1 stagioni - 6 episodi vedi scheda serie
The (Adventures of the) TruthStorian Back in Action!
Facce giuste, grandi canzoni. E lo “spirito guida” di Jim Thompson ad intercalare il progredir del racconto a colpi di hardboiled in edizione tascabile. (Più qualche inventato, ma più vero del vero, Dale Washberg, à la "Gentlemen Broncos".)

I. “A dirla tutta non so che cazzo sta succedendo, è diventato tutto... un po’ strano.”
Convince sin dalle prime battute, “The Lowdown”, la (mini, a meno di un non impossibile prosieguo) serie che si sviluppa attraverso 8 ep. da ca. 50' l’uno creata, showrunnerizzata, prodotta (con lo stesso protagonista Ethan Hawke), scritta (con altri 7 sceneggiatori, fra i quali il Walter Mosley di “Devil oin a Blue Dress”, “Futureland”, “the Last Days of Ptolemy Grey” e “the Man in My Basement”) e diretta (col Macon Blair di “I Don't Feel at Home in This World Anymore” e “the Toxic Avenger”, cui è affidato anche un piccolo ruolo – Murder Party, Blue Ruin, Green Room, Hold the Dark, the Hunt, Oppenheimer – di contorno, e con la Danis Goulet di “Night Raiders”) da Sterlin Harjo ("Reservation Dogs"), a parte qualche momento d’incertezza WTF, del tipo “Dov’è che stiamo andando a parare?”, ma poi prosegue lungo un inesorabile falsopiano in crescendo (per terminare, in contraltare all’happy ending in understatement, con uno dei controfinali, affidato alla Jeanne Tripplehorn di “WaterWorld” e “Big Love”, più “dolcemente” spietati di questo primo quarto di nuovo secolo/millennio).
II. “Se la verità non ha importanza allora niente ha importanza, giusto?”
- Ero indeciso se accettare il lavoro [di pedinamento; NdA] perché, francamente, sapevo già chi eri. In effetti potresti anche dire che ero un fan dei tuoi scritti.
- [Pausa di riflessione.] “Eri” un fan.
- “Non incontrare i tuoi eroi.”
- [Pausa di riflessione.] Quindi… sono tipo un tuo eroe?
- È una metafora!
- Cosa ci guadagneresti da questo accordo?
- Beh, sai, mi considero una specie di “Storico della Verità” [in originale “TruthStorian”: cronista, biografo, ricercatore, studioso, divulgatore, narratore della verità; NdA], capisci? […] Vedi, c’è [rubando spudoratamente le parole pronunciategli da un amico poco prima; NdA] quest’odio, sai, che ribolle sotto a ogni cosa… E ha potere, e ha bramosia, e ha i soldi negli occhi. […] E io voglio combatterlo! E voglio che tu lo combatta con me!
- Non so bene cosa cazzo tu abbia appena detto, ma […] perché ti importa delle terre indiane?
- Beh, senti, amico, se vedo un ingiustizia, hm?, e non faccio nulla, cosa fa di me questo?
III. “The Sensitive Kind”.
Ethan Hawke s’inserisce con prepotenza in un filone seriale che ultimamente si presenta già bello ricco, ovvero quello delle “facce da schiaffi”, andando a fare la sua porca figura al fianco del Vince Vaughn di “Bad Monkey” (2024; Bill Lawrence, da Carl Hiaasen), del Clive Owen di “Monsieur Spade” (2024; Scott Frank & Tom Fontana, da Dashiell Hammett), del Colin Farrell di “Sugar” (2024; Mark Protosevich) e del Kevin Bacon di “The Bondsman” (2025; Grainger David) con una prestazione generosa ed azzeccata. Accanto a lui un cast altrettanto generoso ed azzeccato: da Keith David (the Thing, Platoon, Bird, Clockers, Pitch Black, Requiem for a Dream, Greenleaf, Nope, American Fiction), ottimo caronte e spalla, al “Sensitive Kind” Tim Blake Nelson ("O Brother, Where Art Thou?", "As I Lay Dying", "Child of God", "the Sound and the Fury", "the Ballad of Buster Scruggs", "Old Henry", "Greedy People"), ottimo coro greco e cicerone, passando per un acutamente/sottilmente impressionante Kyle MacLachlan (Twin Peaks, the Doors, Showgirls, Portlandia), e poi, oltre ai già citati Jeanne Tripplehorn e Macon Blair, spiccano Michael Hitchcock (“The Resort”), Tracy Letts ("Bug", "Killer Joe", "A House of Dynamite"), Paul Sparks (“BoardWalk Empire”, “The Night Of”, “Physical”), Scott Shepherd (First Cow, El Camino, Killers of the Flower Moon, the Phoenician Scheme), Dale Dickey (“Winter’s Bone”, “Hell or High Water”, “Leave No Trace”, “Palm Springs” e “A Love Song”, e qui in versione «Mark Wahlberg in “the Departed”»), Kaniehtiio Horn e la giovane, molto brava e convincente, Ryan Kiera Armstrong (“FireStarter”).
Casting – bianco, nero & rosso – di Angelique Midthunder, già al lavoro per “The Curse” e “American Primeval”.
Musiche originali di Jonathan David "JD" McPherson, from Oklahoma, e nel juke-box una track-list di canzoni preesistenti da urlo e da sturbo: i primi due episodi, diretti da Harjo stesso, sono entrambi aperti e chiusi, pescando in particolare da "Naturally", del 1971, e da "5", del 1979, da J.J. Cale (che ricomparirà anche dopo, con “Magnolia”, a metà narrazione), con “Sensitive Kind” (che poi, nella cover di Eric Clapton, andrà a chiudere il finale di stagione, o di serie?) e “Mona”, l’uno, prima, e con “Call Me the Breeze” e “Don’t Go to Strangers”, l’altro, dopo.
E poi:
Lee Hazlewood - "Tulsa Sunday", "The Night Before" e "Hey Cowboy";
Bikini Robot Army - "Stranger in a Strange Land";
Jesse Ed Davis - "Keep Me Comin’";
Cheyenne - "Cimarron River";
Agalisiga - "Tsitsutsa Tsigesv (When I Was a Boy)";
Taj Mahal - "Statesboro Blues";
Micah P. Hinson - "One Day I will Get My Revenge";
Hayne Davis - "Without Me";
Joleen Brown - "Bullfighter";
Jacob Tovar - "Rock, Salt & Nails";
Leonard Cohen - "So Long, Marianne".
Per dire, eh.
Mentre David Allan Coe è solo appeso al muro (senza il sarcasmo - come il “Born to Kill” + “Peace Symbol” sull’elmetto di Joker in FMJ - della bandiera sudista tatuata sul braccio del protagonista) di un tinello white trash, salvo poi rispuntare fuori quasi all’ultimo con “You Never Even Called Me by My Name”, ovvero - SARCASM "ON" – la "perfect country and western song" (cit., sic!).
E no, non potevo certo chiudere questa pagina così, perciò…
* * * * ¼
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