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Biutiful

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Biutiful

di pippus
10 stelle

Se i film possedessero un peso specifico, quello di Biutiful superebbe quello del plutonio 239. Condivido l'opinione di coloro che ne raccomandano la visione solamente a una ben definita tipologia di spettatori, e tra questi non annovererei i deboli di stomaco, i depressi e tutti coloro i quali, leggendone la trama, temono di trovarsi coinvolti in un'eccessiva quantità di disgrazie condite da un'altrettanto eccessiva dose di pessimismo. Tranquilli, tenterò di convincervi che non è così. Sicuramente a chi ambirebbe assistere alla proiezione di un film per svagarsi consiglierei di dirottare la sua scelta su altri titoli ma, nel caso di Biutiful, il mio parere dopo la terza visione è di essere al cospetto di un’opera intrisa di dolore, di povertà, di espedienti in un contesto squallido ma, nel contempo, ricco di valori altruistici non sempre riscontrabili in ambienti benestanti più o meno elitari. Sono in totale disaccordo con quella cospicua percentuale di critici professionisti (ad esempio Roberto Nepoti che lo ha stroncato su Repubblica Tv) e le loro  farneticazioni. Anzi, è stata una consolazione riscontrare come anche nomi altisonanti (non tutti, e questo mi conforta) non siano riusciti a sintonizzarsi sulla frequenza del messaggio che Inarritu ha inteso veicolare. Il film è troppo buio e tetro? E’ una delle sue peculiarità! Il contrasto tra le due bellissime sequenze (iniziale e finale) del bosco innevato, avvolto in una luce accecante (praticamente uniche scene diurne) e il resto del film, girato in buona parte con camera a mano con le sole luci presenti, è magistralmente d’effetto. Sequenze particolarmente coinvolgenti in cui la bravura di Prieto ci fa apparire notturne anche le poche riprese diurne, e questo non per tediarci con un’ eccessiva malinconia, ma per coinvolgerci nel contesto in modo subliminale, riuscendoci alla perfezione. La zona prevalentemente ripresa è quella di Santa Coloma, quartiere periferico piuttosto degradato di Barcellona e, essendoci stato personalmente, posso assicurare che situazioni alla “Uxbal” potrebbero essere non solo verosimili, ma più diffuse di quanto potremmo o ci piacerebbe pensare. Perché mai accusare il regista di aver calcato troppo la mano? Si pensa forse che da situazioni del genere siano esenti i quartieri più problematici delle nostre città? Quotidianamente potrei entrare in contesti simili in certe zone della mia Torino. Oppure preferiamo starne lontani e pensare che in ogni casa ci sia una realtà sul tipo famiglia del “Mulino Bianco? Chiedo venia ma, forse, in buona fede è proprio questa la motivazione che potremmo intuire dietro le accuse rivolte a questo capolavoro. Uxbal non è l’emblema della fortuna, d’accordo, ma non è l’unico al mondo a cui viene diagnosticato un cancro, e tutto ciò che gli capita è assolutamente verosimile. Vive come può dopo che alla moglie viene riscontrata una psicosi maniaco/depressiva, con tutte le problematiche che tale sindrome comporta, e si arrabatta fungendo da anello di collegamento tra l’amico poliziotto (corrotto e corruttore di colleghi) e gli organizzatori senza scrupoli della manovalanza cinese fornitori di oggetti contraffatti che poi gli immigrati africani smerciano attorno alle Ramblas.

Questa è la realtà quotidiana di Uxbal, vive borderline tra lecito e non, ma sopravvive e con lui i suoi due figli: una ragazzina e un bambino. In questa realtà, già di per sé poco invidiabile, si insinua purtroppo un tormentone che farà piombare tutti (noi compresi) in un vero e proprio girone dantesco del quale la realtà è avara meno di quanto si possa pensare. E’ da qui che Inarritu ci fa conoscere il vero Uxbal; ci presenta il fratello Tito che, pur condividendo la stessa genetica, è lontano anni luce dalla sua forma mentis. Quest’ultimo ( anche lui vive più fuori che dentro la legalità) non ha scrupoli ad approfittare delle fasi maniacali di Malambra, la patologica moglie di Uxbal, ma la scena in cui è più eclatante la differenza tra i due Inarritu ce la fa “vivere” con profonda alchimia attraverso la bellissima e coinvolgente sequenza all’interno della camera mortuaria, quando Tito, palesando tutta la sua esiguità esistenziale, non regge ed esce mentre Uxbal, avvicinandosi alla bara, accarezza il papà che entrambi non avevano avuto modo di conoscere.

La tragedia dei poveri cinesi morti asfissiati  appare eccessiva? Dalle nostre parti non è forse mai accaduto qualcosa di simile? Non vorrei soffermarmi sull’argomento se non per ricordare che la sceneggiatura sottolinea un coinvolgimento marginale di Uxbal, il quale, nonostante i sensi di colpa, solo per compassione aveva fornito le stufe per ben altri fini. Vedendo prossima la fine della sua esistenza, la priorità assoluta per lui sono i figli: non può realisticamente fare affidamento su Malambra ma, nelle struggenti sequenze precedenti il tragico epilogo, si intravede uno spiraglio. Come un raggio di luce nel buio appare la figura della moglie dell’immigrato senegalese arrestato. Costei, beneficiaria dello spiccato altruismo di Uxbal - seppur non senza tentennamenti - non è insensibile alla situazione e il ricordo di quell’aiuto, insieme all’affetto nel frattempo nato per i bambini, fa breccia nel suo animo di mamma. Celestiale figura per Uxbal e conforto per noi non indenni dalla commozione. Forse Uxbal è un predestinato, la metafora del gufo rivelata alla fine, la sua “dote” soprannaturale di “sentire” l’ultimo afflato condivisa con l’amica Bea, la sua stessa paura infantile del mare, del non sapere cosa ci sia là sotto in fondo agli abissi, ci potrebbe far propendere per il senso del mistero. Il mistero di un qualcosa nell’aldilà che trascende dalle logiche terrene dell’aldiqua e del quale Uxbal aveva a volte avuto qualche sentore. Non posso fare a meno di pensare a un altro capolavoro sulle stesse tematiche, “ The Tree of Life” di Terrence Malick. Ripeto, a mio parere un capolavoro assoluto, profondo, vero cinema capace di intime riflessioni su tematiche troppe volte snobbate per esorcizzare quelli che sono gli spauracchi della vita. L’ordine del giorno del benessere anestetizzante è imperativamente divertirsi, evitare elucubrazioni mentali troppo profonde, quindi non parlare di Dio o della morte se non in chiesa, pena il rischiare di essere tacciati di porta sfiga o, per lo meno, di uccelli del malaugurio. Per tutti gli altri esistono autori e registi del calibro di Inarritu! Sono in molti ad aver rimproverato una presentazione troppo lugubre e buia della capitale catalana, a costoro posso in parte accondiscendere ma, come sopra accennato, le zone riprese sono effettivamente come appaiono nel film, e la fotografia particolare di Prieto non fa altro che aiutarci a enfatizzare il nostro coinvolgimento psicologico nella tragedia della vicenda.

L’ultima volta l’ho visto con mia figlia (diciassettenne) a fianco, e non ho remore nell’ammettere una sincera commozione (che solitamente non mi coglie guardando un film) nel corso della seconda sequenza (la prima è all’inizio) in cui la figlia stringe la mano del papà morente continuando a chiamarlo con voce sussurrata – papà-papà- papà- senza ottenere risposta. Dopodiché la sequenza vira per continuare il formidabile dialogo di inizio film tra Uxbal e il suo giovane (anagraficamente) papà, atteso per tutta la vita. Con lui si incamminerà verso ciò che non si vede ma che sovente aveva sfiorato. Raramente avevo assistito ad un phatos così avvolgente tra la vicenda narrata e gli spettatori! Inarritu ci immerge gradualmente nella tragedia sempre più angosciante - non così rara in certi contesti - di una famiglia nella quale non possiamo fare a meno di venire emotivamente coinvolti per essere partecipi e metabolizzarne il dolore. Chiudo con una parola: sublime. Sugli interpreti principali: non sarebbe stato possibile ingaggiare un altro attore per ottimizzare la parte di Uxbal, un Bardem, tenebroso, bellissimo e, nel contempo, bruttissimo nella sua inquietante personalità, veramente da Oscar. Nelle vesti di Malambra una Maricel Alvarez, sicuramente tutto fuorché bella ma perfettamente centrata nel suo ruolo. Un Eduard Fernandez come sempre bravissimo qualsiasi sia il ruolo affidatogli e, non in ultimo, l’indubbia bravura dei figli di Uxbal, in particolare Hanaa Bouchaib nei panni di Ana e, a seguire, tutti gli altri, cinesi e non. Chapeau a tesa larga!

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