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Venti di Primavera e/o Venti per l'Estate 2024.
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Venti di Primavera e/o Venti per l'Estate 2024.

A prescindere dall'anno di distribuzione, i venti titoli migliori (di film, serie e tutto quello che sta in mezzo e oltre i due estremi) cui ho assistito e/o dei quali ho scritto su FilmTV.it nei mesi di Marzo, Aprile e (la prima metà di) Maggio del 2024, più un paio di libri, una manciata di dischi e un pensiero per Steve Albini, Adriano Aprà, Paul Auster, John Barth, Laurent Cantet, Roger Corman, Paola Gassman, Louis Gossett Jr., Steve Harley, Peter Higgs, Roberto Leoni (che era attivo anche qui - @robertoleoni - su FilmTV, un posto solo leggermente più strambo del "Santa Sangre" di Alejandro Jodorowski per il quale collaborò alla sceneggiatura), Giovanna Marini, Gigio Morra, Alice Munro, Maurizio Pollini, Richard Serra, John Sinclair, Paolo Taviani, Vernor Vinge ed M. Emmet Walsh.

 

 

Nota a margine. (Tracce di Rosso.)

Quasi certamente questa sarà l’ultima playlist (chiusa anche in anticipo di due settimane) del “meglio trimestrale”: sostanzialmente è un lavoro di copia-incolla che non porta via neanche troppo tempo (a parte un po' di taglia e cuci specialmente con le copertine degli album), ma tutto sommato non vale assolutamente la pena continuare con la loro compilazione.

(L'assenza di anche solo una minima parvenza di una linea editoriale seria che dia delle garanzie non ha certo contribuito a, per quel che vale, farmi cambiare idea.)

 

 

• Film & Serie.

- Three Women (Lisa Taddeo, 10 ep., 2023, U.S.A.)
- Ripley (Steven Zaillian, 8 ep., 2024, U.S.A.)
- C'è Ancora Domani (Paola Cortellesi, 2023, ITA)
- Poor Things (Yorgos Lanthimos, 2023, GRE-U.S.A.-GBR-IRL)
- la Chimera (Alice Rohrwacher, 2023, ITA)
- Coup de Chance (Woody Allen, 2023, U.S.A.)
- Love Lies Bleeding (Rose Glass, 2023, GBR)
- Drive-Away Dolls (Ethan Coen, 2023, U.S.A.)
- Dune - Part Two (Denis Villeneuve, 2023, CAN)
- Gideon's Day (John Ford, 1958, GBR-U.S.A.)

- E poi: Macbeth (Joel Coen, 2021, U.S.A.), Antonia (Chiara Malta & Chiara Martegiani, 6 ep., 2024, ITA), Bodkin (Jez Scharf, 7 ep., 2024), That Mothers Might Live (Fred Zinnemann, 1938, U.S.A.), the New Look (Todd A. Kessler, 2024, U.S.A.), eccetera eccetera.

 

 

• Libri.

- Jungle (Patrick Roberts, 2021).

Il pianeta Oceano e il pianeta Deserto da una parte, e dall’altra il pianeta Foresta solcato da un mosaico d’intervallanti steppe, savane, taighe, praterie, brughiere: gli ominidi ominini scendono dagli alberi e iniziano a camminare eretti sul mare d’erba con tutte quelle mani e quelle dita e quei pollici opponibili liberi di concretizzare il Pensiero e immaginare il futuro di specie nonostante la consapevolezza (mitigata in parte dal conforto magico-religioso) della propria finitezza individuale.

Col sottobosco di crittogame pteridofite (felci) e la volta arborea composta principalmente prima da fanerogame (spermatofite) gimnosperme (conifere) e poi, dopo l’evento asteroideo di estinzione massiva di Chicxulub marcato all’iridio 65.000.000 di anni fa con il limite K-Pg, Cretaceo-Paleogene (ex K-T, Cretaceo-Terziario), da angiosperme (latifoglie sempreverdi e decidue), le foreste pluviali tropicali hanno iniziato a svilupparsi all’incirca 300.000.000 anni orsono, nel bel mezzo del Carbonifero, mentre Homo sapiens di anni ne ha circa 300.000 e l’Antropocene è una definizione ancora in divenire, letteralmente, comprendendo un periodo che parte dalla domesticazione del fuoco e giunge all'alba della seconda rivoluzione industriale (l’era nucleare invece potrebbe mettervi fine), passando per la prima rivoluzione agricola del Neolitico nella Mezzaluna Fertile.

La tardo-pleistocenica diaspora umana, che dalla culla del gattonamento evolutivo delle savane africane ha pervicacemente portato – vuoi per “amor di scoperta e d’avventura” perennemente rinfocato dall’innata curiosità che ci contraddistingue, vuoi per necessità sorte a causa di dispute, scontri e guerre territoriali in continuo rinfocolamento tanto per l’indole che ci qualifica quanto per via delle costanti ondate di cronico sovrapopolamento dovute alla relativa abbondanza delle risorse generate – Homo sapiens a diffondersi in un poliedrico catalogo planetario che spazia dalle Ande all’Himalaya, dall’Artide alla Polinesia e dal Kalahari/Namib (ché il Sahara, al culmine dell’Ultimo Massimo Glaciale, era un’immensa oasi verde monsonica) all’outback australe passando per il Madagascar (e la sua megafauna estinta non tanto dagli esseri umani di origine africana ed austronesiana di ritorno quanto piuttosto dall’infinita famelicità degli imperi colonialisti europei coi loro “pre”-capitalistici interessi consumistico-mercantili) ogni ambiente abitabile (un po’ adattandovisi, un po’ plasmandolo) della Terra, è al centro del poderoso ed estremamente affascinante saggio scientifico-divulgativo (e opera prima), corredato da un’imponente apparato di note a piè di pagina, di Patrick Roberts (archeologo, etnografo e paleo-ecologo presso il Max Planck Institute of Geo-Antropology di Jena, in Germania), classe 1991, che tratta in maniera al contempo estesa e precisa lungo tutta la sua enorme mole la storia della diffusione della nostra specie animale in quelle che si possono definire – in direzione opposta rispetto a quella tracciata dalla vulgata mainstream della letteratura scientifica che più o meno le ha da sempre (fors’anche contro-intuitivamente per l’esperienza delle persone comuni) considerate, in relazione (non solo all’espansione ominina al di fuori del grembo materno africano, ma proprio riguardo) alla genesi di sapiens, neanderthal & c., dei Deserti Verdi che poco hanno contribuito all’evoluzione e all’espansione delle tribù bipedi post/oltre-habilis/ergaster/erectus – le Foreste dell’Abbondanza, caratterizzate anche (come telerilevato dalle scansioni LIDAR nel Sud-Est Asiatico, Centro-Sud America e Africa Equatoriale) da un urbanesimo a bassa densità abitativa (si stima che nell’Amazzonia pre-europei vivessero dagli 8 ai 20 milioni di persone) fondato sull’agricoltura (addebbiatura a mosaico ciclico) e governato da un’eterarchia orizzontale: metropoli pluviali (o, più “romanticamente”, città-giardino) estese a spaglio attraverso le giungle (orti selvaggi) coltivate.

 


- Poor Things (Alasdair Gray, 1992).

   Sentendomi sollevato ma geloso li osservai per un po'. Alla
fine mi sedetti accanto a Bella, la abbracciai e posai il capo sul-
  la sua spalla. Non era completamente addormentata, perché
               spostò il corpo per farmi stare più comodo.
                              Restammo a lungo in
                                  quella posizione.

 

• Dischi.

Arab Strap – “I’m Totally Fine with It Don’t Give a Fuck Anymore”; Kee Avil – “Spine”; Cesare Basile – “Saracena”; Vasco Brondi – “Un Segno di Vita”; Nick Cave and the Bad Seeds – “Wild Gold”; Alice Coltrane – “The Carnegie Hall Concert (Live 1971)”; Cor Veleno –“Fuoco Sacro”; Estra – “Gli Anni Venti”; Fontaines DC – “Romance”; Beth Gibbons – “Lives Outgrown”; Kim Gordon – “The Collective”; Julia Holter - “Something In The Room She Moves”; King Hannah – “Big Swimmer”; Mark Knopfler – “One Deep River”; Adrianne Lenker – “Bright Future”; Mace (Simone Benussi) – “Māyā”; Mount Kimble – “the Sunset Violent”; Nobraiono – “Animali da Palcoscenico”; Perturbazione – “La Buona Novella (Live 2010, con Nada e Alessandro Raina)”; Jessica Pratt – “Here in the Pitch”; Giuni Russo – “Energie (Live Bootleg 1982)”; Paolo Spaccamonti – “Nel Torbido”; Tamburi Neri – “La Notte”; Emiliana Torrini – “Miss Flower”; Paul Weller – “66”, Neil Young & Crazy Horse – “Fuckin’ Up (Live 2023)”.

Poi, non c'entra un'emerita ceppa, ma adesso vi beccate l'aussie punk di Amyl (Amy Taylor) and the Sniffers sul palco del Sonora Tent al Coachella del 2022.

Playlist film

Tre donne

  • Drammatico
  • USA
  • durata 130'

Titolo originale Three Women

Regia di Robert Altman

Con Sissy Spacek, Shelley Duvall, Janice Rule, Robert Fortier

Tre donne

 

No, non quelle altmaniane, ovvero Shelley Duvall (Millie), Sissy Spacek (Pinky) & Janice Rule (Willie), ma le "Three Women" (10 ep., 2023) di Lisa Taddeo.

Nell’estate del 2019, contemporaneamente (quindi, come spesso accade, con bozze ed intenzioni che giravano sottobanco già da un po’) alla pubblicazione a cura dei tipi di Simon & Schuster dell’omonimo saggio (semi-auto) biografico non romanzato (che in Italia uscirà pochi mesi dopo tradotto per Mondadori da Ada Arduini e Monica Pareschi), oltre che opera prima, la cui gestazione è durata 8 anni di interviste alle protagoniste e ad alcuni loro famigliari ed amici attraverso il Big Country odierno, Showtime/Paramount si assicura i diritti per trarre da esso la realizzazione di una mini-serie (che per questioni di riorganizzazione interna abbandonerà a prodotto completato e sarà poi acquistata - con detrazioni fiscali annesse - e distribuita da Starz/Lionsgate) il cui adattamento (messo in scena dalle registe Louise Friedberg, per 3 ep., So Yong Kim e Cate Shortland, per 2 ep. ciascuna, e Lisa Brühlmann, Ekwa Msangi e Nathalie Álvarez Mesén, ognuna per 1 ep.) è affidato (con la collaborazione di Chisa Hutchinson, Laura Eason, Tori Sampson e Jackson Waite) alla stessa autrice Lisa Taddeo (che esordì il… primo aprile del 2008 con un pezzo di reported fiction, narrativa riportata/romanzata, sugli ultimi giorni di vita di Heath Ledger) e che nel passaggio dalla pagina allo schermo muta principalmente di un solo aspetto della vicenda (a parte il fatto che il nuovo medium possiede la capacità del camera-look, qui parsimoniosamente ammiccante, dosato alla perfezione e senza il corollario dell’interpellazione diretta), ben riassunto in uno scambio di battute del nono e penultimo episodio in cui l’agente/editor della scrittrice le dice chiaramente che senza il personaggio di Sloane il libro è un po’ deprimente, e alla gente non piace essere depressa, ma se avesse comunque intenzione di deprimerla, beh, che lo facesse, assolutamente, ma poi la risollevasse, perché “si tratta di un rollercoaster (ottovolante): devi cavalcarlo, devi andare su e giù, e tu adesso sei giù”: infatti passando dalla letteratura al cinema l’ulteriore, obbligato?!, passaggio di de-depressione è costituito dal fatto che nella versione audiovisiva è Sloane a reggere le fila del desiderio e non il consorte.

Rashomon / the Last Duel.

Questa non è un'opera di narrativa. Nel corso di otto anni ho trascorso migliaia di ore con le donne che appaiono in questo libro: di persona, al telefono, tramite sms e email. In due casi mi sono trasferita per un po' nelle città in cui vivevano, così da potermi fare un'idea più precisa della loro vita quotidiana. Mentre ero lì ho vissuto di persona parecchi dei momenti che ho inserito nel libro. Per quanto riguarda gli episodi accaduti prima o in mia assenza, mi sono basata sui loro ricordi, sui loro diari e sui loro racconti. Ho intervistato amici e familiari, e le ho seguite sui social. Ma perlopiù ho seguito il punto di vista delle tre donne.
Ho usato documenti giudiziari, articoli della stampa locale e ho parlato con giornalisti, giudici, avvocati, investigatori, colleghi e conoscenti per avere conferma dei fatti e della loro successione temporale. Quasi tutte le citazioni provengono da documenti legali, email, lettere, registrazioni e interviste con le donne e con altre persone che compaiono nel libro. L'eccezione più importante riguarda l'unico caso in cui gli sms, le lettere e alcune email non erano disponibili. Qui il contenuto si basa perciò sul resoconto ripetuto più volte dal soggetto [Maggie; NdR], resoconto che il destinatario dei messaggi [Mr. Knodel; NdR] ha contestato.
[...]
Sono convinta che queste storie comunichino verità fondamentali sulle donne e il desiderio. Alla fine, però, sono solo queste tre donne a essere responsabili di ciò che narrano. Di ogni storia esistono tante versioni, questa è la loro.

 

Soundtrack: “Reason or Rhyme” di Bryan Ferry.    

 


1.
(Gia) Lisa.

La storia che racconta le altre storie, compresa la propria.

 
Shailene Woodley (the Secret Life of the American Teenager, the Descendants, White Bird in a Blizzard, the Mauritanian, To Catch a Killer) riesce a restituire la complessità di un personaggio non facile: per quel che le succede (la possibile/probabile cancerosa neoplasia polmonare maligna e il tûmù duçe benignu che fino al momento del parto non le “consente” di effettuare esami diagnostici a contrasto) e per come reagisce. (Comunque Lisa Taddeo ad oggi è “coniugata con figlio” e ha scritto altri due libri: “Animal” e “Ghost Lover”.)

Comprimari: John Patrick Amedori (Jack, aka Povero Cucciolotto Tenerone).

Soundtrack: “Non c’è più niente da fare” di Bobby Solo e “My Mona Lisa” di Terry Blackwell.

 


2. I.
Lina, Indiana.

“I want you to use my name. Say my fucking name!”

La storia più normale, nel senso di comune. Una favola iperrealista (“qualcosa brucia così intensamente che è destinato a spegnersi”), dunque.
Pressoché un test di Bechdel vivente che in pratica sta sperimentando l’esilio in B&N di Kim Wexler alla fine di “Better Call Saul” e succhia e mastica con del tutto naturalmente ostentata quanto ingenua/innocente lascivia pure l’ostia, o forse è solo (bisogno d’amore che si trasforma in) amore, condizionato da uno stupro di gruppo (“the Brown Bunny”) infertole al liceo.

 
Betty Gilpin (Nurse Jackie, GLOW, the Hunt, Roar, Mrs. Davis) è una delle migliori attrici in circolazione negli iunaitedsteits, e qui lo dimostra al meglio, e non certo solo per il controcampo del suo volto in solenne ammirazione dell’Epifanica Erezione: datele un Oscar, datele una Palma, datele un Leone, datele un paio di Golden Globe, datele una manciata di Emmy, datele un sacco e una sporta di Ciak d’Oro, datele una costellazione sulla Walk of Fame, datele una piantagione di Carrube d’Oro con le silique di platino ripiene di carati fatti di rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti, datele una piramide, datele il Molise, datele un asteroide, datele Pieni Poteri, datele la valigetta col bottone Fine di Mondo: lei saprà cosa farne, e come sempre al meglio.

 
Comprimari: Ravi Patel (il miglior dottore al mondo, punto) e Austin Stowell (Aidan, aka Cucciolotto Malandrino) e Augie Murphy (Lisa da adolescente).

Soundtrack: (“A good damned orgasm!”, e poi parte) “Human Touch” di Bruce Springsteen [nota: avete rotto il cazzo col fatto che “Human Touch” – che contiene pure “57 Channels (And Nothin’ On)” – e, di sponda/conseguenza, “Lucky Town” siano i suoi album peggiori, ché non v’è alcun peggio nella boss-career] e – dalla playlist “Per sesso in motel e/o in automobile con Aidan” - “Beauty” di the Shivers.

 


3. II.
Sloane, Massachusetts.

“So, the itch is cratch?”

La storia (resa) più leggera (ma non per questo meno emozionante). Triangoli, quadrangoli, pentapartiti, preservativi fantasma al limite dello stealthing (e "I May Destroy You" è forse la serie che più entra in dialogo con "Three Women"), triptammine psichedeliche...

 
DeWanda Wise (“She’s Gotta Have It”) regina di Wakanda, della Terra e di questa parte di Universo tutto forever.

Comprimari: Blair Underwood (aka Cucciolone), April Grace (la madre di Sloane), Blair Redford e Lola Kirke.

Soundtrack: “Why You Do Me Like That” di LaTasha Lee (“Sloane only listens to music written, composed or performed by Black women.” - “It's just that… we do it so much better!”).

 


4. III.
Maggie, North Dakota.

“Can you imagine?”

La storia più complessa, anzi: complicata.

«Ci saranno persone che diranno che nulla di quello che le è successo è stato contro la sua volontà. Che aveva 17 anni. Che nel giro di pochi mesi legalmente non sarebbe stato nemmeno più considerato uno stupro. Ma… immagina una ragazza che ha idealizzato una storia d'amore da favola [“Twilight”, libro e film], che leggendo le note a piè di pagina lasciate dal suo amante tra le pagine del libro dicendo efficacemente: "Sì, sì, io sono il tuo amante vampiro e tu sei il mio frutto proibito. Noi due siamo la tua storia d’amore preferita. Per il resto della tua vita niente avrà un sapore come questo.” Riesci a immaginare?»

 
Gabrielle Creevy (“In My Skin”) ha un ruolo forse ancor più difficile di quello affidato a Shailene Woodley, ma riesce a mettere in scena un’ottima caratterizzazione di un personaggio non certo, al netto dei fatti accadutile, dispensante empatia.

Comprimari: Jason Ralph (Mr. Knodel, il cucciolo d’orco), Brían F. O'Byrne (Million Dollar Baby, the New World, Bug, Mildred Pierce, the Wonder) ed Heather Goldenhersh (rispettivamente il padre e la madre di Maggie), eccellenti.

Soundtrack: “Bright Smile” di Josh Ritter.

 


5.
Pia, Bologna (un po’ troppo collinosa, ma va beh).

Jaclyn Albergoni (la madre di Gia/Lisa), in saliscendi, con Vittorio Viviani (il maniaco masturbatorio) e Christine and the Queens (Héloïse Adélaïde Letissier) in sottofondo che, pur bravo, da francese anglofono tortura non poco l’italiano (non come Celentano con l’inglese, ma piuttosto come Rutelli con la lingua d’Albione).

 

6.
Partecipazione speciale di (Mirian) Mereba.

 

Three (five) Women (for women, men, people), or: “What happens now?” 

 

Recensione. (In attesa che venga creata una scheda nel database di ftv.it l'ho editata come playlist.)

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Ripley

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale RIPLEY

Con Patricia Highsmith, Andrew Scott, Johnny Flynn, Maurizio Lombardi, Dakota Fanning

Tag Thriller, Coppia, Crimini, Intrighi, Italia, Anni '60

Ripley

In streaming su Netflix

vedi tutti

 

"I like girls."

 

Dickie Greenleaf non capisce (poi lo comprende e gioca sul fatto un po' vero - finendo con l'ostentare di sponda il suo status di mantenuto benestante - e un po' no che non gl'importi troppo) di essere stato truffato (un tòpos del "genere" cinenarrativo identificabile e denominabile come "straniero in terra straniera": cfr. da questo PdV la scena similare presente in "the White Lotus: Sicily") e contemporaneamente Tom Ripley non capisce (o getta un'esca con un doppiogioco in sottrazione?) di essersi rivelato (come a una festa delle mediuglie ilcieloinunastanzacentrica) in quanto queer: quale ingenuità peserà maggiormente a questo mondo?

 

 

“He is queer? I don’t know. Non credo sia abbastanza normale per avere un qualche tipo di vita sessuale.”

 

E poi: “A che piano?”, chiede Tom Ripley all’ennesimo portiere d’albergo facendo segno col dito puntato verso l’alto. E gli risponde, quello: “Giù. A destra, giù.” 

 

- Ep. 1-3: "I like girls!", o: Breve Film sull'Uccidere.
- Ep. 4: “Bella penna!”, o: “La luce... Sempre la luce.”
- Ep. 5-7: il mondo è fatto a scale (e di ascensori a-sociali).
- Ep. 8: il gioco del topo col topo.

 

- Photo-Post: Ripley/Escher (e Caravaggio/Picasso).

 

"Ripley" (Highsmith by Zaillian), ovvero: Tutte le (robertelswitiane) Sfumature di Grigio del Sangue.

 

Recensione

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

C'è ancora domani

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 118'

Regia di Paola Cortellesi

Con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli

C'è ancora domani

IN TV Sky Cinema Due

canale 302 altre VISIONI

 

Segunda Feira.

 

Neo-NeoRealismo PostModerno-Minimalista.

 

Se non l’unico e solo, senz’altro il più vero e grande, e soprattutto originale, anche se non nel senso biblico del termine, peccato di “C’è Ancora Domani”, l’esordio dietro alla MdP di Paola Cortellesi, da lei scritto con i collaboratori di lungo corso se non di sempre Furio Andreotti (non è parente) e Giulia Calenda (monicelliana nipote e figlia e calendiana sorella) e recitato dannatamente bene con Valerio Mastandrea, Giorgio Colangeli, Emanuela Fanelli, Vinicio Marchioni, Romana Maggiora Vergano, Francesco Centorame, Paola Tiziana Cruciani, Lele Vannoli, Federico Tocci, Alessia Barela e Jonv Joseph [mentre la fotografia “semplicemente” in bianco & nero è di Davide Leone (“Romantiche”), il montaggio di Valentina Mariani (“Petra”), le musiche di Lele Marchitelli (da “Avanzi”, “Tunnel”, “Pippo Chennedy Show” e “la TV delle Ragazze - gli Stati Generali” a “Mare of EastTown” passando per Paolo Sorrentino) e la produzione di Vision & WildSide], è quello di venire ben tre anni dopo l’ultimo capolavoro del neorealismo italiano, ovvero quel “A Piedi Scarzi” (Emanuela Fanelli x "Una Pezza di Lundini") che, a sua volta erede diretto del cinema di Mario Brenta, Silvano Agosti, Domenico “Nico” D’Alessandria e del primo Matteo Garrone (quello di Terra di Mezzo, Ospiti ed Estate Romana), nel 2020 sovra/ri-scrisse una larga parte della storia dell’italica settima arte rinnovandone prepotentemente la virulenta forza rivoluzionaria.

 

 

La Costituente.

 

Tutta la fame d’Italia in un morso dato da Alvaro (Lele Vannoli) a un panino a tramezzo preparatogli da Delia (Paola Cortellesi), mentre gli americani si fumano le puntarelle e il domani, che dovrebbe esserci, ancora – e che nel frattempo dialoga con l’ieri a guisa di oggi: Achille Togliani, dalla hit-parade del tempo, che già accompagnava & che poi accompagnerà - filologia maxima, con diversa canzone (da “Perdoniamoci” a “la Signora di Trent’Anni Fa”) - il risveglio sobriamente canticchiante della servetta Maria in “Umberto D.” (Vittorio De Sica, 1952) –, viene trasportato in extradiegesi per Testaccio dalla musica, ché lynchanamente tanta ce n’è, sempre, nell’aria [da un non proprio “solito” Lucio Dalla (“la Sera dei Miracoli”) alla Musica Nuda di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti (“Nessuno” post-Mina), passando per gli OutKast, the Big Gigantic feat. Angela McCluskey e, metacinematograficamente diegetico, Daniele Silvestri], in cronosismatica crasi di Fiorella (Cheru)Bini e dei Jon Spencer Blues Explosion e la stessa Delia, dopo che il segno a tempo del buongiorno mattutino a cinque dita rovesciatole in faccia da Ivano (Valerio Mastandrea) - che ha fatto due guerre, e da questo PdV allora la protagonista è l'epitome perfetta del napoleonico-nietzschesco svago del guerriero & riposo del soldato - ha cominciato a svanire e in attesa vuoi dell’antenato del “Ti è piaciuto?” di Corrado Guzzanti a Carla Signoris (“Tunnel”, 1994), vuoi dell’idillio burino-campestre (ottimo de-aging in CGI) precursore della variazione tiromancinesca delle sigle vianello-mondainiche della seconda metà degli anni settanta del ventesimo secolo (“la Descrizione di un Attimo” di Frankie Hi-NRG MC e Riccardo Sinigallia, 2001), toglie dalle bocche dei suoi figli metà della cioccolata ricevuta in dono di ringraziamento da William (Yonv Joseph) condividendone due tocchi con Nino (Vinicio Marchioni), il suo amore, baciandolo per interposto burro di cacao con un girotondo (della MdP) armonizzato da Fabio Concato (e “Notorious”, a Cannes quell’anno, scansate), per poi accendersi due paglie con Marisa (Emanuela Fanelli), l'amica della vita (che lo vorrebbe, essere madre), in attesa - scavalcando gli occhi serratamente aperti del suocero (Giorgio Colangeli) - di fare la propria, di parte.

 

Scrutinio.


Primi 4/5: * * * * ½ [un film al calor bianco, salvifico atto dinamitardo compreso, mentre il nero (non il "negro", ma quello che a giocarci "con", non "contro", perdi sempre, per citare il poeta) volta gabbana e si ricicla].
Ultimo 1/5: * * * ¾ [il punctum barthesiano è stori(ografi)camente e sociologicamente preciso, netto, limpido e sacrosanto, l’espediente/dispositivo poteva essere veicolato/architettato meglio].
Totale ponderato: * * * * ¼ - 8.50

“Con cu€sti mo ci vai a scuola.”     
E quel “ci”, in italiano, ti riempie, ti culla e ti strugge il quore.

- “Nun te vergogni?”
- “No.”

C’è ancora domani, sì, ed è (stato), e sarà, tutto Sol€. Cuor€. Amor€.    

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Povere creature!

  • Fantascienza
  • USA, Irlanda
  • durata 141'

Titolo originale Poor Things

Regia di Yorgos Lanthimos

Con Willem Dafoe, Margaret Qualley, Emma Stone, Christopher Abbott, Mark Ruffalo

Povere creature!

In streaming su Disney Plus

vedi tutti

 

"Incidi sempre con compassione." 

 

S’inceppa non molto semplificandosi un po’ nel finale -[Bella Baxter non si merita quest’ambiguità: “I won't watch him bleed to death”, ovvero “Non starò qui a guardarlo mentre si dissangua a morte”, inteso come “Non lo lascerò morire dissanguato”, vale a dire “Non lo lascerò morire, punto”, e poi ecco il – giustificabilissimo, eh, ma senza quel sentor d’ipocrisia (che non è sano sberleffo) in bocca alla protagonista, ché non le appartiene – general Capra]-, ma per 9/10 “Poor Things” si dimostra quale il miglior film (ed anche, cioè, il più importante) di Yorgos Lanthimos (nonché il suo lavoro più kubrickiano, e penso soprattutto ad “A ClockWork Orange”, con echi meno direttamente risonanti da Lynch e Gilliam, se pur al netto di alcune, per la verità poche, incertezze nella composizione degli stacchi, a volte un po’ retorici) al pari di “Kynodontas”, entrambe opere concretamente mitopoietiche, e forse quest’ancor più dell’altra, e che le altre contiene: dal PdV stilistico-formale (soprattutto “the Favourite”) e da quello contenutistico-sostanziale [la meta-immedesimazione di “Kinetta”, il Controllo Totale veicolato dall’insegnamento dello stesso “Kynodontas”, la soddisfazione del bisogno, più che del desiderio, di comprare e possedere (qui creare) un simulacro di conforto e consolazione tutto per sé di Alpeis, l’antispecismo militante, ma di facciata, perché subordinato alla manifestazione del Potere Costituito, di “the Lobster”, la messa in pratica di un senso della giustizia – qui più etico che – (im)morale di “the Killing of a Sacred Deer” e il sesso e, più che la lotta di classe, lo scontro fra classi di “the Favourite”].

 
- Un homme?
- Oui.
- Voilà!

 
Sostenuto dalla performance "totalitaria" - tra “hairy business” & “furious jumping” - di Emma Stone (“SuperBad”, “Magic in the MoonLight”, “BirdMan”, “Irrational Man”, “La La Land”, “Maniac”, “the Favourite”, “the Curse”, “Kinds of Kindness”, “Eddington”) che trasporta e anima il film così come Bella Baxter porta a spasso sottobraccio il povero McCandless (qui Max, nel libro Archibald), “Poor Things” – che si avvale della commovente incarnazione che del personaggio letteralmente mastodontico e self-frankensteiniano di Godwin Baxter fa Willem Dafoe ("the Lighthouse") e della repellente messa in scena che del “povero” Duncan Wedderburn fa un filologico Mark Ruffalo ("In the Cut"), oltre che delle caratterizzazioni di Ramy Youssef (McCandless), Kathryn Hunter (Swiney; da “Orlando”, “the Baby of Mâcon”, “il Racconto dei Racconti”, “Black Earth Rising” e “the Tragedy of Macbeth” a “Megalopolis” e “Vicious”), Margareth Qualley (Felicity; da “Once Upon a Time in Hollywood” a "Drive-Away Dolls”, “Kinds of Kindness” e “Honey Don’t!”), Hanna Schygulla (indimenticabile), Suzy Bemba (Toinette, che compare, al séguito della protagonista, mentre assiste in un’aula di una facoltà di medicina di un’università parigina durante una sessione di dissezione autoptica nel corso di una lezione di anatomia, tra la maggioranza maschile e la presenza compartimentata di un gruppo di suore-infermiere), Jerrod Carmichael (Harry Astley), Vicki Pepperdine (Mrs. Prim), Keeley Forsyth & John Locke (la ex servitù di Victoria Blessington: "Parlami di me. Ero gentile?") e Christopher Abbott (il “povero” generale Blessington; "Catch-22") – è egregiamente fotografato [in formato 1.66:1 (parzialmente ripreso con obiettivi fish-eye, come a voler "smorzare" esplicitandolo e sottolineandolo il voyeurismo spinto, ed incorniciato da vignettature zigrinate) utilizzando per un quarto o un terzo del totale uno stock di pellicola 35mm invertibile (diapositiva) a colori (e che colori!) e in bianco e nero Kodak EktaChrome] da Robbie Ryan (Andrea Arnold, Ken Loach, Noah Baumbach e con Lanthimos da “the Favourite”), debitamente montato da Yorgos Mavropsaridis (con Lanthimos sin dal co-esordio di “O Kalyteros Mou Filos”), eccellentemente musicato da Jerskin Fendrix (Joscelin Dent-Pooley) e fantasmagoricamente scenografato (in studi ungheresi) da James Price e Shona Heath, (s)costumato da Holly Waddington e prostetizzato da Nadia Stacey – è scritto dal solo Tony McNamara, il co-firmatario del copione di “the Favourite” (il solo altro film di Lanthimos da lui non co-sceneggiato, mentre per il prossimo, l’antologico “Kinds of Kindness”, tornerà a lavorare con il collaboratore di sempre Efthimis Filippou), che l’ha adattato dall’omonimo romanzo semi-epistolare del 1992 di Alasdair Gray (1934-2019), autore contattato dal regista per discutere di una possibile trasposizione cinematografica del libro sin da quindici anni prima di quello che poi sarà l’iniziale motore-ciak-azione delle riprese: i maggiori cambiamenti rispetto al romanzo [“a parte” lo spostamento dell’ambientazione geografica principale da Glasgow a Londra - anche se l’ante-"Metropolis" (di Fritz Lang, Thea von Harbou e Otto Hunte) è Lisbona con le sue futuristiche funicolari (cabinovie e teleferiche) a guisa di tramvie aeree - e di quella storica da un Grand Tour realistico dalla Manica a Suez tra l’Età Vittoriana e la Belle Époque ad uno ucronico e cronosismatico quasi steam-punk] sono, in ordine d’importanza decrescente, il fatto che Victoria Blessington - introdottaci di nuca, ché di lei sol quella per quel momento scorgiamo, e poi le acque del Tamigi: e d’altronde questa è la storia di Bella Baxter - forse si sarebbe potuta salvare, pur consegnandole una vita freno-nosocomiale perché, citando il poeta, "di un suicida non hanno pietà" (chiaro che optando per l’alternativa, però, sono stati sottratti anni di vita utile al/la nascitur-o/a, facendol-o/a crescere in un corpo già adulto: altra azione "malvagia" da mettere in conto all’umano God); la totale espunzione della “Versione di Victoria McCandless” e della narrazione in prima persona di Archibald/Max McCandless; l’introduzione del personaggio di Felicity (la cui natura, pur intuibilmente similare a quella di Bella, è sostanzialmente inspiegata, e, se non "superflua", altrettanto egoisticamente generata e disumanamente atroce); la mostruosa crudeltà che il padre di Godwin Baxter ha riversato verso l’infanzia e la giovinezza del corpo [e“non” (?) della mente] del figlio; e la decisione molto più esplicitamente autodeterminata di Bella Baxter di diventare medico (“Se conosco il mondo posso migliorarlo!”), che dichiara indipendenza ed emancipazione ostinandosi a non alzare il socialista ed ur-laburista sguardo rapito dal libro in cerca di perenne conoscenza, esperienza e scoperta: cut. ("Incidi sempre con compassione.")

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La chimera

  • Drammatico
  • Italia, Francia, Svizzera
  • durata 130'

Regia di Alice Rohrwacher

Con Carol Duarte, Alba Rohrwacher, Josh O'Connor, Isabella Rossellini, Vincenzo Nemolato

La chimera

IN TV Sky Cinema Due

canale 302 vedi tutti

 

Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano... (Dino Campana - Canti Orfici)

 

Con “la Chimera”, la sua opera 4ª dopo “Corpo Celeste”, “le Meraviglie” e “Lazzaro Felice” [alle quali vanno aggiunti almeno, cernendoli da una più vasta produzione finzionale e documentaria, i cortometraggi “la Fiumara” (da “CheCosaManca”), “Da Djess”, “Omelia Contadina”, “Quattro Strade” e “le Pupille”, oltre a “Futura”, lavoro collettivo firmato assieme a Pietro Marcello e Francesco Munzi], Alice Rohrwacher, dirigendo e (con Marco Pettenello e Carmela Covino partendo da un soggetto condiviso con quest’ultima e con lo stesso Pietro Marcello, fresco da “l’Involo”, aka “le Vele Scarlatte”) scrivendo il film, persegue nella stilazione (fotografia di Hélène Louvart, montaggio di Nelly Quettier, scenografie di Emita Frigato , Elisa Bentivegna e Rachele Meliadò, costumi di Loredana Buscemi e codici di geometria esistenziale di Franco Battiato e Giusto Pio sui titoli di coda) di un ammirevole prosopon-phersum-personimonio tuscio-etrusco (latino-padano), dall’Arno al Tevere (dal Po al Volturno, tra sabini e sanniti, celti e lucani, Maremma e Magna Grecia), passando per la CivitaVecchia industriale di “Che ora è”, abitandolo da vascorossiche accelerazioni da comica finale (slapstick), da camera-look (sguardi indirizzati frontalmente verso la cinepresa con interpellazione diretta rivolta allo spettatore: “Forse, se ci fossero ancora gli etruschi, non ci sarebbe tutto questo machismo in Italia...”), da lacerti di AV in b/n a circuito chiuso, da aironi guardabuoi [Bubulcus (Ardea) ibis] che solo allora, all’inizio degli anni ‘80, iniziavano la loro espansione europea (e perciò la loro presenza è plausibile e non stona dal PdV scientifico-ornitologico), e da impossibili movimenti di macchina ad arco specchiati {ricongiungendosi con l’Appeso/l’Impiccato, ma anche il Traditore – il protagonista del film [interpretato da Josh O’Connor ("the Durrells", "the Crown") accanto a Carol Duarte (“A Vida Invisível”), Isabella Rossellini, Vincenzo Nemolato (“Martin Eden”, “l’Ombra del Giorno”, “il Pataffio”, “SuperSex”), Alba Rohrwacher e (un decennio di silenzio dopo “Corpo Celeste” e poi “Semina il Vento”, “il Paradiso del Pavone”, “la Bella Estate”, “il Vento Soffia Dove Vuole” e “l’Anno dell’Uovo”) Yile Yara Vianello], il tombarolo Orphéus de No’Artri in rabdomante rapporto mediato/diretto col vuoto del sottosuolo –, la 12ª carta-segno-arcano maggiore dei trionfi dei tarocchi che fa da locandina a “la Chimera”} digitalmente…


La testa sul fondo del tirrenico-appenninico lago di Bolsena è telefonata da mille miglia nautiche, ma – in questa brutta cantastoriata vicenda di tombaroli depredatori di corredi funebri: “Qualcuno fa il tombarolo per realizzare l’antico sogno collettivo dei campagnoli poveri, trovare un tesoro, un passaporto sepolto per fuoriuscire dalla povertà. Qualche altro invece è soltanto vittima della brama di ricchezza che affligge l’umanità, e si arriva in questi casi facilmente alla scelleratezza...” – come ripaion belle, lungo le due ore e passa d’ipogeo, solare piacere, Italia e Beniamina.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Un colpo di fortuna

  • Sentimentale
  • Gran Bretagna
  • durata 96'

Titolo originale Coup de chance

Regia di Woody Allen

Con Lou de Laâge, Valérie Lemercier, Melvil Poupaud, Niels Schneider, Sara Martins

Un colpo di fortuna

IN TV Sky Cinema Due

canale 302 vedi tutti

 

“Dietro ogni grande fortuna c'è un crimine.” – Honoré De Balzac.

 

Vittorio Storaro, coadiuvato da Alisa Lepselter che stacca quasi sempre un attimo prima che i personaggi escano completamente dall’inquadratura/fotogramma che in quel momento sta incorniciando anche un dipinto appeso da Véronique Melery, organizza lo spazio e in esso muove la macchina da presa su steady-cam nel modo più kubrickiano (EWS) possibile.

 
Diegesi/Mimesi: game e set, con recidiva, ma senza match.
Extra-diegesi/mimesi: game, set e match, con recidiva.

 

Coup de Chance”, il 53° (compresi “Oedipus Wrecks”, “Don’t Drink the Water” e “Crisis in Six Scenes”) film alleniano scritto e diretto dal regista ebreo newyorkese a cavallo del suo 87° compleanno, è tanto classicamente fresco quanto tracotantemente consapevole della propria cattedraticità (moralmente dialogante con l’etica di “Crimes and Misdemeanors”, “Match Point”, “Cassandra's Dream”, “You Will Meet a Tall Dark Stranger”, “Irrrational Man” e “Wonder Wheel”) e il risultato è di una leggiadria invidiabile venata da un paio di momenti di una tensione quasi insostenibile, il tutto contrappuntato - in assonanza come in dissonanza - da “Cantaloupe Island” di Herbie Hancock (1940) - interpretata da Nat Adderley (1931-2000), che suona anche le sue “Fortune’s Child” e, col suo sestetto, “In the Bag” - e da “Bags’ Groove” di Milt Jackson (aka Bags; 1923-1999), realizzata da egli stesso non nella versione con Thelonious Monk dall’omonimo album di Miles Davis, ma in quella del “suo” Modern Jazz Quartet.

 

 

Gran cast che “esegue”, e non è poco: Lou de Laâge (Respire, l’Attesa, les Innocents, Blanche Comme Neige, le Bal des Folles, Tu Choisiras la Vie), sposata (potiche, femme trophée) con Melvil Poupaud (Trois Vies et une Seule Mort, Conte d’Été, Généalogies d'un Crime, le Temps Retrouvé, Combat d'Amour en Songe, le Temps qui Reste, un Conte de Noël, le Refuge, Laurence Anyways, Victoria, Grâce à Dieu, J’Accuse, Été 85, un Beau Matin, Frère et Sœur, Jeanne du Barry, l’Amour et les Forêts) e figlia di Valérie Lemercier (Vendredi Soir, Aline), incontra Niels Schneider (J'ai Tué Ma Mère, les Amours Imaginaires, Gemma Bovery, un Amour Impossible, Sibyl, Suzanna Andler) dopo aver condiviso con lui il set di “le Cahier Noir” (pardon: le aule e i banchi di un liceo francese a New York).

 

E poi iniziano le Scene di Caccia Grossa nella Forêt de FontaineBleau...  

 

(“Hm… Quanto mi spiace mentirgli! Però gli mento lo stesso… Sì.”)

(“Restava comunque terrificante constatare il ruolo immenso svolto in tutte le cose da —.”)

 

Recensione.

 

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Love Lies Bleeding

  • Thriller
  • Gran Bretagna

Titolo originale Love Lies Bleeding

Regia di Rose Glass

Con Katy M. O'Brian, Jena Malone, Kristen Stewart, Dave Franco, Ed Harris, Anna Baryshnikov

Love Lies Bleeding

 

She Hulk.

 

Dragged Across Concrete” (S. Craig Zahler, 2018) nell’anima neo-noir, con un parziale/collaterale innesto a gemma mutante di metaforiche figurazioni body-horror (e slanci/lampi gore, ma lynchanamente à la "Lost Highway") da “Titane” (Julia Ducournau, 2021), questo è “Love Lies Bleeding” (2024), l’ottima seconda prova di Rose Glass, dopo il già ben convincente (e/ma con un finale tanto analogo/affine quanto dissimile/divergente, e già potentissimo) “Saint Maud” (2019), che si dimostra essere una conferma e un progresso.

 

“Fuck! There's more!”
Kristen Stewart (Panic Room, Undertow, Into the Wild, Adventureland, the Runaways, Clouds of Sils Maria, American Ultra, Certain Women, Personal Shopper, Café Society, Lizzie, Underwater, Seberg, Happiest Season, Spencer, Crimes of the Future, Irma Vep) e Katy O’Brian (“Z Nation”, “the Mandalorian”), coadiuvate da Ed Harris, Dave Franco, Jena Malone ed Anna Baryshnikov, sono (e dei loro personaggi non se ne salva uno che sia mezzo, né eticamente né moralmente) il film (fotografia di Ben Fordesman, montaggio di Mark Towns e musiche di Clint Mansell).

 

Da incorniciare a memoria un utilizzo abbastanza perfetto della mitica “Nice Mover” degli GXP (Gina X Performance) di Gina Kikoine & C. (canzone che diegeticamente nel film ha 10 anni, mentre l’extra-diegesi gliene appioppa altri 35) che accompagna lo spettatore verso la rappresentazione grafica, con scrocchio di falange distale d’un alluce incluso, del “Macho Sluts” (antologia di racconti BDSM che nel film ambientato nell’anno della Caduta del Muro di Berlino è fresca di stampa) di Pat(rick) Califia, e poi sui titoli di coda, in quasi totale dissonanza rispetto all’azione che si svolge al principio in primo piano e poi sullo sfondo, la d’un lustro prima rispetto all’ambientazione del film “Whisper” (new wave by Commodore Amiga, Sinclair Spectrum ed MSX) di Martin Rev(erby). E qualche frame dal "Gulliver's Travels" (1939) di Dave e Max Fleisher che da mezzo secolo prima adesso sta passando in tv.

 

 

She Hulk, ovvero: Nessuna Buona Azione Rimarrà Impunita.

(E comunque mai fidarsi pienamente di qualcuno che butta i tuorli e tiene gli albumi.)

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Drive-Away Dolls

  • Thriller
  • USA
  • durata 84'

Titolo originale Drive-Away Dolls

Regia di Ethan Coen

Con Pedro Pascal, Matt Damon, Margaret Qualley, Colman Domingo, Geraldine Viswanathan

Drive-Away Dolls

In streaming su Amazon Video

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Here goes.

 

Quella fricchettona di Miley Cyrus, aka Tiffany Plastercaster (vale a dire Cynthia Plaster Caster, 1947-2022), ai bei tempi (quando alla Pfizer ancora mancava un bel quarto di secolo per cominciare a giochicchiare col citrato di sildenafil) drogò portandolo sul più bello un ancor jovine, ma già futuro senatore perché di privilegiata schiatta, Matt Damon, ovvero Coso, Lì, Come Si Chiama, per potergli fare, con un disposofobica/apotropaica performance groupie-artistica di collateralment’estrema lungi-miranza spionistico-politico-economica, un calco in gesso del pene eretto che, assieme ad altri quattro dildi V.I.P., giunse sino all’alba dell’Y2K dove lo ritroveremo a viaggiare nel bagagliaio di una Dodge Aries assieme alla testa mozza di Un Altro Coso, Lì, Come Si Chiama, Pedro Pascal detto Santos.


“(Henry James’) Drive-Away Dykes, pardon, Dolls”, road movie andro-ginoide che muove da Philadelphia a Tallahassee la sua turgida traiettoria sotto agli occhi apertamente chiusi dei rispettivi padri fondatori (e in parte, nel bene e nel male, genius loci) bronzei, William Penn e Juan Ponce de León, è il primo film di finzione narrativa, dopo il documentario d’archivio “Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind”, scritto (con la moglie Tricia Cooke, anche montatrice, e da entrambi prodotto con Robert Graf) e diretto da Ethan Coen dopo la temporanea divisione artistica da Joel che con un po’ d’anticipo rispetto al fratello, nel frattempo impegnato anche in ambito teatrale, aveva già firmato “the Tragedy of Macbeth”, ed è anche il primo capitolo (il prossimo sarà “Honey Don’t!”) di una progettata trilogia lesbica il cui trait d’union / fil rouge dovrebb’essere costituito dalle diverse interpretazioni di Margaret Qualley ("Once Upon a Time in Hollywood", "Poor Things", "Kinds of Kindness"), qui affiancata, oltre al terzetto di comparsate già summenzionate, dalle altrettanto eccellenti e spassose prove (il casting è di Ellen Chenoweth, con Avy Kaufman e Juliet Taylor la migliore nel suo campo) di Geraldine Viswanathan (“Miracle Workers”), Beanie Feldstein (“Lady Bird”, “BookSmart”, “the Humans”), Bill Camp (“Compliance”, “the Night Of”, “the Outsider”, “Monsterland”, “the Queen’s Gambit”, “White Noise”), Colman Domingo, Joey Slotnick, C. J. Wilson e Josh Flitter.

 

Musiche di Carter Burwell, più "Blue Bayou" di Roy Orbison & Joe Melson nella versione di Linda Ronstadt, "Cryin' My Eyes Out (Lyin' Beside You)" di Shannon Shaw, che la canta, e Dan Aurbach & Richrad Swift, e un paio di Diana Krall. 

 

 

Fotografia di Ari Wegner (Lady Macbeth, In Fabric, Zola, the Power of the Dog, the Wonder, Eileen).

 

Per rimanere agli anni venti del ventunesimo secolo il tema (il precedente, e già citato, “Zola” di Janicza Bravo del 2020) e l’alchimia (il successivo “Love Lies Bleeding” di Rose Glass del 2024) non sono certo nuovi, anzi, ma vengono rinnovati con gusto, stile e classe. Avercene, e avanti così.

 

Recensione.

 

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Dune: Parte due

  • Avventura
  • USA, Canada
  • durata 166'

Titolo originale Dune: Part Two

Regia di Denis Villeneuve

Con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Zendaya, Javier Bardem, Josh Brolin, Austin Butler

Dune: Parte due

In streaming su Amazon Video

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"This is our doing."

 

Tra i massonici esportatori di democrazia Bene Gesserit - “Questa è opera nostra!” - e i beduini fondamentalisti delle profezie autoavverantisi, meglio allora stare ai “margini” della Storia (salvo quando si è al centro della battaglia) sorvolata a bordo di un libelluloide ornitottero con Gurney Halleck? Bah. Io continuerei a preferire - “È lui o non è lui? Ma certo che è lui!” - il Muad’Dib, un mattoncino del world-building, il cangur-topo che beve la condensa del vapore acqueo suggendola dalle grandi orecchie termoregolatrici a sventola, ovvero la versione di Arrakis del gerboa dalle lunghe orecchie (Euchoreutes naso) del Gobi e del Takla-Makan, mica Timoteo Cialacoso, in arte Paul Muad’Dib Usul Atreides, l’epigenetico Kwisatz Haderach (Homo sapiens elohim).

 

Risolta la questione più importante a poco più di mezz’ora dall’inizio delle 2 ore e 40 minuti di durata totale di “Dune - Part Two” sceneggiate dal regista Denis Villeneuve con Jon Spaihts, dove eravamo rimasti? Beh: qui. E adesso possiamo cominciare.

 

Ricordandosi forse di quel che fecero al Bosco di Gioia il futuro pregiudicato Roberto Formigoni & C. a metà degli anni zero del primo secolo del terzo millennio dopo Cristo, estirpandolo col favore del buio, gli Harkonnen, più di 19.000 anni dopo, hanno sterminato gli Atreides di notte, senza preavviso né dichiarazione di guerra, e alle prime luci del mattino ad Arrakis era già tutto compiuto.

 

Non rimane che un sorso di Water of Life spremuta dai cuccioli delle sesquipedaliche lamprede di terra (o, meglio, della sabbia), e qualche miliardo di cadaveri.

 

Accanto a un immenso Dave Bautista compongono il cast, tra conferme e new entry, Timothée Chalamet, Zendaya Coleman, Rebecca Ferguson, Javier Bardem (in un ruolo memore dei Monty Python di "Life of Brian"), Josh Brolin, Austin Butler, Florence Pugh, Stellan Skarsgård, Christopher Walken, Léa Seydoux, Charlotte Rampling, Souheila Yacoub, Roger Yuan, Alison Halstead, Giusi Merli e il cameo di Anya Taylor-Joy (più le fulminee rentrée di repertorio di Babs Olusanmokun e Oscar Isaacs e i ruoli tagliati di Stephen McKinley Henderson e Tim Blake Nelson), mentre l’intero cast tecnico-artistico principale è confermato, dalla fotografia classicheggiante con inserti sperimentali alla “luce nera” di Greig Fraser e il montaggio poeticamente chirurgico di Joe Walker alle scenografie di Patrice Vermette e i costumi di Jacqueline West, passando per le potentissime musiche meccatronico-etnico-aliene di Hans Zimmer (con, tra gli altri, il duduk armeno del venezuelano Pedro Eustache), il magnifico sonoro di Richard King e gli effetti speciali di Paul Lambert e Brice Parker.

 

Dune - Part Two” (basato sulla seconda parte del “Dune” di Frank Herbert, ovvero the Prophet of Dune, pubblicata su Analog nella prima metà del 1965), il fulcro della prevista trilogia villeneuvesca di fantascienza epica, si destreggia molto bene tra la sua preponderante natura “didascalica” di sinossi riassuntiva di un’epopea e la sua vocazione mitopoietica di largo respiro narrativo, mentre il regista di…

 

-  (1996) “Le Technétium” (cortometraggio), in “Cosmos”  

-  (1998)  Un 32 Août sur Terre (7.00)
-  (2000)  Maelström  (7.25)

-  (2008)  Next Floor (cortometraggio) (7.50)
-  (2009)  Polytechnique  (8.50)
-  (2010)  Incendies  (9.25)
-  (2013)  Prisoners  (8.00)
-  (2013)  Enemy  (8.25)
-  (2015)  Sicario  (7.75)
-  (2016)  Arrival  (8.25)
-  (2017)  Blade Runner 2049  (7.75) 

-  (2021)  Dune: Part One (7.75) 

-  (2024)  Dune: Part Two (7.75) 


…dovrebbe terminare questa parte della sua carriera mettendo in scena l’Ecce Homo (pre-anti-Daenerys Targaryen) di Paul Atreides col (generale, non personale) lieto fine temporaneo (come lo sono tutti, i lieti fine) del “Dune Messiah” (Frank Herbert, 1969): per il contro-Jihad Butleriano dovrà essere interpellato o farsi avanti qualcun altro, magari un suo ghola made by Warner.


Intanto Chani chiama un uber-worm e se ne va, cazzuta, in attesa di un secondo Sole nel cielo.
(E ho come l’impressione che Irulan non avrà vita facile a corte, nonostante quel che narrano le Scritture, da lei stessa chiosate per interposto Autore.)

 

Poi verrà il tempo di Alia (un po’ Beth Harmon, un po’ Furiosa).

 

Recensione.

 

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24 ore a Scotland Yard

  • Poliziesco
  • Gran Bretagna
  • durata 91'

Titolo originale Gideon of Scotland Yard

Regia di John Ford

Con Jack Hawkins, Dianne Forest, Anna Massey, Cyril Cusack, Andrew Ray

24 ore a Scotland Yard

 

"The day Thou gavest, Lord, is started...".

 

John Ford odiava i poliziotti forse quasi a livello hitchcockiano, ma ciò non gl’impedì di ritrarre con questo “Gideon's Day” per l’UK, aka “Gideon of Scotland Yard” per gli US [stretto tra l’antologico-irlandese “The Rising of the Moon”, che in “The Majesty of the Law” racconta in piccolo di un’altra (mezza) giornata nella vita di un altro ispettore di polizia, Dilllon (Cyril Cusack), alle prese con un rovello morale/affettivo ed etico/legale, e il semibiografico-bostoniano “The Last Hurrah”, sul tentativo da parte di Frank Skeffington (Spencer Tracy), aka James Michael Curley, di essere eletto per la quinta volta quale sindaco di una grande città capitale di uno stato (per cui in passato ha anche ricoperto la carica di governatore) del New England], la - per l’appunto - giornata (dall’alba non ancora sort’a rischiarare il mattino al tramonto inoltrato che sfocia nell’insopita notte) impegnativa – fatta di poliziotti corrotti e spacciatori, pazzi stupratori assassini, rapinatori omicidi e fotografie da conservare in un cassetto – di un ispettore (e come già detto non fu l’unico piedipiatti incorniciato dal regista maine-hollywood-irlandese) di Scotland Yard, pedinandolo da vicino, tra casa/famiglia e lavoro/colleghi.

 

Film non-binario dal PdV etico-morale, e certamente non bonario in senso lato, che si avvale di un cast d’eccezione composto da stelle e caratteristi dell’epoca, con Jack Hawkins (reduce da “The Bridge on the River Kwai” e in attesa di “Ben Hur” e “Lawrence of Arabia”) affiancato da Cyril Cusack, Dianne Foster, Anna Lee, Maureen Potter, Grizelda Hervey, Marjorie Rhodes, Jack Watling, Andrew Ray, James Hayter, Howard Marion-Crawford, Michael Trubshawe, Derek Bond, Barry Keegan, John Loder, Ronald Howard, Laurence Naismith, Francis Crowdy, James Hayter e, alla sua prima apparizione, la talentuosa figlia d’arte Anna Massey (Peeping Tom, Bunny Lake Is Missing, Frenzy, Five Days One Summer, the Machinist). Merita una menzione il fugace apparire sulle scale di Hermione Bell, qui alla sua unica interpretazione cinematografica.


Sceneggiatura da manuale di T. E. B. Clarke (adattamento del primo libro di una lunga serie di romanzi di John Creasey, aka J. J. Marric, che compongono la saga dell’ispettore/comandante George Gideon), fotografia di Freddie Young e Charles Lawton Jr., montaggio di Raymond Poulton, scenografie di Ken Adam (le miniature degli edifici e delle infrastrutture e i modellini degli autoveicoli sullo sfondo al di là delle finestre dell’ufficio di Gideon) e musiche di Douglas Gamley. Produce Michael (Morris, 3rd Baron) Killanin (già membro della Camera dei Lord, futuro presidente del Comitato Olimpico Internazionale e amico di lunga data di John Ford di cui fu il factotum sul set di “the Quiet Man”) e distribuisce Columbia.


“I could tell you a few things about executions… They're not very dramatic. You know, they're rather an anti-climax after the trial. Three weeks in jail and then one morning the long walk. And it won't be a bit like you imagine, the heroine with her head held high… They'll drag you there half doped and vomiting with terror. That's the worst thing about hanging: it's so undignified…” – Jack Hawkins (George Gideon) a Dianne Foster (the Lady of Capricorn Club).


“Volevo andarmene via per un po’, così dissi che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa su Scotland Yard, e andammo là e lo facemmo.” – John Ford a Peter Bogdanovich.    

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Macbeth

  • Storico
  • USA
  • durata 105'

Titolo originale The Tragedy of Macbeth

Regia di Joel Coen

Con Denzel Washington, Frances McDormand, Brendan Gleeson, Harry Melling, Brian Thompson

Macbeth

In streaming su Apple TV Plus

 

A walking shadow... 

 

A che punto è la notte per le ombre che camminano su questo “ennesimo” palcoscenico di sangue? Tra le piccole verità che oliano le grandi menzogne e il male che accompagna l’ambizione, Macbeth ha nuovamente ucciso il sonno, e tutti i nostri ieri non sono che il racconto di un idiota pieno di rumore e furia.

“Ho avanzato nel sangue a tal punto che il tornare indietro mi procurerebbe tanta pena e fatica quanto il procedere innanzi.”

 

Joel Coen nel 2020, in pieno confinamento da CoViD-19, debutta (autoproducendosi con Frances McDormand e Robert Graff per i distributori Apple e A24) da regista e sceneggiatore solista (l’anno successivo toccherà invece ad Ethan con “Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind”, che poi replicherà con, ad oggi, i primi due capitoli di una trilogia B movie lesbica, “Drive-Away Dolls” e “Honey Don’t”, mentre l’ultimo loro film di coppia è stato l’eccellente "the Ballad of Buster Scruggs") con “the Tragedy of Macbeth” (2021) portando alla vertiginosa lista tratta (tra film muti, sperimentali, teatrali, televisivi e mainstream) dalla shakespeariana “the Tragedie of Macbeth”…

- “Macbeth” di Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave & Andrea Maffei (1847)

- “Macbeth” di Orson Welles (1948)
- “Il Castello della Ragnatela” (“il Trono di Sangue”) di Akira Kurosawa (1957)
- “Macbeth” di Laurence Olivier (mai realizzato, seconda metà anni ‘50)
- “Macbeth” di Roman Polanski (1971)
- “Macbeth” di Franco Enriquez (1975)
- “Macbeth” di Béla Tarr (1982)
- “Macbeth Horror Suite” di Carmelo Bene (1982, 1996)
- “Macbeth” di Geoffrey Wright (2006)
- “Macbeth” di Rupert Goold (2010)
- “Macbeth” di Justin Kurzel (2015)

- “Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk” di Nikolaj Leskov [1865; e poi Dmitri Shostakovich (idem, 1934), Andrzej Wajda (“Sibirska Ledi Magbet”, 1961), William Oldroyd (“Lady Macbeth”, 2016)]

…un paio di paia d’invenzioni sceniche: il duplicante specchiarsi (che tale non è) nella pozza, Lady Macbeth che si accorge della presenza del marito al talamo nuziale prima di ridestarsi del tutto dal dormiveglia, le foglie di quercia ch’entrano in avanscoperta dalla finestra centinata a sesto acuto, e la corona che s’invola.

B/N & 1.37:1 e Black-Washing & Forced Diversity = “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco!” (Frances McDormand a Denzel Washington) e “This Is a True Story = “Perché cominciare con una verità?”.

Completano il cast Brendan Gleeson, Kathryn Hunter, Corey Hawkins, Harry Melling, Alex Hassell, Ralph Ineson, Stephen Root, Bertie Carvel, Moses Ingram
Fotografia: Bruno Delbonnel (Faust, Inside Llewyn Davis, Francofonia, the Ballad of Buster Scruggs). Montaggio: Joel Coen e Lucian Johnston (Hereditary, Midsommar, Causeway, Beau Is Afraid). Scenografie: Stefan Dechant. Costumi: Mary Zophres. Musiche: Carter Burwell. Effetti Speciali: Scott R. Fisher, Alex Lemke, Michael Huber. Casting: Ellen Chenoweth.

...on a bloody stage.   

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Antonia

  • Serie TV
  • Italia
  • 1 stagione 6 episodi

Titolo originale Antonia

Con Chiara Malta, Chiara Martegiani, Valerio Mastandrea, Chiara Caselli, Barbara Chichiarelli

Tag Commedia, Femminile, Vita vissuta, Storie di vita, Roma, Anni duemilaventi

Antonia

In streaming su Amazon Prime Video

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Provini Esauditi.

 

La serie si intitola “Antonia”, mica “Contrastare l’Endometriosi Cagionando una Provvidenziale Gravidanza Coatta o Mettendo le Ovaie in Temporaneo Riposo con una Menopausa Indotta Farmacologicamente”, però inizia a bordo di un’autoambulanza con lei che non riesce a dire ai paramedici (è sempre un piacere reincontrare Lele Vannoli) com’è che si chiama, a pronunciare il proprio nome.

 

"È sangue, mica sugo!"

 
All’inizio non pensavo che “Antonia” fosse un lavoro di fantascienza distopica, ma bensì un film - dalla canonica durata di poco più di due ore suddivise in sei episodi - di genere “Non so se s’è ben capito ma questa è una serie che parla di endometriosi!”, e invece - dopo un bel prologo in cui Valerio Mastandrea (accreditato anche come supervisore creativo) migliora il tiramisù di (una fantastica) Barbara Chichiarelli - ecco che ad un certo punto Chiara “Spatzi/Pulcino/Passerotto” Martegiani (sua è l’idea - perché suo è il Corpo - di partenza della serie, mentre soggetto e sceneggiatura sono condivisi con Elisa Casseri e Carlotta Corradi) from Rimini passando per “Amici” e approdando a quel piccolo gioiellino (in condivisa/rilevante parte per merito suo) ch’è “Ride” (scritto e diretto dallo stesso Mastandrea, suo compagno “anche” nella vita reale, della quale la serie replica quasi geometricamente alcune dinamiche affettive) dice testualmente che Fabia, un personaggio minore interpretato da (una come sempre adorabile, per carità di Dio) Tea Falco (dico solo che forse Meryl Streep fa un mestiere diverso, ecco), “a scuola [di recitazione] era la più brava di tutti”, e allora è stato chiaro che ci troviamo in pieno “the Man in the High Castle”, o per lo meno in un’altra linea spazio-temporale parallela alla nostra nella quale però ad un certo punto la capacità di giudizio delle persone in campo recitativo è andata alle ortiche. 


Oltre ai già citati Marchegiani, Mastandrea e Chichiarelli l’eterogeneo punto di forza della serie è costituito anzitutto – oltre all’omogenea regìa affidata alla Chiara Malta di “Armando e la Politica” e “Simple Women” – dal resto del cast principale composto primariamente dal grande Leonardo Lidi e poi da Emanuele Linfatti, Hildegard Helena Khulenberg, Chiara Caselli e dal piccolo e molto bravo Tiziano Menichelli, più i camei di (un sempre sopra, sotto, intorno, dentro, oltre le righe) Teco Celio (qui non come il più improbabile psicologo/psichiatra dai tempi del dottor Marvin Monroe ne “il Sol dell’Avvenire”, ma come il più improbabile sessuologo), Anna Ferzetti, Eleonora Danco, Irene Ferri, Valeria Milillo, Stefano Fregni, Eros Galbiati, Betty Pedrazzi, Lucrezia Valia, Francesca Turrini e la già menzionata “apparizione” di Vannoli. 


Fotografia di Luigi Martinucci, montaggio di Federico Mascolini e Natalie Cristiani, musiche di Tom Chichester-Clark e suono in presa diretta di Gabriele Sperduti.

Producono Groenlandia (Rovere e Paris “senza” Sibilia) e Fidelio (Basilio e Maselli) con Amazon, RAI e MiC. 


Da segnalare - per questa serie ben poco ammiccante, a parte un singolo camera-look finale, dispositivo utlimamente un po' inflazionato, e curiosamente tutto dal PdV femminile: FleaBag, Enola Holmes, Catherine Called Birdy, la Chimera, Three Women - un buon uso della “When the Night Comes” di Dan Auerbach, e il fatto che alla fine EdelWeiss sia “solo” un bel - omissis - nero e non un - spoiler - caracal/ocelot/serval…

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Bodkin

  • Serie TV
  • Irlanda
  • 1 stagione 7 episodi

Titolo originale Bodkin

Con Will Forte, Siobhan Cullen, Robyn Cara, David Wilmot, Chris Walley

Tag Commedia, Trio, Crimini, Piccola città, Irlanda, Anni duemilaventi

Bodkin

In streaming su Netflix

vedi tutti

 

Poor Eels!

 

Only Murders in the Building” innestato su “the Guard” e “Holding” con tocchi da “Breaking Bad & Better Call Saul”? Shut up and take my money!


Inizia non dico in sordina, ma senz’altro con un tocco esagerato di understatement, per poi però crescere con costanza sino al penultimo episodio dei 7 in totale (diretti da Nash Edgerton, Bronwen Hughes, Johnny Allan e Paddy Breathnach, e tutti compresi tra i 40 e i 50 minuti) nel quale le linee narrative intrecciate si sbrogliano e si districano incontrandosi all’acme di un climax a tal punto armonicamente intonato che vien da chiedersi cosa mai potrà accadere ancora nell’ultimo senza che tutto crolli? E invece: tutto regge. (Tranne che per i poveri ex-leptocefali e futuri catadromi.)

“Perché a volte una storia è più importante della verità e se non possiamo cambiare le cose che sono successe forse possiamo cambiare la storia che raccontiamo.”

 
Incorniciata dal paesaggio irlandese (sul quale tipicamente si susseguono quattro stagioni nell’arco di una sola giornata) e da due splendide canzoni quali “Empire” di Tim Simenon aka Bomb the Bass, featuring Sinéad O’Connor e Benjamin Zephaniah, e “Old Note” di Lisa O’Neill (e in mezzo a loro: “Lavender” di Biig Piig, “H.O.O.D” di Kneecap, “Another Round” di the Scratch, “Burning Love” di the Computers e “Don’t Cling To Life” di the Murder Capital), “Bodkin”, creata per Netflix da Jez Scharf, che la sviluppa scrivendola con altri 6 sceneggiatori, si avvale di un buon-ottimo cast composto dai 3 protagonisti [Siobhán Cullen (“Origin”), Will Forte (“SNL”, “Nebraska”, “the Last Man on Earth”, “Booksmart”, “Good Boys”, “the Laundromat”, “MacGruber”) e Robyn Cara], dall’eccellente antagonista maggiore (David Wilmot: “the Guard”, “Calvary”, “War on Everyone”, “Little Joe”, “Barkskins”, “Station Eleven”, “the Wonder”) e da uno stuolo di fantastici caratteristi [Chris Walley, Ger Kelly, Pom Boyd, Denis Conway, Sabine Timoteo, Charlie Kelly, David Pearse (“the Banshees of Inisherin”), Lalor Roddye (“Grabbers”), Alan Devine (indimenticabile, al Graceland Diner) e Peter Bankolé più la grande Fionnula Flanagan (“the Others”) e la piccola Mae Higgins].

 

 

“Le suore sono bambine. Bambine in corpi di donne anziane, vestite di nero e sposate con Gesù. Stiamo meglio senza. […] In questo paese se una donna incinta scompare le suore sono l’equivalente del maggiordomo.”

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Che le madri possano vivere

  • Cortometraggio
  • USA
  • durata 10'

Titolo originale That Mothers Might Live

Regia di Fred Zinnemann

Con John Nesbitt, Shepperd Strudwick, Rudolph Anders, King Baggot, William Bailey

Che le madri possano vivere

 

Mani pulite.

 

Breve ed ingenuamente/sinceramente/scientemente aulico docu-drama educativo-divulgativo sulla scoperta effettuata a metà del XIX secolo, 25 anni prima di Louis Pasteur (1822-1895) e Joseph Lister (1827-1912), da Ignác Fülöp Semmelweis (1818-1865), medico ostetrico di origini ungheresi di stanza a Vienna, che ridusse la mortalità puerperale nel reparto di maternità dell'ospedale in cui lavorava portandola dal 12 all'1,25 per cento utilizzando antisettici e obbligando i colleghi e i sottoposti a lavarsi le mani e disinfettare gli strumenti dopo aver visitato ogni paziente (Céline, allor’ancora Louis-Ferdinand Destouches, gli dedicò la propria tesi di laurea in medicina, e Kurt Vonnegut lo annoverava tra i propri eroi). Osteggiato dagli stessi colleghi e dai suoi superiori, fu costretto a dimettersi, cadde in depressione e morì in manicomio per una setticemia insorta a causa delle ferite infertegli dalle guardie e per la scarsa profilassi probabilmente da lui stesso non contrastata.

“Così egli morì, e così fu sepolto e dimenticato... Dimenticato no: nessun uomo che abbia dato al mondo un'idea immortale può essere dimenticato.”

 

Uno dei primi cortometraggi di Alfred “Fred” Zinnemann (1907-1997; "High Noon", "From Here To Eternity", "Julia", "Five Days One Summer"), americano (sbarcato a New York nell’anno della Grande Depressione¹, qualche mese dopo prese un Greyhound per Hollywood) di origini polacco-austro-ungariche, principia in un moderno ospedale per poi immediatamente trasportarsi un secolo addietro e (con un parziale percorso biografico di ritorno) a diecimila chilometri di distanza, attraversando due continenti e un oceano, costruendo (la sceneggiatura è di Herman Boxer che, come per altre produzioni dello stesso genere e periodo, si avvale della collaborazione scientifica di Ryland R. Madison) un climax che, portato al suo apice terminale dalla voce narrante di John Nesbitt (1910-1960), autore e conduttore radiofonico che proprio allora stava diventando una star col suo “the Passing Parade”, sfocia, coadiuvato dalle musiche di David Snell, in un montaggio frenetico e in un fuori fuoco (il direttore della fotografia è Harold Rosson: “Madame Satan”, “Captains Courageous”, “the Wizard of Oz”, “Duel in the Sun”, “On the Town”, “the Asphalt Jungle”, “Singing in the Rain”) sulla maschera dell’ottimo protagonista Shepperd² Strudwick (1907-1983), anch’egli semi-esordiente, e, adempiendo al compito assegnatogli, “That Mothers Might Live” vinse per la MGM un Oscar nel 1938 nella categoria One-Reel (una bobina).

¹ “New York was a terrific experience, full of excitement, with a vitality and pace then totally lacking in Europe. It was as though I had just left a continent of zombies and entered a place humming with incredible energy and power.” – Fred Zinnemann, “A Life in the Movies - An Autobiography”, 1992.

“Si appartiene a New York all’istante, le si appartiene in cinque minuti quanto in cinque anni.” - Thomas Wolfe. (Poi ci sono le sirene di Los Angeles; NdR.)

² Nei titoli citato come “Sheppard”.

Due secoli dopo.
- https://www.epicentro.iss.it/infezioni-correlate/impatto-salute-economia
- https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=120238

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The New Look

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 10 episodi

Titolo originale The New Look

Con Todd A. Kessler, Ben Mendelsohn, Juliette Binoche, David Kammenos, John Malkovich

Tag Biografico, Maschile, Lavoro, Storie di vita, USA, Anni '40

The New Look

In streaming su Apple TV Plus

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Miss Dior.

 

Il fantasma in vita che abita con le sue spoglie mnemoniche la trama del tessuto di Christian Dior (1905-1957; Ben Mendelsohn), e quindi di “The New Look” (10 ep., 2024, Todd A. Kessler), è Catherine Dior (1917-2008; Maisie Williams), la di lui sorellina, resistente partigiana: il suo, assieme a quello del fratello, mentre l’altro segue la parabola di Coco Chanel (1883-1971; Juliette Binoche), è uno dei 3 sottoinsiemi intrecciati o assi portanti della serie, ed è senz’altro tanto il più universale ed importante, pur essendo di fatto al contempo quello più collaterale, quanto il meno performante, un po’ perché pur essendo quello che occupa meno metraggio è anche quello più sacrificato – frazionato, sfilacciato e spezzettato - sull’altare/moviola del taglia e cuci e un po’ perché questi lacerti, queste rigaglie e questi cascami soffrono dell’eccessiva presenza di ricami di retorica compositiva: se i rovelli di Christian durante il suo definitivo distacco emancipatore dal cordone ombelicale di Lucien Lelong (1889-1958; John Malkovich) sort’innanzi all’opulenta fortuna che Marcel Boussac (1889-1980) investendo su di lui gli mise a disposizione sono essenzialmente (anche se possono parere incomprensibili a chi si esprime sull’argomento ignorandone le basi) un dato di fatto storico, il “tira e molla” pre-finale sul vengo / non vengo & vado / non vado di Catherine alla sfilata della prima collezione di moda del fratello nel 1947 -[quella che verrà ricordata per il conio da parte di Carmel Snow (1887-1961; Glenn Close), from Harper’s Bazaar, che ora nel tempo diegetico della storia a Miss Dior siede accanto, della da lì immediatamente proverbiale espressione sulla Nuova Moda (il Nuovo Sguardo, il Nuovo Aspetto) titolante la serie]- è scritto e organizzato male, cioè banalmente sfruttandone all’eccesso le dinamiche sino prima a renderlo e poi di conseguenza a rivelarlo…

 
– esemplificativa da questo PdV è la scena (ad ogni modo sinceramente commovente, al di là di ogni sovrautilizzata sovrastruttura narratologica pre-costituita con lo stampino) del seppellimento -[nell’aiuola del giardino di famiglia che sta terminando di completare in memoria del genitore defunto da poco - giusto il tempo di vederla tornare dalla prigionia - e che per quel poco, pur non avendo un idilliaco rapporto col figlio, non riuscirà a conoscere del figlio la fortuna e a sapere con quale potenza la schiatta Dior sarebbe grazie a lui risorta dal precedente schianto finanziario paterno) della fotografia dell’amica morta davanti a lei nel lager femminile di Ravensbrück -[quello in cui Irma Grese si fece le ossa prima di essere trasferita ad Auschwitz ed acquistare la fama di iena che la indirizzò al patibolo su cui finì per essere impiccata, mentre Catrherine fu poi trasferita in altri campi di concentramento, lavoro e sterminio, tra cui Buchenwald ("Jedem das Seine", "A Ciascuno il Suo"), e in altre prigioni e fabbriche militari, sopravvivendo e ritrovando la libertà che poteva esprimere prima dell'invasione e dell’occupazione nazista: la sua odissea durò 9 mesi]-, che si destreggia tra semplificazioni psicologiche cariche di retorica e, per l’appunto, “sincera” traduzione e finalizzazione di un lungo percorso di crescita, cioè di un ulteriore, infinito processo di conferma e di nutrizione dell’essere sopravvissuta –

 

…per quello che è, rendendone le motivazioni quasi incomprensibil: uno dei tanti dispositivi usurati e inflazionati adoperati nella serie (il più imperdonabile dei quali è l’ambiguo trattamento para-possibilista riservato alla questione cartomanzia, anche se proprio Catherine una bella strigliata alla veggente che pesca a strascico pasturando a caso, che da quel momento esce di scena, gliela dà, e si gode assai ben oltre le intenzioni degli autori).

 

Detto ciò, che in verità si potrebbe riassumere & tradurre con “Voglio uno spin-off su Catherine Dior!” (l’estrapolazioni fotogrammatiche di questa pagina sono a lei dedicate), questo primo progetto in solitaria di Todd A. Kessler, che col fratello Glenn e con Daniel Zelman già aveva creato “Damages” (sempre con Glenn Close) e “Bloodline” (sempre con Ben Mendelsohn), è tutto sommato ben degno d’attenzione (fotografia di Jaime Reynoso e Michal Sobocinski e musiche di James S. Levine), vuoi per il gran cast d’attori composto, oltre che dai già citati Ben Mendelsohn (bisognerebbe coniare per lui un neologismo: “overacting in sottrazione”), Juliette Binoche (tanto di cappello, facciamo Fendy così non scontentiamo i due litiganti), Maisie Williams (ce la mette tutta e spesso e volentieri ci riesce), John Malkovich (commuovente – così, senza dittongo mobile – e me-mo-ra-bi-le, punto) e Glenn Close, da Emily Mortimer (sempre a fuoco, via di mezzo tra Katherine Waterston ed Emily Browning, e qui nel ruolo di una pseudo-fittizia Elsa Lombardi, figura basata in larga parte su quella di Vera Bate Lombardi), Claes Bang (perfettamente malefico nei panni sporchi di Hans Günther von Dincklage), Charles Berling (Pierre Wertheimer), Nuno Lopes (Cristóbal Balenciaga), Thomas Poitevin (Pierre Balmain), Eliott Margueron (Pierre Cardin), Michael Carter (Maurice Dior, il capostipite) Joséphine de La Baume (Arletty), Olivia Ruiz (Édith Piaf), Gaëtan Wenders (Jacob Friedman) e David Kammenos (Jacques, il compagno di Christian), vuoi per due inquadrature (ep. 3 e 5) e una sequenza (ep. 5):


- 1ª inq.ra: al contrario che nella locandina di “the Zone of Interest”, dove l’oltre il giardino è virato al grado zero del corpo nero, qui il cielo agostano del ‘44 è azzurro/blu - cobalto, indaco, turchese - sopr’allla strada per il campo di “concentramento e lavoro”, aka stermino, di Ravensbrück: morte sotto all’inconsapevolmente indifferente Sole: l’antitetica dicotomia suprema;

 

- sequenza: il Lager non si vede, se non per “interposti superstiti”, con una scena (il cui climax è intuibilissimo, ma che con la forza d'abbrivio di ciò-che-è-stato comunque "funziona" - senza tirare per forza in ballo "Kapò" - ugualmente), quella del rientro a casa dei "salvati" (treno passeggeri e non merci), coi parenti ad aspettarli felici e speranzosi, sventolanti racemi di glicine, sino all'entrata in scena dei deportati liberati, macilenti e letteralmente distrutti, accompagnati da alcuni cadaveri su barella che non sono sopravvissuti al viaggio;


- 2ª inq.ra: un sospiro ch’è un rantolo (di vita).

 

Le regìe sono dello stesso Todd A. Kessler (ep. 1-2), delle già sottintesamente citate ed elogiate Helen Shaver (ep. 3-4 e 7-8; "Station Eleven") e Julia Ducournau (ep. 5-6; "Grave / Raw", "Titane") e dell’ottimo Jeremy Podeswa (ep. 9-10; "the Five Senses").

 

“It's such a new look!”? Beh, "quasi". Di certo “Nothing but Blue Sky!”

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Il problema dei 3 corpi

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale 3 Body Problem

Con David Benioff, Benedict Wong, Jess Hong, Saamer Usmani, Jovan Adepo

Tag Fantascienza, Storia corale, Distopia, Intrighi, Cina, Vari

Il problema dei 3 corpi

In streaming su Netflix

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Escatologia in scala ridotta.

 

La prima avvisaglia del fatto che con questa “3 Body Problem” (2024) made in Netflix (che in Cina non c’è) creata e sviluppata da David Benioff (la sceneggiatura del “25th Hour” diretto da Spike Lee nel 2002 che lo scrittore trasse dal suo stesso quasi omonimo romanzo dell’anno prima) & D.B. Weiss (gli ideatori del “Game of Thrones” tratto dalla saga delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin, oggi forse ancora al lavoro sempre per i capoccia di Los Gatos, California, sulla riduzione – mai parola probabilmente sarà e fu più letteralmente calzante – di “the Overstory”, il monumentale e magnifico romanzo di Richard Powers del 2018) con Alexander Woo (“True Blood”, “the Immortal Life of Henrietta Lacks”, “the Terror: Infamy”) e l’apporto di Rose Cartwright e Madhuri Shekar – al quale è affidata la stesura del copione più problematico dal PdV della sospensione dell’incredulità - non fantascientifica, ma - puramente (crono)logica degli avvenimenti (vedi più sotto) – ci si ritrova non innanzi a un financo piccol(issim)o, parziale o accennato capolavoro…

– come, contestualizzando il tutto con lo stato dell’arte sua consimile, non così impossibilmente poteva essere, pur partendo dalla non così rivoluzionaria quanto invece giustamente premiata dalle tirature e dalle ristampe trilogia degli “Eventi del Passato della Terra” (2007-2010) di Liu Cixin (1963), utilizzando per questa 1ª stag. di 8 ep. — diretti da Derek Tsang (“Better Days”), Andrew Stanton (“Finding Nemo”, “Wall-E”, “Finding Dory”, “Stranger Things”, “Better Call Saul”, “Legion”, “Tales from the Loop”, “For All Mankind”, “In the Blink of an Eye”), Minkie Spiro (“One Mississippi”, “Here and Now”, “Better Call Saul”, “Kidding”, “the Deuce”, “the Plot Against America”, “Pieces of Her”) e Jeremy Podeswa (“the Five Senses” e tra la miglior serialità dell’odierna Età dell’Oro della Complex/Peak/Prestige TV: molti ep. per “Six Feet Under”, “BoardWalk Empire” e “Game of Thrones”, ed alcuni in vertiginosa lista per “Carnivàle”, “the L Word”, “Weeds”, “the Pacific”, “the NewsRoom”, “Ray Donovan”, “True Detective”, “Here and Now”, “the HandMaid’s Tale”, “On Becoming a God (in Central Florid)a”, “the Mosquito Coast”, “Station Eleven” e “the New Look” — il 1° libro (già trasposto per il piccolo schermo nel 2023 in un adattamento in 30 ep. curato da Tian Liangliang), ovvero “(il Problema dei) Tre Corpi”: siamo in zona Peter F. Hamilton con venature alla Stephen Baxter e Alistair Reynolds, non in quella ben più, semplicemente, meravigliosa, creata da Iain M. Banks col Ciclo della Cultura, da David Brin con l’Uplift Universe o Vernor Vinge con le Zones of Thought (o ancora le varie serie di Eleanor Arnason, Greg Bear, Gregory Benford, Greg Egan, Nancy Kress, Robert J. Sawyer, Charles Sheffield, Allen Steele, Peter Watts) –

…la si presagisce (e percepisce) già dalle prime note della sigla d’apertura, che si presenta come un impersonale, o, forse, troppo personale, tentativo di crasi (in cui 2 più 2 fa 2) ricavato da parte di Ramin Djawadi fra i suoi lavori precedenti orchestrati per “Game of Thrones” e “WestWorld”: tutto già sentito (visto, letto), anche se poi alla fine il divario tra cinema (messa in scena, recitazione, fotografia, effetti speciali) e letteratura non è così evidente, ma comunque a sfavore del primo rispetto alla seconda, come invece al contrario di recente è successo con l’adattamento miniseriale euro-tedesco di “Der Schwarm”, l’eccellente romanzone del 2004 di Frank Schätzing, e un po’ meno con quello di “the Peripheral” di William Gibson da parte di Scott B. Smith per Amazon, non rinnovato (anche quella dell’autore di “Neuromancer” è una trilogia, quindi “Agency” e l’in via di scrittura “Jackpot” rimarranno - ad oggi - di carta e d’inchiostro).

“Spooky action at a distance.” 

La scienza è rotta (l’entanglement quantistico è sabotato… da remoto, e di conseguenza le "inquietanti azioni a distanza" einsteiniane si manifestano nella macro-realtà su scala umana - così come, ma forse con meno costrutto e molta naïveté e con un uso poco ponderato e più contraddittorio di scorciatoie, semplificazioni, forzature ed impossibilità, nella recente e coeva "Constellation" - con tutto il loro carico perturbante) e di conseguenza il progresso umano (dagli acceleratori di particelle a scalare) ne esce enormemente rallentato, gli alieni trisolariani (la cui civiltà viene periodicamente quasi completamente spazzata via da catastrofi naturali provocate dalla ciclica instabilità caotica ed imprevedibile del sistema solare composto da tre stelle…

[Cliccare QUI per avviare un’animazione GIF by Wikipedia. Pesa quasi 55 megabyte, quindi se siete dei poveri straccioni e non avete la larga banda renziana ci vorrà un bel po’, ma ne sarà valsa la pena.]

 

…attorno alle quali orbita il loro pianeta: calcolare i punti di Lagrange al confronto è una passeggiata) sono in viaggio per, tra quattro secoli, conquistarci e colonizzarci e, tra citazioni iper-letterali declamate (“In nature, nothing exists alone”, da “Silent Spring” del 1962 di Rachel Carson) ed altre più di forma e stile che di sostanza e contenuto (“the Eye on the Sky” del 1957 di Philip K. Dick), passando per altre ancora meno evidenti, ma più “profonde” (“Childhood's End” del 1953 di Arthur C. Clarke), senza scordare massime proverbiali rivisitate sotto forma di joke (“Non scherzare – play: giocare, recitare, suonare – con Dio”, protagonisti proprio Albert Einstein, il Dio dell’Antico Testamento, un violino, un sassofono e una gag comico-demenziale), la serie procede ad andatura di crociera, ed è un pisolante piacere lasciarsi cullare dal rollio, cadenzato da qualche provvidenziale cavallone, al netto di un montaggio scolastico e alcune volte fuori tempo col controcampo e dell’impossibilità logica rappresentata dal fatto che, dopo anni di conversazione istantanea a 4 e passa anni luce di distanza grazie alla correlazione quantistica espressa dal principio di sovrapposizione dei sofoni (che nelle 3 dimensioni spaziali di questa zona di universo – e torniamo a Vernor Vinge – appaiono quali una variante dei protoni) solo “qui ed ora” (vedi più sopra) i trisolariani scoprono che gli esseri umani possono mentire, nel caso specifico attraverso l’arte – in questo caso il racconto (favola/fiaba) – quale “bugia su di un bugiardo” (la kubrickiana “fotografia della fotografia della realtà”, ovvero il cinema).

 

“Non avrei mai immaginato che la nudità potesse finire con l’annoiarmi.”

 

Il cast mediamente è buono, tra prove convincenti – Benedict Wong (“Sunshine”, “Moon”, “Prometheus”, “Annihilation”), Jess Hong (“Inked”), Alex Sharp, Rosalind Chao & Zine Tseng (rispettivamente Ye Wenjie da adulta/anziana e da ragazza), Jovan Adepo, Marlo Kelly, CCH Pounder e Jonathan Pryce, ripescando poi Davos Seaworth, Samwell Tarly e Lord Varys da “Game of Thrones”: Liam Cunningham in un ruolo da protagonista, John Bradley in uno da co-protagonista e Conlet Hill (“Dublin Murders”, “Holding”) in un gustoso cameo nei panni di Ugo Boncompagni aka Papa Gregorio XIII – ed altre più incerte (Eiza González, Sea Shimooka, Saamer Usmani).

 

Non nuova (si pensi a "quel romanzo" - a memoria dovrebbe essere "Illegal Alien", ma potrei sbagliarmi - di Robert J. Sawyer, a "the Cube" di Vincenzo Natali, eccetera eccetera), ma comunque impressionante (oltre che dal PdV tecnico-scientifico e, ovviamente, da quello morale, anche e soprattutto da quello etico) la lunga sequenza della nave (e dei suoi occupanti) passata attraverso il tagliapatate a nanofibre.

Ciò che mi rende umanamente impossibile andare sotto al giudizio di 7.25 (***½ - ***¾) è l’autentica commozione provata al dispiegamento della vela fotonico-solare (si pensi anche alla 3ª stag. di “For All Mankind”) nell’assolut’assenza di sviluppo e propagazione di onde sonore nel semi-assoluto vuoto dello spazio interplanetario oltre l’orbita terrestre: tanto (che tanto è) basta per rendermi oltremodo simpatica quest’escatologia in scala ridotta (cioè locale, "con le regole assegnate a questa parte di universo", per citare il poeta: in questo caso Battiato, non Vinge) che porta il nome di “3 Body Problem” (e il cui prosieguo con una 2ª stag. - ma per portare a termine compiuto l'intera trilogia ce ne vorrebbero forse 5, anche se già con questa l'accelerazione e la condensazione sono massime: a tal proposito occorrerebbe ribadire che la versione cinese di ep., ognuno più o meno della stessa durata media di quest’euro-statunitense, ne contava 30 - parrebbe oggi come oggi - e al netto quindi delle diverse fortune al botteghino/auditel di qua e di là dell'Atlantico - abbastanza scontato).

 

“Agl’insetti!”, allora.

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Fallout

  • Serie TV
  • USA
  • 1 stagione 8 episodi

Titolo originale Fallout

Con Geneva Robertson-Dworet, Graham Wagner, Ella Purnell, Aaron Moten, Kyle MacLachlan

Tag Fantascienza, Femminile, Distopia, Lotta per la sopravvivenza, Fantasy, Futuro

Fallout

In streaming su Amazon Prime Video

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“No dogs in the vault, hm?”

Nel retrofuturistico (“Tales from the Loop”) e post-apocalittico (a causa di una guerra nucleare, non di una pandemia come in “Station Eleven”) universo atompunk di “Fallout”, la serie sviluppata da Graham Wagner (Portlandia) e Geneva Robertson-Dworet (Tomb Raider, Captain Marvel) per Amazon MGM (che distribuisce), Bethesda (che da metà anni zero pubblica il videogioco creato a metà anni ‘90 da Tim Cain e alcuni spin-off da metà anni dieci) e Kilter (ovvero i Jonathan Nolan - che dirige i primi tre episodi - e Lisa Joy del reboot di “WestWorld”) che – ambientata prima in un 2077 e poi in un 2296 alternativi in cui alcune branche della scienza sono più progredite rispetto a quelle che potranno essere le nostre e altre invece sono meno sviluppate – accorpa, mischia, collega e gestisce molto bene i sotto-filoni della saga videoludica, probabilmente “Un Uomo e il suo Cane” ad esempio è, come nel nostro mondo, il titolo di un paio di olio su tela dipinti da Antonio Rotta all’alba dell’Unità d’Italia e quello anglosassone di “Herr und Hund: ein Idyll” (Padrone e Cane: un Idillio), un racconto lungo pubblicato da Thomas Mann sul crepuscolo della Prima Guerra Mondiale, poi, nel successivo immediato dopo-guerra, quello relativo alla Seconda Guerra Mondiale, qualcosa tra la nostra e la loro Linea S-T ne ha causato il reciproco allontanarsi e così molto probabilmente “A Boy and His Dog” di Harlan Hellison non ha, mai, vinto il Nebula nell’anno dello sbarco sulla Luna (che chissà se da quelle parti sarà avvenuto) né la trasposizione cinematografica di L.Q. Jones s’è mai aggiudicata l’Hugo un lustro dopo e Jean-Paul Belmondo non ha, mai, interpretato Charles, il suo ultimo ruolo, in “un Homme et Son Chien”, il remake francese, oramai in pieno terzo millennio, dell’Umberto D. di De Sica, ma certamente “A Man and His Dog” è un classico western interpretato da Cooper Howard. Chi? Ecco, appunto.

 
Le gare, quelle belle.

Se Netflix ha risposto con “Ripley” (recuperandola da ShowTime, che ultimamente perde un po’ troppi pezzi ovunque, e ogni riferimento a “Three Women”, poi salvata e presa in carico da Starz, è voluto) alla “Mr. & Mrs. Smith” di Amazon, ora Culver City risponde con “Fallout” alla “3 Body Problem” di Los Gatos infarcendola di un’atmosfera “scanzonata” (per lo meno rispetto a “Last of Us”, che gira e funziona s’un altro registro, così come “Silo”, che molto deve alla serie videogame originale) paradossalmente mai troppo fuori luogo (essendo in questo simile a “Hello Tomorrow!”) e di una track-list (a questo punto… cronosismatica: pescando cioè dal nostro universo fifties e dintorni, con tocchi di space-age: facile così!) da urlo di autori presi per la maggior parte dall’Olimpo, ma pure pescando un poco dal dimenticatoio: Nat King Cole, Bing Crosby, Johnny Cash, Glenn Miller, Buddy Holly, the Ink Spots, Betty Hutton, Sheldon Allman, Buck Owens and the Buckaroos, Bonnie Guitar, Herb Alpert & the Tijuana Brass, the Platters, Merle Travis, Perry Como, Dinah Washington, Brook Benton, Percy Faith, Michael Brown, June Christy, Jack Shaindlin, Metrotones, Cool Papa Jarvis, the Danleers, LaVerne Baker, Connie Conway, Jane Morgan…

 
Bring Me the Head of Dr. Siggi Wilzig.

I componenti del cast principale – Ella Purnell (“YellowJackets”), Walton Goggins (“the Shield”, “Justified”, “the Hateful Eight”), Kyle MacLachlan (“Dune”, “Blue Velvet”, “Twin Peaks”, “ShowGirls”, “High Flying Bird”), Moises Arias (“Monos”), Michael Emerson (“Lost”, “Person of Interest”) e Aaron Moten – reggono il peso loro affidatogli, affiancati da quello secondario (Xelia Mendes-Jones, Sarita Choudhury, Johnny Pemberton, Leslie Uggams, Michael Cristofer, Michael Rapaport, Zach Cherry, Annabel O'Hagan, Dave Register, Cherien Dabis, Michael Esper e Matt Berry) altrettanto valido, e da quattro impagabili piccole parti messe in scena da Chris Parnell (Benjamin, il supervisore monocolo del Vault 4, e il pensiero - non a causa di un rigurgito lombrosiano, ma per via della consimile caratterizzazione del personaggio - corre subito a “Futurama” e al padre di Turanga Leela; “Saturday Night Live”, “Rick and Morty”), Jon Daly [il “ciarlatano” (snake-oil salesman) scopa-galline; “I'm Dying Up Here”], Dale Dickey (Ma June; “the Pledge”, “Winter’s Bone”, “Hell or High Water”, “Leave No Trace”, “Unbelievable”, “Palm Springs”) e Michael Abbott Jr. (il contadinotto; “In the Radiant City”), più un cameo di Fred Armisen (DJ Carl), mentre le regìe sono affidate - oltre che a Jonathan Nolan - a Frederick E.O. Toye, Clare Kilner, Daniel Gray Longino e Wayne Yip, e le musiche originali sono di Ramin Djawadi (“Game of Thrones”, “WestWorld”, “3 Body Problem”).


Adesso tocca recuperare pure “Halo”?

Momenti WTF prevedibili (anche per chi, come me, non ha, mai, giocato un solo minuto a “Fallout”), con accenno di mini-spoiler: che il Sole sul viso di Lucy bambina sia quello vero e che la madre di una Lucy ora adulta sia quella al tavolo con Lee Moldaver a Shady Sands.

 

"Che succede quando i rancheros hanno più potere dello Sceriffo?" (O viceversa.)

 

Recensione (stag. 1).

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Supersex

  • Serie TV
  • Italia
  • 1 stagione 7 episodi

Titolo originale Supersex

Con Alessandro Borghi, Francesco Carrozzini, Linda Hardy, Gaia Messerklinger

Tag Drammatico, Maschile, Vita vissuta, Sesso, Italia, Vari

Supersex

In streaming su Netflix

vedi tutti

 

“Buona seeera!”, ovvero: Rocco Return.

 

A Ortona c’è il mare, e ci sta pure un Colosso (che - cronaca odierna e locale - nient'e nulla ha potuto, col suo appello "neutrale" al voto, contro l'altrove ininfluente e qui dannosa coppia mementomorica composta da Renzi & Calenda).

Dopo il punto e a capo dell’Ecce Cazzo del Dirk Diggler di Paul Thomas Anderson, il Corpo Cavernoso in qualità di “McGuffin reificato” è ben difficile da mettere in scena (ultimamente c’è riuscita Lisa Taddeo in “Three Women”, col controcampo del volto di Betty Gilpin in solenne ammirazione dell’Epifanica Erezione), ma Francesca Manieri (il Rosso e il Blu, Vergine Giurata, Veloce Come il Vento, Smetto Quando Voglio: Masterclass & Ad Honorem, Amori che Non Sanno Stare al Mondo, il Miracolo, Figlia Mia, il Primo Re, We Are Who We Are, l’Incredibile Storia de l’Isola delle Rose, Anna, l’Immensità) alla creazione/ideazione e allo sviluppo/sceneggiatura, Alessandro Borghi (che già in “Napoli Velata” s’era fantasmaticament’espresso dal PdV del full frontal, e qui straborda in bene dagli eccessi del forzato sorriso quotidiano a 10 denti dell’arcata superiore - spoiler: è un bel temporaneo "The End" al posto di un "Cum!" - alle sfumature più sottili) al Pezzo Forte e Matteo Rovere (un Gioco da Ragazze, gli Sfiorati, Veloce Come il Vento, il Primo Re, Romulus, la Legge di Lidia Poët), che con Lorenzo Mieli (the Apartment) co-produce (Groenlandia), Francesca Mazzoleni (“Punta Sacra”) & Francesco Carrozzini (“the Hanging Sun” e prima molti videoclip musicali ultra-zarri, e “infatti” qui utilizza bene iperinflazionate pietre miliari quali “What Is Love” di Haddaway e “Heart of Glass” dei Blondie) alle regìe lo “inseriscono” bene, il pene, nel paio di occasioni [una semi-pubblica, con l’apparizione parallela alla pronuncia del suo nome d’arte, e l’altra privata/intima, con Tina, una Linda Caridi ("Antonia.", "Lea", "Ricordi?", "Lacci", "SuperEroi", "l'Ultima Notte di Amore") come sempre bravissima e qui recitativamente parlando a mezza via tra Valentina Bellé e Alba Rohrwacher, nell’arcipelagica parentesi egea ben lontana dalle future isole caraibiche (RAI-MediaSet) dei famosi] in cui spunta facendo capolone (giungendo comunque buon secondo dopo l’Origine du Monde affidata alla Lucia adolescente di - nomen non omen - Eva Cela).

 

 

Quando la carne si sottomette alla carne e gode (vive/muore).

Probabilmente il climax di serie, il suo momento migliore, tanto didattico/didascalico quanto ulceroso/ustionante, è costituito da una Lucia adulta (un’ottima Jasmine Trinca molto a fuoco ed emotivamnete presente che regge un ruolo pesantemente & concretamente "metaforico"), sineddoche compulsiva di un eterogeneo eterno femminino che ha circondato, accompagnato e penetrato Tano/Siffredi (classe 1964 e qui rappresentato dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni zero, vale a dire dai 10 ai 40 anni) nell’intero corso della vita e che, oramai paradossalmente emancipata(si), scardina un paradigma nella mente di Rocco (e del maschio in generale) quando, dopo che lui si è giustificato, a proposito della famosa scena (ovviamente consensuale per la legge) del Toilet Fuck (solo accennata, mentre un approccio ben diverso è quello operato dal “Pleasure” di Ninja Thyberg) contenuta nel “Sandy [Balestra] l’Insaziabile” con Sidonie Lavour, dicendo che l’attrice era completamente bagnata (ovvero, Explanation for Pillon, lubrificata), gli risponde “Tu sei sicuro che in quel cesso, davanti a quelle persone, lei voleva andare dove l’hai portata? […] E se voleva fermarsi un secondo prima? […] A Pigalle, una notte, è venuto un uomo basso, grasso, sudicio. Aveva una verruca sul labbro, e con quella bocca mi leccava. Mi leccava, e io non mi sono mai bagnata tanto in vita mia. E la mattina dopo vomitavo.

 

 

La vita (è) porno.

E sotto lo strutturale aspetto letterario tutta “SuperSex” è - oltre che attraversata dall'HIV/AIDS, a partire da John Holmes - così, ricolma di sentenziose “frasi celebri” puntualmente al limite dell’oscenamente stroppio – “Noi siamo quelli che non si risparmiano, quelli che oppongono al dolore del mondo l’unica cosa eterna che hanno: la carne.” / “Ogni potere cerca la sua pace e la pace è un’esplosione, un urlo, un’orgia.” / “Non lo so se avevo tutto, ma ci assomigliava. Non c’era un uomo per quanto ricco o potente che aveva quello che avevo io. Ma qualcosa continuava a mancarmi.” / “La verità è che per quanto tu impari a fottere bene, la vita fotte sempre meglio di te.” – gestite però di volta in volta quasi costantemente bene (sino alla Verità Ultima, quella in cui “la vita torna per un secondo, prima di andare via”, eternamente) e per lo più riuscendo a non essere involontariamente imbarazzanti, e ciò grazie primariamente dagli attori che, tra i principali, oltre ai summenzionati Borghi, Trinca, Caridi e Cela, vale la pena citare tutti: dalla pervicacemente percussiva incarnazione maudit di Adriano Giannini (Tommaso, fratellastro maggiore di Rocco) a Tania Garribba (la madre di Rocco), Vincenzo Nemolato (in mimesi totale - come suo encomiabile solito, e in quest’occasione - con Riccardo Schicchi e in sintonia con la performance di Fausto Paravidino di quindici anni prima), Gaia Messerklinger (che poco a poco transustanzia davvero in Moana Pozzi, rivaleggiando con l’interpretazione quasi diametralmente opposta di Violante Placido di tre lustri prima), Jade Pedri (Sylvie), Mario Pirrello (Franco Caracciolo), Pietro Faiella (il padre di Rocco), Enrico Borello (cugino e manager di Rocco), Saul Nanni (Rocco ventenne), Francesco Pellegrino (Tommaso ventenne), Nutsa Khubulava (Rozsa Tassi, moglie di Rocco), Linda Hardy (Denise), Johann Dionnet (Gabriel Pontello, aka SuperSex: "Ifix Tcen Tcen!"), Giulio Greco (Cristoph), David Kammenos (Jean-Claude) e Marco Fiore (Rocco bambino), oltre ad un paio di potenti camei per Joelle Hélary (a Pigalle) e Florence Guérin (eros & thánatos), recentemente in “Felicità”; mentre la fotografia è di Daria D’Antonio (il Passaggio della Linea, Hai Paura del Buio, Padroni di Casa, N-Capace, la Pelle dell’Orso, il Miracolo, Ricordi?, Tornare, È stata la Mano di Dio, Marcel!, Parthenope) e le musiche di Ralf Hildenbeutel (“Monterossi”), col juke-box che inanella Edoardo Bennato, i Camaleonti, Umberto Tozzi, Ornella Vanoni, Raf, Marcella Bella, Ultravox e Nick Cave & the Bad Seeds. (Ma - mentre Rino Gaetano è un mio cortocircuito - mancano filologicamente gli Elii!)

 


Abbraccia il dolore. Acqua di mare e sole.

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Surrounded

  • Western
  • USA

Titolo originale Surrounded

Regia di Anthony Mandler

Con Jeffrey Donovan, Jamie Bell, Michael Kenneth Williams, Letitia Wright, Brett Gelman

Surrounded

In streaming su Amazon Prime Video

 

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1870, al confine tra New Mexico e Colorado, un lustro dopo la fine della Guerra Civile di Secessione, un pezzo di carta in tasca, l’afroamericana mascheratamente proteroginica per costrizione e vocazione Mo Washington, da donzella di mare ora minchia di re per necessità e piacere, cerca di sopravvivere – nata schiava e ora liberata (marca da bollo, timbro e firma da esibire all’occorrente occorrenza) grazie alla vittoria dell’Unione sui Confederati, dopo aver servito per un periodo nei Buffalo Soldier a “uccidere gente con la pelle poco più chiara” della sua – ai caucasici volenterosi rappresentanti della legge, siano essi minuspriapici tutori della stessa o cacciatori di taglie, e ai fuorilegge, slalomando tra i comanche superstiti accampati nei canyon.

 
Tommy Walsh (Jamie Bell) a Mo Washington (Letitia Wright):
“Just 'cause they don't wanna look at you don't mean I can't see.”
(“Solo perché loro non vogliono guardarti ciò non significa che io non riesca a vedere.”)

E ancora, nuovamente lui a lei:
- Sai, l’umanità sa essere molto ostile se ti ritiene indegno di farne parte.
- Quindi adesso vuoi vendicarti del mondo?
- Ah-ah! Io… voglio vendicarmi del mondo da quando avevo otto anni.

E poi, Will Clay (Michael K. Williams), sempre a lei:
“Abbiamo le stesse cicatrici tu e io. Hai ricevuto i tuoi quaranta acri, il tuo mulo. Ti senti libera. Io di sicuro no.”

 
Molto bella la "kubrickiana" (FMJ) l’introduttiva carrellata iniziale verso destra che cerca/crea l’alba, apparendola oltre un promontorio di roccia posato sull'orizzonte.

 

Peccato per il finale, l’unico vero e proprio elemento che disinnesca la sospensione dell’incredulità dal mero PdV delle dinamiche di logica comportamentale: lo sceriffo/giudice dà per scontato che il ragazzo dopo essersi svegliato abbia ridisposto i corpi attorno all’albero? Perché da quella posizione è ben difficile che si siano uccisi l’un l’altro o che siano tutti quanti andati a morire accomodandosi attorno al tronco.

 

In mezzo a questi due elementi dicotomici, in apparenza l’uno di forma/stile e l’altro di sostanza/contenuto, ma in realtà interscambiabili, ci sta il film, che scorre, così come il prologo, tra non banali quadri “rosy-fingered dawn/dusk” (più che Quentin Tarantino vi sono echi primigenei da Paul ↓ Schrader: la protagonista appollaiata sull’albero inscheletrito come una pantera) pittati di luce: la fotografia è di Max Goldman, ma lo stesso regista…

 
(fotografo ritrattista e videoclipparo di razza per, in ordine più o meno cronologico, Snoop Dogg, Common, 50 Cent, Jay Z, Eminem, Nelly Furtado, Rihanna, Beyoncé, Fergie & Black Eyed Peas, Duran Duran, Spice Girls, the Killers, John Legend, Mary J. Blige, Usher, Drake, Muse, Cristina Aguilera, Jennifer Hudson, Nicki Minaj, Lana Del Rey, Taylor Swift, Selena Gomez, the Weeknd, Jennifer Lopez, Lenny Kravitz, Shakira e Jonas Brothers più un documentariosu David Beckam e il lungometraggio di finzione narrativa “Monster)


…ci mette del suo, mentre la sceneggiatura è di Andrew Pagana (che l’ha revisionata da solo oltre a comparire in un ruolo secondario) e Justin Thomas, il montaggio è di Ron Patane, le musiche sono del danese Robin Hannibal [più “(They’re) Calling Me Home” di Alice Gerrard interpretata da Rhiannon Giddens con Francesco Turrisi alla fisarmonica e “God Drag Me Along”, uno splendido inedito di Ben Harper e Robin Braun] e il cast è ben composto…

 

– oltre che dai succitati Letitia Wright (“Black Mirror: Black Museum”, “Black Panther”, “Avengers: Infinity War / EndGame”, “Guava Island”, “Small Axe: Mangrove”, “I Am: Danielle”, “Death on the Nile”, “the Silent Twins”, “Aisha”, “Black Panther: Wakanda ForEver”), Jamie Bell (“Billy Elliot”, “Undertow”, “Flags of Our Fathers”, “Snowpiercers”, “Nymphomaniac”, “Shining Girls”, “All of Us Strangers”) e Michael K. Williams (1966-2021; per sempre l’Omar Little di “the Wire”, e poi in “BoardWalk Empire”, “Inherent Vice”, “the Night Of”, “Hap and Leonard”, “Arkansas”, “Motherless Brooklyn” e “Lovecraft Country”, e qui alla sua ultima interpretazione) –

 
…anche da Brett Gelman (un piccolo ruolo in “Person to Person”, il finale di serie di “Mad Men”, e poi in “FleaBag”, “Twin Peaks 3: the Return”, “Stranger Things”, “Camping (US)” e “Mr. Mercedes”), Jeffrey Donovan (Changeling, J. Edgar, Sicario, Fargo, Lucy in the Sky) e Luce Reins (“No Country for Old Men”).

 

 
Nota finale.
Esemp(lar)i di No (CoViD) Vax: Letitia, Povia, Andrea. Puoi perdonarne due e garrotarne uno. (Scelta ardua.)      

 

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Addenda (02-04-2024).

 

Dopo un breve dialogo sul film avuto con l’utente @daniele64 in calce alla sua recensione riassumo qui un paio di concetti volanti sulla questione “Black-Washing” & “Forced Diversity”.

Quando l’atto di “normalizzazione” delle “minoranze” - che può costituire tanto il fulcro quanto un aspetto collaterale dell’opera - è organizzato bene, e accade spesso e volentieri, i caratteri che ne escono sono né più né meno... orribili/splendidi come la media delle persone.
E proprio come ci si aspetta da un'opera libera da pregiudizi (al di là del suo valore finale), il personaggio di Mo Washington in questo “Surrounded” (“pur” appartenendo a una "minoranza") esprime caratteristiche sia positive che negative, e nemmeno si tratta di un’eroina, e nemmeno come tale svetta se rapportato agli altri (il solo che si potrebbe definire una “brava persona” è il cocchiere/postiglione interpretato dallo stesso Andrew Pagana, il co-sceneggiatore e revisore del film).
Milioni di schiavi liberati nell'arco degli anni, e non tutti, direi, si sono arruolati nei Buffalo Soldier a cacciare indiani dalle loro terre e ad ammazzarli per raccimolare uno stipendio. Sono diventati operai e contadini, invece, "liberi", indipendenti a volte, o, nella stragrande maggioranza dei casi, sono sùbito tornati sotto padrone (che spesso e volentieri era lo stesso medesimo di prima), solo un po’ ripulito, ma neanche poi troppo), con stipendi e condizioni di vita questa volta solo un gradino al di sopra della schiavitù, ma senza ammazzare né bianchi né neri né gialli né rossi.
Mo Washington invece cerca riscatto e vendetta, e lo fa attraverso il sogno americano, come tanti, e quel sogno lo mette in pratica quasi sempre col sangue, cioè col dollaro (veicolato dal piombo).

Di solito rispondo così a chi, in rappresentanza dello scemo del paese e/o delle masse (ché spesso le due cose coincidono), muove critiche idiote al fatto che “ultimamente” un sempre più alto numero di film - per non esulare dal camp cinematografico – mette in scena persone di genere femminile o appartenenti allo spettro che dal femminile si congiunge al maschile come esseri umani forti e risoluti o persone “di colore” raffiurate né più né meno come eroi dell’Antica Grecia: "Se dopo secoli di prevaricazione [maschile, bianca, etc.] perpetrata dai tuoi simili nei confronti di altre genti adesso ti bastano un paio di film* per sentirti così in pericolo [piccolo, miserabile, inutile] è perché forse lo sei."

*Nei quali la prospettiva viene ristabilita, ma senza stravolgere la Storia: comprendo un Amleto col Principe di Danimarca bianco, un'Ofelia nera, una regina asiatica, un re amerindo, uno zio Claudio molisano e uno Yorick bergamasco (si pensi, solo per fare un esempio, al “Macbeth” di Joel Coen, anche se la questione è molto più ampia e variegata), ma mi riesce un po’ più difficile giustificare l'inserimento ambiguamente forzato di caratteri controstorici non contestualizzati, col volenterosamente pedagogico - ma fuorviante - intento di far esclamare a un ragazzino di oggi che "Ma allora erano più integrati di oggi! Com'è che siamo finiti così?"

 

Recensione.

 

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

The Seeding

  • Thriller
  • USA
  • durata 94'

Titolo originale The Seeding

Regia di Barnaby Clay

Con Kate Lyn Sheil, Scott Haze, Alex Montaldo, Chelsea Jurkiewicz, Michael Monsour

The Seeding

 

Raccolto ginoide.

 

Il polline lo porta il vento (o qualche ape operaia dello sprofondo col redneck abbronzato dal sole della nullafacenza).


Barnaby Clay, regista britannico classe 1973, qui anche sceneggiatore (fotografia nicolasroeg-peter weir-douglastrumbulliana di Robert Leitzell, montaggio di Stewart Reeves e scenografie di David Bridson), con questo esordio sulla lunga distanza nel cinema di finzione…


– abitato dal sistema binario composto dalla musa del mumblecore Kate Lyn Sheil (AutoErotic, Gabi on the Roof in July, the Zone, Silver Bullets, Green, the Color Wheel, Sun Don’t Shine, Listen Up Philip, House of Cards, Queen of Earth, Kate Plays Christine, the Girlfriend Experience, Buster's Mal Heart, Golden Exits, She Dies Tomorrow, Kendra and Beth, Swarm), sempre molto brava, e da Scott Haze (“What Josiah Saw”, “Old Henry”), amico intimo e sodale collaboratore di James Franco nelle sue scorribande letterarie tra Faulkner, Steinbeck, McCarthy ed Erickson –


…dopo aver diretto (oltre ad aver rielaborato per un’installazione multimediale il “David Bowie’s Life of Mars” di Mick Rock) molti videoclip (per Rihanna, the Jon Spencer Blues Explosion, TV on the Radio, Gnarls Barkley, Yeah Yeah Yeahs, Dave Gahan e “Pretty Prizes” dalla «“Milano”…

 

 

… da Bere» di Daniele Luppi & Parquet Courts feat. Karen O - degli stessi YYY, e moglie del regista - & Soko) e documentari musicali (“Greeting for BearTown” coi Menlo Park e “SHOT! - the Psycho-Spiritual Mantra of Rock” sullo stesso Mick Rock) e cortometraggi quali “Finkle's Odyssey”, arriva ad un bivio di carriera: dopo un film del genere (che parte a velocità di crociera, s’incarta un po’ e poi si riprende bene) potrebbe sprofondare nell’inconsistenza di un metteur en scene buono per tutte le stagioni oppure intraprendere la difficile, impervia e perigliosa strada già tracciata da (iper-esagerando) Michel Gondry, Jonathan Glazer, Spike Jonze e Chris Cunningham: ma esiste anche la terza via, quella di mezzo: si saprà col tempo... 

 

Calendario mestruale e, se pur cronosismatico, lunare.


L’ur-spoiler primordiale, archetipico, mitopoietico è veicolato già dalla locandina, mentre le radichette suggono le prime goccioline d’umor acqueo dal terreno fertile di quel microcosmo (quasi) autosufficiente di una dolina carsica in un plateau (altopiano) dell’Utah che sembra l’outback australiano scorre la “Mother’s Song” scritta, eseguita (con Imaad Wasif) e prodotta/arrangiata (con l’autore delle musiche Tristan Bechet) dalla stessa Karen (Lee) O(rzolek).

 

 
Comunque due eclissi totali di Sole in 9 mesi mi paion un filo troppe...
 
 

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