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Certain Women

Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film

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La recensione su Certain Women

di mck
9 stelle

Stillicidio d'idillio comune dallo sprofondo affiorante in cui non accade altro oltre alla vita.

 

 

“Certain”, ovvero: “certo” e “sicuro” (nell'accezione del caso: di sé), e per altri versi “indubbio”, “inevitabile”, ma anche positivo”, e qualche. Nella specifica circostanza in questione la traduzione più appropriata - tanto parzialmente infedele quanto ambivalentemente precisa - è: "determinato" (perché non nel senso di pre-stabilito”, ma di “risoluto). "Certain Women": qualche donna, determinata, e alcune, certe donne, risolute. Insomma: "the Straight Story", bisenso e crocevia.

 

[Era dai tempi di “My Son, My Son, What Have Ye Done” che non si vedeva un treno così lungo principiare un film (l'inizio è “identico” alla pellicola di Werner Herzog del 2009). Attendo smentite e integrazioni.]

 

 

Tre storie compartimentate fra loro, impermeabili ai rimandi interni (tradimenti coniugali passeggeri e incroci fortuiti e irriconosciuti), ma in realtà a tutti gli effetti complementari e assonanti, in dialogo - se pur quasi mai diretto tra gl'insiemi costituenti la storia - vivo e autoinsorgente.

 

 

Kelly Reichardt, classe '64, giunta al suo 6° lungometraggio (più un medio, “Ode”, e due corti), firma (scrivendone, come al solito, la sceneggiatura, tranne che nel caso di “Meek's CutOff”, là affidata al solo, collaboratore di sempre, Jonathan Raymond, e qui invece stesa di suo unico pugno) un'opera profondamente matura, conciliante ma non conciliata col mondo, in dialogo (che i nomi in gioco siano tutti di genere femminile è tanto sintomo del fatto che le coincidenze esistono quanto del fatto che non significano alcunché) col cinema di Claire Denis e la letteratura di Elizabeth Strout (cito quest'autrice perché di Maile Meloy, classe '72, su e d'alcune delle cui storie, contenute nella raccolte di racconti del 2002 e del 2009 intitolate “Half in Love” ("Native SandStone" e "Tome") e “Both Ways Is the Only Way I Want It” ("Travis B"), il film è basato, sviluppato e tratto, ancor niente di nulla ho letto).

 

 

La tetragona, pacifica, tranquilla, imperturbabile, stoica eppur immersiva e indifferentemente solidale messa in atto che esprime e restituisce una profonda capacità di sguardo e ascolto con cui Reichardt inscena le 3 storie delle 4 co-protagoniste è, oltre che impressionante, esemplificata dal posizionamento dei punti di ripresa della claustrale MdP, in-chiostrata nelle maglie del tessuto cittadino e campestre: camera fissa in attesa che per l'ennesima volta si apra sull'esterno paesaggio innevato in progressivo avvicendarsi delle fasi dell'inverno il portone scorrevole a scomparsa dello stallone rivelandone l'oltre-campo; all'interno dell'abitacolo di un'automobile estranea, chiusa e parcheggiata in sosta ai bordi della main street, ad inquadrare la cerca d'amore in corso passante; in panoramica di 180° s'un asse centrale imperniato ortogonalmente al pavimento all'interno di una lavanderia automatica: il soggetto osservante/narrante (vuol) è(ssere) parte conscia e segreta del contesto che attraversa e rappresenta. 

 

 

Fotografato splendidamente da Christopher Blauvelt (con Reichardt da “Meek's CutOff” e poi in “Night Moves”, e ancora: “Bling Ring”, “Indignation” e “the Disappearance of Eleanor Rigby: Him/Her/Them”, e i prossimi “Mid '90s” e “State Like Sleep”). Montato, come tutte le altre sue opere, dalla stessa Kelly Reichardt. Musiche di Jeff Grace (anch'egli con Reichard da “Meek's CutOff” e poi in “Night Moves”, e in seguito in due Joe R. Lansdale di Jim Mickle: “Cold in July” e “Hap and Leonard”), che "irrompono" e sorprendono in specie nel finale. Tra i produttori esecutivi spicca, con la regista sin dai tempi di "Old Joy" - e anche da prima, sotto altre non accreditate spoglie -, Todd Haynes

 

 

Stillicidio d'idillio comune dallo sprofondo affiorante.
• Una vita (due vite: Laura Dern e Jared Harris, nell'episodio più amabilmente didascalico e, per contro, in consapevole e voluta sottrazione e reiterazione) trova(no) un precario, a parte, assestamento ed equilibrio.
• Una vita (tre vite, meno una: Michelle Williams - che, smesso di assomigliare a Carey Mulligan, è qui alla 3a esperienza con la regista dopo il bellissimo e (in)quietamente dolente “Wendy and Lucy” e il maestoso, in sottrazione, "Meek's CutOff" -, gelida al calor bianco, James Le Gros e Sara Rodier trovano un equilibrio, stabilmente precario ma, e forse è un bene, ottusamente e rassegnatamente dedito allo scopo, puntando lo sguardo verso la parentesi d'orizzonte e auscultandolo col labirinto auricolare compiersi, venirgl'incontro, addosso, plasmandone la postura; Rene Auberjonois, lentamente, inesorabilmente, scompare: le sue arenarie pietre (tombali) - “Se non le prendiamo noi se le prenderà qualcun altro” - serviranno a qualcosa, a costruire il futuro) trova(no) un appiglio nel domani.
• Una vita (due vite: Kristen Stewart, bravissima - un grumo di bellezza apatica, indifferente, indolente, inerte: sindrome astenica da middle-working class che gemma ed eradica, semina e miete, trapianta ed espianta amore - in un ruolo difficile ed ingrato, e Lily Gladstone, semplicemente: la ragion d'essere - discendente dei nativi americani: Cheyenne, Crow, Lakota - del film) continua(no) così, come sempre. 

 

 

Una storia può esprimere o meno un lieto “fine” a seconda del punto in cui l'autore decide di interromperla/troncarla o sospenderla/rimandarla, e “Certain Women”, dopo aver percorso un breve tratto di strada, senza scorciatoie (“Meek's CutOff” un secolo e mezzo dopo) si ferma proprio, esattamente, “nel momento in cui” [/omissis/]. 

 

 

Una storia, il suo narratore (o il suo ascoltatore), poi, può anche ritornare, col pensiero, ad un momento e luogo: ad esempio, una passeggiata notturna a cavallo, tenersi strette in due, l'un'alla sella, alle staffe e alle redini, e l'altra, cavalcando a pelo, al corpo della temporanea compagna, circondandone il busto con l'estensione delle braccia, il fiato dell'animale condensantesi nel nero a precedere il loro.
Vi è un magnifico stacco di montaggio, in quella - anzi in questa, già che ci siam ritornati - scena: la MdP, dopo essere partita dal basso, inq.do in carrellata parallela le gambe del destriero al passo, si alza, con un MdM retorico ma bellissimo, ad inq.re le due cavallerizze (in Montana tutti sanno cavalcare, anche i cavalli). Poi, senza che nulla di fondamentale cambi nell'inq.ra, tranne un minimo lasso di tempo intercorso tra un fotogramma e l'altro, qualche decina di metri percorsi, il successivo netto frame piomba attraversando l'apertura dell'otturatore con un lampione controluce a invadere il quadro, e la scena prosegue da lì. Simile, ineguale: così come si ritrovano ad essere i personaggi alla “fine” di questa storia. In cui niente accade, tranne la vita.

 

 

* * * * (¼) ½  -  8.75   

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