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Gli autori raccontano le loro opere: Alain Resnais e Jacques Sternberg parlano di “Je t’aime, je t’aime”
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Il film è un mélange di vita quotidiana e di science-fiction, ma dentro che anche un po’ di Cechov. E’ un film da camera, più raccolto e intimista, esattamente come lo è la musica da camera. Ma è anche una commedia leggera (l’humour non dovrebbe essere mai assente in pellicole di questo genere) che ha dentro però alcuni aspetti tragici.

Lo sviluppo delle scene è basato sullo sviluppo delle emozioni, un po’ come le iridescenze che si formano quando si spandono le macchie di petrolio. Non parlo evidentemente della marea nera, ma degli strati iridati che scivolano sull’acqua. Ecco: io spero che il pubblico sia sensibile a questo gioco irridescente, ed anche all’humour che l’opera contiene.

Ho scelto questa storia perché mi piacciono i racconti di fate, i romanzi popolari. E la science-fiction (per lo meno quelle tracce evidenti che contiene questo soggetto) se ne avvicina abbastanza.

Spero allora di aver narrato un racconto di fate con dentro un po’ di science-fiction, il tutto costruito però su un tema vecchio di tremila anni che potrebbe essere riassunto così: “L’esistenza è una strana avventura e io non capisco perché siamo sulla terra…”

Evidentemente però non è un film di science-fiction in senso lato: a me interessa soprattutto la “finzione” degli scienziati, e non è un semplice gioco di parole, credetemi.

Non rappresenta comunque nemmeno un mero pretesto per  svolgere e riavvolgere la vita di un uomo. Credo invece che uno dei temi del film, a proposito di Claude Ridder, sia quello di porre una domanda: si può vivere in maniera marginale come fa lui? E soprattutto, si può passare tutta la vita senza parteciparvi?

Ma c’è anche forte l’ossessione della morte dentro. E anche il tema che si uccide sempre chi si ama, persino quando non lo si uccide fisicamente. E nella scelta dei momenti di cui si ricorda Ridder, c’è sicuramente il caso (inteso come casualità), ma non soltanto questo. Perché la memoria è un setaccio – e si tratta di sapere semmai (o meglio di comprendere) perché certe cose passano attraverso il setaccio e altre no. Allora, per esempio, ci sono scene in cui si vede Ridder attendere un tram, forse proprio perché nella vita si passa tanto tempo ad attendere qualcosa, un tram, un’auto, qualcuno. Ed è così anche per tutte le scene che si svolgono sul letto: passano più di altre attraverso il setaccio perché, anche se lo si dimentica facilmente, si passa un terzo della vita in un letto. Ma quando in un film si mostrano certe cose, questo sorprende, sembrano piccoli, ininfluenti brandelli minimali di vita vissuta. Tutto questo comunque spiega e giustifica la forma del film, il montaggio che ho realizzato, e anche l’importanza della colonna sonora, perché ci deve essere in tutta la parte iniziale del film una certa particolare atmosfera che la musica deve sottolineare e rendere più evidente.

Ma anche questa volta, alla fine, ho soprattutto cercato di restare fedele ad André Breton e a una certa forma di scrittura automatica. Ho sempre voluto conformarmi a questo ideale. E, d’altra parte, penso che non si possano girare film in altro modo, oggi. (Alain Resanais, 1968)

In una clinica, un uomo si trova fra la vita e la morte. Si è suicidato. Si chiama Claude Ridder.

Un uomo sembra avere un interesse particolare per questo paziente che torna a poco a poco di lontano. Ne parla regolarmente con il chirurgo responsabile.

Un giorno, ristabilito, Ridder lascia la clinica. All’uscita due uomini lo aspettano. E, tra questi, colui che veniva regolarmente a prendere notizie. Abbordano Ridder. Gli domandano se ha un giorno da perdere. Ridder li segue. Un’auto li conduce fuori città, in aperta campagna, fino a un Centre de Recherche che si chiama Crespel, un nome che non figura ancora sulle carte. Qui alcuni tecnici comunicano a Ridder ciò che si aspettano da lui. Visto che non sembra aver più molta voglia di vivere, è stato scelto come soggetto di un esperimento intrapreso nel più grande segreto: il primo viaggio nel tempo. Un piccolo viaggio, una breve andata-ritorno. Essere rigettato  per un minuto nel proprio passato. L’esperimento è stato tentato centinaia di volte con i topi, ma mai con un uomo. Ridder accetta. Trattato con cordialità, messo  poco a poco a proprio agio. Ridder all’ora H, è posto in una sfera compatta, da cui non potrà uscire che dopo quattro minuti.

L’esperimento riesce, Ridder si trova al punto preciso del proprio passato in cui era il 15 settembre 1967 alle ore 16: nell’acqua della Costa Azzurra. Passa un minuto. Ridder, da allora, dovrebbe  ritrovarsi nella sfera dell’esperienza. Ma qualche cosa non ha funzionato in questo centesimo di secondo che deve rigettarlo nel presente. Egli resta agganciato in questa giornata del 15 settembre, attorno a questo minuto, alle 16. Si ritrova più lontano dall’acqua. Poi sulla spiaggia. Poi il minuto si ripete. E come un aeroplano in avaria può precipitare nello spazio, Ridder cade nel vortice del tempo, esclusivamente nel suo passato però, nell’ambito dei minuti e dei secondi che ha già realmente vissuto. Questa caduta libera da un momento all’altro, da un anno all’altro, da un viso ad un altro, da un interno a un paesaggio, costituisce l’essenziale del film, una sorta di puzzle incompleto e delirante attraverso il quale si vede apparire in filigrana meno la biografia di un uomo che il suo volto segreto, le sue incertezze, la sua passione per una donna, il suo stesso dramma. Un dramma la cui figura principale si chiama Catrine.

Una prima volta Ridder  si ritrova nella sfera  dopo la sua caduta nel passato. Poi una seconda volta. Vi si ritrova prigioniero, separato da tutto, perché nessuno lo aiuta ad uscire. In effetti, non resta nella sfera che qualche secondo e i tecnici  non possono che constatare la propria impotenza ad agire.

E Ridder, da parte sua, si ritrova trasportato nel tempo, nel suo passato. E durante questa caduta fatta di frammenti, di flash ciechi o di tempi morti, di momenti cruciali o totalmente privi di importanza, il passato di Ridder si precisa con sempre maggiore precisione e confusione. Ridder si è effettivamente suicidato qualche mese dopo la morte di Catrine, con la quale viveva da dieci anni, mentre Catrine è morta durante un soggiorno all’estero. Di questa morte però nessuno sa niente: si crede che Ridder e Catrine si siano separati, come dice lui stesso.

Ma ad una amica, Ridder confessa un giorno di aver ucciso Catrine. Poi ritratta e sostiene che la donna è morta accidentalmente. Dov’è la verità? Un dialogo rapido fornisce tuttavia una prova evidente – ma segreta – che Ridder non ha ucciso Catrine, ma ha semplicemente pensato di farlo.

Ridder si ritroverà ancora numerose volte nella sfera. Non vi resta mai più di due o tre minuti però: e mentre lui stesso recupera tutta la propria lucidità e pensa disperatamente ai mezzi per uscirne, parallelamente i tecnici ridiscutono un esperimento che volge sempre più sicuramente al fallimento. Forse perché l’esperimento esigeva un soggetto passivo e Ridder gli ha opposto invece una resistenza mentale che sembra interferire pesantemente.

Poi tutto si interrompe. Di colpo Ridder, per caso o per sua volontà, si ritrova al momento in cui si è suicidato. Questo avvenimento, che nessuno aveva previsto, sconvolge completamente l’esperienza. Il tempo scivola letteralmente per Ridder ed egli si ritrova moribondo nel presente: al di fuori della sfera, su una coperta del Centre de Crespel, dove è già stato e dove questa volta nessuno potrà salvarlo. Ma il topo cavia che era partito con Ridder ritorna invece al presente, felice di vivere. (Jacques Sternberg)

 

 

Je t'aime, je t'aime - Anatomia di un suicidio (1968)

di Alain Resnais con Claude Rich, Olga Georges-Picot, Anouk Ferjac, Van Doude

 

 

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