere accettato da loro - dice Jim, e il pianto di una madre è lì davanti a lui - è semplicemente impossibile senza la complicità dei protagonisti, senza che loro ti accolgano, ti capiscano e ti vogliano con loro. Capiscono che lo straniero delle fotografie mostrerà al mondo quello che succede, dando loro una voce che altrimenti non avrebbero. Sanno di essere vittime di un qualche tipo d’ingiustizia e di violenza gratuita. Lasciandomi fotografare lanciano il loro appello al mondo, al nostro senso del bene e del male. Cerco di avvicinarmi a loro con tatto, voglio mostrar rispetto, non voglio essere invadente o parlare a voce troppo alta. E loro se ne rendono conto, con poche parole o in silenzio.Se l’ambizione e la carriera dovessero avere la meglio sulla compassione avrò venduto l’anima.Il mio ruolo è giustificabile solo nel rispetto della sofferenza altrui.”

La troupe entra in zona a rischio contaminazione, tutti hanno maschere e tute bianche, l’odore è fortissimo, due file di cadaveri sono allineati in sacchi di plastica. Arrivano due bambini, superano lo sbarramento così come sono, con i loro poveri stracci, e gettano mazzolini di fiori di campo sui sacchi.C’è silenzio, si va avanti a riprendere.

 “Il modo in cui mostri un avvenimento sarà decisivo nel suo impatto col mondo. Allora devi lavorare perbene, devi sapere quello che stai facendo, sono convinta che la gente tuttora, vedendo le fosse comuni, dubiti ancora sulla loro autenticità”- dice una giornalista al seguito, amica di Jim.

Il racconto fotografico di Jim continua, il Ruanda, l’esperienza più terribile, quasi un milione di uomini uccisi con armi primitive, bastoni, pietre, machete. Mentre parla scorrono foto di strade e case disseminate di scheletri, bambini ancora aggrappati alle madri.

Era come prendere l’ascensore per l’Inferno fotografare il campo profughi devastato dal colera, e forse fra quei derelitti c’erano anche i massacratori.”

Nell' isola di Giakarta nel 1998, giavanesi contro ambonesi, abitanti di un' isola all' estremità orientale dell' Indonesia, scatenarono disordini e violenza bruciando chiese e scuole cattoliche.Decine di feriti e morti, e furono morti atroci, a bastonate, a coltellate, a colpi di bottiglie rotte. I testimoni raccontano di orecchie tagliate, cadaveri e mostrati alla folla, caricati su carriole ed esibiti come un trofeo.

Sconvolgenti tra tutte le foto dell’uomo inseguito e fatto a pezzi con coltelli e machete e Nachtwey che li aveva seguiti di corsa fino alla fine e, per tre volte in ginocchio, li aveva pregati di non ucciderlo.

Jim è sempre in mezzo, non si mette a distanza in posizioni sicure per fotografare come fanno tanti, è sempre implicato direttamente.

In Palestina è fra i ragazzi dell’Intifada, corre con loro, fotografa il loro balletto di morte con le fionde, è sotto il fuoco israeliano, davanti all’ambulanza che porta via il ferito, accanto ai barellieri, nell’Inferno di Gaza.

Non è importante la paura ma il modo di affrontarla – dice – per un maratoneta non è importante il dolore ma sopportarlo. Lo sappiamo fin dall’inizio come sarà e nessuno si compiange perché fa parte del mestiere.”E intanto i gas lo costringono come gli altri a rintanarsi a terra col viso coperto e una smorfia di dolore.

Il caporedattore di Stern che cura l’edizione dei suoi reportage ci parla di lui, delle sue poche parole.

Vado a dormire, diceva Jim mentre tutti guardavano inorriditi le foto, e beveva un bicchier d’acqua mentre noi bevevamo birra per rimetterci da tanto orrore”.

Non è solo la guerra il suo habitat, anche alla povertà e alle carestie che delle guerre sono causa e conseguenza Nacthwey ha dedicato reportages in cui potere emotivo e impatto visuale si sommano, e l’altra faccia della guerra si scopre con la sofferenza dei civili innocenti, relegati in baraccopoli in basso, sotto i grattacieli svettanti dell’alta finanza.

In Indonesia la miseria è endemica, la gente arrivata dalle campagne per cercare una vita migliore in città è ridotta a vivere sulla ghiaia a ridosso dei binari, lì non c’è un affitto da pagare e nessuno li manda via.Non è difficile finire sotto un treno, ritrovarsi mutilati negli arti, e continuare a prendersi cura con amore dei quattro figli nati lì come fa lo storpio che Jim fotografa a lungo. E’ una cosa difficile da comprendere per noi figli di un Dio maggiore.

Le foto dedicate alla carestia hanno l’impatto tragico di uno "sterminio di massa, primitivo ed efficace".

L’Africa domina la scena, e anche se siamo abituati a vederle e abbiamo esperienza visiva di scheletri viventi che si trascinano a terra, nondimeno siamo sopraffatti dal dolore, la carica emozionale che Nachtwey infonde alle sue foto è qualcosa di indefinibile e annienta ogni tentativo di prendere le distanze.

E’ una vera “biblioteca del dolore” quella che anni di lavoro hanno accumulato nella sua testa, più che l’immenso repertorio fotografico è il carico durissimo di emozioni e pensieri a dare l’impronta alla sua vita di uomo schivo, mai in cerca di visibilità, successo, gloria.

Jim ama il silenzio, al ritorno dalle sue incursioni non cede alla voglia di raccontare, gli preme solo sviluppare, far parlare le sue foto, il senso della sua vita è l’incessante trait d’union fra quello che ha visto e chi deve vedere, per capire.Perché probabilmente avverte come profanazione qualunque cosa non sia una comprensione profonda, un esserci, anche se da lontano, davanti a quei visi contratti di uomini, a quelle facce senza gioia di bambini, a quelle donne piegate.

 "Negli ultimi anni è diventato più difficile trattare temi spinosi. Gli sponsor sono stanchi di vedere i loro prodotti a fianco di tragedie umane, potrebbe nuocere agli affari. Le mie foto sono per i mass media, non perché siano viste come oggetti d’arte ma come una forma di comunicazione.Se col mio lavoro ottengo qualcosa me ne rallegro, ma rimane sempre molto da fare né sono mai soddisfatto, perché si tratta sempre di tragedie e di sfortune altrui.Al massimo è la soddisfazione amara di avere forse attirato l’attenzione della gente su questi problemi.Forse ho raggiunto qualcosa, ma è come sabbia in movimento”

Alla mostra Testimony che ha girato il mondo, ospitata anche a Milano a Palazzo Reale nel 2017, una parete di foto “americane” chiude il repertorio.L’ingiustizia è anche in casa nostra.

Jim si concede al pubblico, sembra a disagio e anche impacciato e alla fine spiega una cosa fondamentale di sé:

Ero giovane, inesperto eccitato, Volevo viaggiare e cercavo avventure. Col passare degli anni il mio vero scopo è diventato chiaro: la gente che fotografavo era molto più importante di quanto lo fossi io”.

Jim è convinto che il bene distruggerà il male, questo pensa di lui un caro amico, il suo ottimismo gli ha dato forza per fare quello che ha fatto, ed è moltissimo, impedendogli di diventare cinico.Venti anni fa ci si chiedeva cosa avrebbe fatto una volta invecchiato.

Ferito più volte, colpito da brutte malattie, passato attraverso crolli psichici, Nachtwey è sopravvissuto ed ha continuato a fotografare perché:

La forza della fotografia è nella sua capacità di generare sentimenti. Se la guerra è negazione dell’umanità la fotografia, allora, è forse la negazione della guerra.Se qualcuno si prende il rischio di stare in mezzo ad una guerra per far vedere al mondo cosa succede, è come se volesse negoziare la pace.Ecco forse perché chi dirige la guerra non vuole i fotografi.

Educare la gente a vedere, porre fine all’indifferenza, protestare e far protestare. Vedere in diretta cosa fa il fosforo al viso di un bambino, o il dolore indescrivibile causato da una singola pallottola o come una scheggia di granata può strappare una gamba, farebbe capire che niente può giustificare tali azioni verso un solo uomo, figuriamoci verso migliaia!”

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati