Dal 7 novembre è disponibile su Netflix Non stare a guardare, una nuova serie coreana che ha già attirato l’attenzione della critica internazionale con la sua anteprima al 30° Busan International Film Festival. La serie, diretta da Lee Jeong-lim e scritta da Kim Hyo-jeong, è tratta dal romanzo giapponese Naomi & Kanako di Hideo Okuda. Ma non si tratta di un semplice adattamento: è una trasposizione che scava a fondo nel legame tra due donne, nella violenza domestica, e nella decisione estrema che cambia tutto.
La storia non si limita a raccontare un omicidio: esplora cosa significa scegliere la violenza come risposta alla violenza, e lo fa in una Corea del Sud contemporanea in cui le apparenze, come spesso accade, servono a mascherare l’abisso.

Quella che non dimentica
Nella serie Netflix Non stare a guadare, Eun-su lavora come VIP handler in un grande magazzino di lusso. Il suo ruolo professionale la mette a contatto con clienti facoltosi e ambienti patinati, ma sotto quella superficie impeccabile c’è il peso di una memoria dolorosa: da bambina ha assistito agli abusi del padre sulla madre. Quella violenza, incassata senza possibilità di reagire, non l’ha mai lasciata davvero. Eun-su è un personaggio che ha imparato a non mostrare crepe, ma vive con una ferita aperta che diventa detonatore quando la violenza colpisce di nuovo, questa volta la sua migliore amica.
Il personaggio interpretato da Jeon So-nee è un esempio di controllo apparente che si sfalda nel momento in cui il passato e il presente si fondono. Eun-su non è l’eroina classica, né una vendicatrice: è una donna che riconosce il dolore e, questa volta, decide di non voltarsi dall’altra parte.
Quella che non scrive più
Hui-su è l’amica di sempre, una donna che un tempo scriveva libri per bambini. La scrittura, però, si è fermata da quando la sua vita è diventata una prigione sotto il controllo di Jin-pyo, suo marito. L’ambizione letteraria è stata inghiottita dal terrore quotidiano. Hui-su non cerca la salvezza, perché ha smesso di crederci. Ma accetta la mano tesa da Eun-su, ed è in quel momento che la loro amicizia si trasforma in alleanza.
Lee You-mi interpreta Hui-su con un’intensità che riflette la condizione di molte donne: soffocata, invisibile, disperata. Eppure, quando decide di reagire, non lo fa per vendetta o riscatto personale. Lo fa perché sente che è l’unico modo per restare viva e non solo nel senso fisico.

La violenza che non fa rumore
Jin-pyo non ha bisogno di essere mostrato in azione per incutere paura. È la classica figura maschile che sa come manipolare, isolare, dominare. Non è un “mostro” caricaturale, ma un uomo ordinario che incarna una violenza sistemica, domestica, invisibile agli occhi esterni. L’omicidio che dà il via agli eventi della serie è, in un certo senso, già stato “legittimato” da ciò che lui ha inflitto nel tempo.
Il personaggio è interpretato nella serie Netflix Non stare a guardare da Jang Seung-jo, che riesce a rendere Jin-pyo disturbante proprio nella sua apparente normalità. La serie non cerca di umanizzarlo, ma nemmeno lo trasforma in un villain da soap. È la banalità del male che vive accanto a noi.
Il burattinaio silenzioso
Accanto a questa rete di relazioni tossiche e disperate, si muove un’altra figura inquietante: Jin So-baek, proprietario del Jinkang Store. La sua presenza è più sfumata, ma non meno significativa. È un osservatore, forse un manipolatore, sicuramente qualcuno che sa più di quanto lascia intendere. In una serie dove ogni gesto può essere un rischio, Jin So-baek rappresenta la minaccia che non si vede arrivare.
Quando il trauma si fa complice
Uno dei temi più forti della serie Netflix Non stare a guardare è la solidarietà tra donne nate dalla condivisione del dolore. Eun-su e Hui-su non si salvano a vicenda con discorsi o gesti eroici. Si stringono una accanto all’altra e, da quella posizione fragile, fanno qualcosa di irreversibile. La loro non è una scelta “femminista” nel senso ideologico, ma è un gesto di resistenza. È una forma di amore che ha un prezzo altissimo.
La serie, pur raccontando una storia estrema, riflette una realtà quotidiana: quella in cui la violenza viene ignorata, minimizzata, nascosta. E ci chiede, fin dal titolo, se sia accettabile restare a guardare.

Nessun lieto fine, solo una domanda aperta
La serie Netflix Non stare a guardare non offre conforto. Il suo obiettivo non è rassicurare lo spettatore né offrirgli una chiusura netta. È una serie costruita su un crimine, ma non parla solo di colpe o di leggi. Parla di una realtà in cui le istituzioni non proteggono, in cui l’amore può uccidere, in cui le donne devono spesso salvarsi da sole.
Alla fine, non resta da chiedersi chi ha vinto, ma piuttosto che cosa è rimasto di loro dopo. E se quel gesto estremo abbia davvero aperto una via d’uscita o solo un altro inferno.
Lo schermo come specchio, e non come rifugio
Non stare a guardare è una serie che non si può guardare con distrazione. Chiede attenzione, giudizio sospeso, e la capacità di sostenere l’ambiguità morale dei suoi personaggi.
Nel panorama delle serie crime e drammatiche, si distingue per la sua struttura compatta, la tensione costante e soprattutto per la verità emotiva che trasmette. Non ci sono santi né mostri. Solo esseri umani spinti al limite, costretti a decidere se sopravvivere significhi uccidere e, soprattutto, se riusciranno a convivere con ciò che hanno fatto.
Perché a volte, per non stare a guardare, si paga un prezzo. E la serie non fa sconti a nessuno.

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