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La Sposa Promessa non è l'occasione per capire gli Ebrei Ortodossi. Stefania Muzio
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La sposa promessa è uno di quei film capaci di aprire riflessioni e scambi d’opinione fiume perché chiama in causa questioni che interpellano nel profondo l’animo di ciascuna di noi. Che cos’è il matrimonio? Qual è la formula giusta perché l’amore funzioni? Che vita vogliamo, per noi e per i nostri figli? E che rapporto vi è tra la donna che vive in una società laica, lavora, veste come le piace, frequenta con disinvoltura l’altro sesso e la tenera Shira che trascorre le sue giornate immersa nella vita di famiglia e può solo intravvedere il suo promesso sposo fra gli scaffali di un supermercato? Le risposte sono ovviamente infinite e ci aiutano a decodificare la complessità dell’essere donne oggi, in qualunque tipo di società.

LIAT PIAZZA, milanese trapiantata a Roma, una laurea in Gestioni dei beni culturali e un lavoro in una galleria d’arte contemporanea, ha assistito all’anteprima di La sposa promessa organizzata dal Pitigliani Kolno’a Festival e ne è uscita entusiasta. “Prima di vedere il film non ne sapevo molto e quindi non avevo aspettative di alcun tipo. E’ stata una sorpresa meravigliosa: è un’opera bellissima che aiuta a superare i pregiudizi nei confronti del mondo dei haredim. Amos Gitai ci aveva mostrato in Kadosh un ritratto veramente brutale della realtà ortodossa, Rama Burshtein racconta invece un mondo ricco di bontà e di sentimenti. E’ un lavoro che può aiutare lo stesso mondo ebraico a superare tanti pregiudizi”. Ma il valore de La sposa promessa, dice Liat, va ben al di là delle tematiche squisitamente ebraiche. “La vicenda di Shira fa riflettere sul significato del matrimonio. Nel mondo occidentale ci si fidanza e si corona, con le nozze, il grande sogno d’amore, quello che ti fa sentire le farfalle nello stomaco. Poi però i fallimenti sono tantissimi: ci si tradisce, ci si lascia, si divorzia. Rama Burshtein racconta invece il matrimonio quale unione di due persone che lavorano per un progetto e dei valori comuni, in cui i sentimenti non sono l’unica base su cui costruire la coppia. È una formula che ormai non si addice più alla nostra società e al nostro modo di vedere la vita, ma da quest’approccio possiamo imparare ad aggiustare il tiro: il matrimonio, lo dicono tutte le coppie di lunga durata, non è fatto solo di passione”. Non è d’altronde un caso se il mestiere di combinar matrimoni, così da unire persone che condividono un terreno comune in termini di principi e ambiente, affonda le sue radici nella notte dei tempi, in tutte le culture.

“Lo shidduch è un’usanza ancor oggi praticata in tutto il mondo ebraico, anche se assume forme e modi diversi a seconda degli ambienti” afferma SABRINA LEVI, attiva nel Coro romano HaKol. “Certo è una mentalità che in una realtà quale quella italiana può apparire antica, non più scontata come un tempo e non sempre accettata dai giovani. Se vi si ricorre dev’essere molto soft. Nel caso di Shira l’idea parte dalla madre, che ripropone con segno inverso l’usanza ebraica che vede la donna sposare, quando rimane vedova, il fratello del marito. Con dolcezza la donna la fa accettare al marito e infine alla stessa figlia. Il suo modo di manovrare è forse un po’ esagerato, ma per una madre è in ogni caso naturale esercitare una supervisione laterale, accompagnare i figli nel loro rapporto con il mondo e far notare loro con delicatezza certe cose”. In ogni caso, conclude Sabina, si tratta di un film molto particolare. “Vista da un ebreo è una realtà che può essere compresa, anche se in ogni caso è poco conosciuta da chi non la frequenta. Da un non ebreo non so fino a che punto questo mondo può essere capito: è un microcosmo senz’altro inusuale. Sono davvero molto curiosa di vedere come sarà accolto il film nelle sale”.

MIRIAM CAMERINI, regista, che ha visto l’anteprima a Milano, ha avuto con La sposa promessa un impatto completamente diverso. “Non lo consiglierei né come film né come occasione per capire gli ebrei ortodossi. L’intuizione di partenza è bella, per molti versi anche mitologica, ma non è bene sviluppata E’ un’occasione mancata, una storia poco centrata, in cui, dal punto di vista della scrittura, i personaggi non hanno la profondità psicologica che potrebbero avere. Speravo in un film che raccontasse il mondo dei haridim dall’interno, mi sembra fornisca invece un’immagine molto stereotipata di quell’ambiente raccontandolo come potrebbe fare qualcuno che viene da fuori”. Un esempio? “Penso a una delle prime scene, in cui il padre distribuisce la tzedakah. Non ci sono empatia o hesed: vi sono i soldi, la ricchezza, un’atmosfera grottesca e ossessiva anche nella fotografia e nel montaggio che trasmette un senso di tensione quasi surreale. E’ un passaggio che può alimentare il pregiudizio e far pensare che sono tutti ricchi e tutti si comportano in quel modo. In generale mi sembra prevalga un tono tra il documentaristico e l’antropologico”. A questo proposito a Miriam viene alla mente Srughim, uno dei massimi successi della televisione israeliana, che rac-conta le peripezie di un gruppetto di giovani modern orthodox a Gerusalemme. “L’ambiente è diverso, anche se propone anch’esso una serie notevole di regole non scritte e codificate, si percepisce però che il racconto è fatto dall’interno, da chi quel mondo lo vive e lo frequenta”. In ogni caso, dice, c’è da riflettere. Soprattutto sul matrimonio. “Mi ha colpito il momento finale in cui Shira, dopo le nozze, attende il marito con le spalle al muro e un’espressione spaventata. E’ una scena ammiccante e un po’ scontata. La violenza su di lei è stata fatta molto prima e riguarda tutte le ragazze di quell’ambiente che vivono in attesa del giorno in cui si sposeranno, non importa con chi”.

Anche SARAH KAMINSKI, docente di ebraico all’Università di Torino, si sofferma sulla lettura di Rama Burstein della realtà ortodossa. “Sono andata a vedere il film con grande curiosità. E’ un lavoro molto estetico, a tratti anche troppo, con una fotografia molto curata, riprese molto belle. Ma da un punto di vista antropologico e culturale non ho imparato molto su questo mondo che per noi è molto esotico e che talvolta viviamo con ostilità”. “Kadosh di Amos Gitai ci aveva mostrato un ambiente in cui le donne sono emarginate e sfruttate dagli uomini. Qui siamo in una realtà borghese, in cui le donne sono ingioiellate, il denaro non manca e non si danno profonde conflittualità. La stessa storia d’amore ha un ruolo secondario. La soluzione scelta dalla regista è quasi ottocentesca, il matrimonio o il nulla. Siamo ben lontani da film come Ushpisin, che entra nei codici della società ortodossa e cerca di interpretarli. D’altronde la stessa regista è entrata a farne parte solo di recente e la sta ancora scoprendo: forse è inevitabile che il suo sguardo mantenga ancora una certa distanza”.

Personalemete a prescindere dal merito ho trovato che il film sia stato girato con una cifra stilistica molto classica. La storia è lineare e la soluzione narrativa funziona. Certo ci mancano dei pezzi di cultura ebraica per capire appieno.

 

Stefania Muzio

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