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L’occulta Regia Di Don De Lillo Nel Cinema Americano D’autore
di Marcello del Campo ultimo aggiornamento
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Marcello del Campo

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Nessun dubbio che Raymond Carver sia uno dei più grandi narratori americani, molti sono i dubbi, invece, dissolti dall’edizione critica delle sue opere - in corso di ritraduzione e ripubblicazione dalla Einaudi - restituite all’integrità che l’editor Gordon Lish aveva minato (con tagli assurdi) per annettere l’autore al cosiddetto ‘minimalismo’. Un altro torto ha subito Carver, questa volta da parte dei suoi lettori: quello di ‘vedere’ Carver in ogni film in cui si agitano traiettorie ellittiche nel tessuto della trama.

Che America oggi sia un film carveriano nell’impostazione a mosaico del plot, questo non sorprende, poiché lo stesso Altman si è programmaticamente ispirato ad alcuni racconti del grande narratore. Poi, una notevole pigrizia da parte della critica più epidermica (leggi: priva di consistenti altri appigli) e una altrettanto facile giudizio da parte di spettatori che amano citare senza il paracadute di assidue frequentazioni di autori diversi da Carver, hanno ridotto lo sfortunato Raymond a diventare oggetto usuale di paragoni e ispirazioni improprie; a tale proposito, film come American Beauty, Magnolia, Crash (di Paul Haggis), anche il sopravvalutato Babel, sono diventati carveriani per forza: è bastato che nel plot regnasse una certa confusione casuale nella concatenazione degli eventi narrati che tosto si facesse il nome di Carver.

Le cose della letteratura stanno diversamente – e di conseguenza, quelle del cinema.

L’atto di nascita dell’objéct à propeller i dati evenemenziali è il 1997, quando Don De Lillo dà alle stampe il suo capolavoro Underworld in cui la palla della leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers al Polo Grounds di New York (3 ottobre 1951), che ha assicurato la vittoria ai Giants, “recuperata da un ragazzino nero di Harlem, rintracciata da un collezionista dopo ventidue anni di ricerche, viene acquistata da Nick Shay, un ‘waste manager’ incaricato di liberarsi dei rifiuti più pericolosi del nostro tempo: le scorie atomiche. Entrano così in campo i rifiuti che sono, insieme alla paura collettiva, un filo che unisce la spazzatura della città, le bombe atomiche inesplose e gli aerei da guerra in disarmo trasformati in opere d’arte […]. De Lillo porta a nuovi risultati quella tecnica di unione tra romanzo e inchiesta che ha fatto coniare […] la definizione di ‘faction’, unione di ‘facts’ e ‘fiction’.” (Angiola Codacci-Pisanelli, L’Espresso, 15 aprile 1999).

Il capolavoro di De Lillo riconosce solo il debito con il cinema di Altman, ma Carver non c’entra nulla, lui è narratore cecoviano, stringato fino all’osso di una prosa inimitabile anche se malamente scopiazzata da scrittori di area ‘creativa’ e cineasti del vuoto spinto.

Dall’imitazione della tecnica di De Lillo non fanno mistero Sam Mendes e Paul Thomas Anderson, poi arriva la ‘maniera’ (Haggis), infine la piatta imitazione del pessimo, meccanico Babel di Inarritu.  

 

PUNTO OMEGA

 

Pensò che forse era il caso di cronometrare la scena della doccia. Poi pensò che era l’ultima cosa che gli andava di fare. Sapeva che nel film originale si trattava di una scena molto breve, meno di un minuto, notoriamente meno, e qualche giorno prima lì nella galleria aveva guardato quella scena in forma prolungata, tutta fatta di movimenti spezzati, senza suspense né terrore né quella musica pulsante simile all’urlo di una civetta. Gli anelli della tenda, ecco cosa ricordava con maggiore chiarezza, gli anelli della tenda che girano sull’asta quando la tenda viene strappata, un momento che va perso alla velocità normale, quattro anelli che girano lentamente lassù, sopra il corpo accasciato a terra di Janet Leigh, una poesia estemporanea sopra quella morte infernale, e poi l’acqua insanguinata che scorre serpeggiando nello scolo, minuto dopo minuto, e che infine sparisce in un vortice.  (Don De Lillo, Punto Omega, Einaudi, maggio 2010)

 

Se Underwold è il masterpiece di De Lillo, Punto Omega ne è una scheggia adamantina: dalle 880 pagine del primo, un romanzo massimalista, alle scarse 120 di quest’ultimo c’è una soluzione di continuità raggelante nella rappresentazione del tempo dell’uomo e tempo del mondo, “il tempo geologico, il tempo che diventa cieco, il tempo in cui ogni momento perduto è la vita, la nuda vita.”.

La narrazione di appena cento pagine - l’incontro in una casa isolata nel deserto tra un anziano intellettuale, Richard Estler, esperto governativo della strategia militare in Iraq e un giovane regista che vorrebbe girare un documentario su di lui – è racchiusa tra un inizio e un finale (in tutto venti pagine) in cui un uomo, la cui identità prenderà corpo per notificare una verità agghiacciante, osserva ossessivamente per giorni e giorni una videoinstallazione di Douglas Gordon, intitolata 24 Hour Psycho, al Museum of Modern Art di New York nell’estate del 2006.

Che nesso c’è tra l’uomo che guarda la visione estesa a 24 ore di durata del film di Hitchcock, i due uomini nel deserto e la scomparsa della giovane figlia di Estler?

 

Norman Bates, spaventosamente normale, mette giù il telefono. Tra un po’ spegnerà la luce nell’ufficio del motel. Camminerà sui gradini del sentiero che porta alla vecchia casa, dove diverse luci sono accese, il cielo buio sullo sfondo

 

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