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Gli autori raccontano le proprie opere: Jean Cayol su “Muriel le temps d’un retour”
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Muriel, il tempo di un ritorno (1963)

di Alain Resnais con Delphine Seyrig, Jean Pierre Kérjen, Nita Klein

 

La storia che raccontiamo, Resnais ed io, non ha una importanza maggiore delle altre storie che possono improvvisamente nascere all’incrocio di una strada o su di un viso. Se questa storia assume maggiore importanza delle altre, può tuttavia ritornare ben presto nell’anonimato della folla e delle città e sparire in un attimo.(…) Tocca allo spettatore lasciarsi coinvolgere dalle interrogazioni che gli sono poste: sta a lui finire una storia di cui non ha che gli errori e le menzogne e indovinare l’autentico slancio che spinge i personaggi verso una rivelazione che li afferra. (…) Boulogne-sur-Mer, novembre 1962: è qui che si svolge la storia, e non è casuale. Boulogne (…) è una città aperta a tutti i venti, che offre ai suoi abitanti soltanto locali troppo vecchi o troppo nuovi. Essi possono allora vivere nei loro drammi, nelle loro avventure come dentro costumi non su misura, ma già confezionati, drammi e avventure presi in prestito da altri e che difficilmente sono da loro accettabili, ma che essi accettano perché non hanno altre cose da vivere. Essi non sono né possessori della loro felicità o della loro infelicità. Essi non abitano nella loro esistenza, ma piuttosto la occupano. I personaggi sembrano essi stessi posati su questa città. Le radici sono state tagliate, essi sono storditi, come dopo una deflagrazione, ma il dramma può radicarli di nuovo, restituire loro il tempo, cioè la memoria.

E’ in questa città che vive la protagonista della nostra storia, Hélène Aughain, che si sta accorgendo di avere un’esistenza ormai troppo legata al quotidiano, e che forse per ritrovarsi o semplicemente sfuggire alla monotonia del consueto, ha improvvisamente voglia di rivedere colui che fu la grande passione dei suoi sedici anni e da cui la guerra l’ha separata, Alphonse. Gli scrive… in qualche modo si “riallaccia” a quel passato.

Alphonse è un debole che vuole piacere ad ogni costo: da duettista a gerente di bar, l’uomo ha esercitato tutti i mestieri. Accetta l’idea di questo incontro con noncuranza. Arriva a Boulogne in compagnia di Françoise, la sua amante, una giovane attrice di vent’anni, che presenta come la propria nipote (l’eterno gioco delle “apparenze”)..

Hélène li invita ad abitare in casa sua. E’ vedova e fa l’antiquario. Vende nel proprio appartamento mobili antichi, aiutata nel commercio da De Smoke, l’amante, che dirige un’impresa di demolizioni. Con lei vive Bernard, suo figliastro, che dopo il ritorno dall’Algeria si è rinchiuso nel ricordo tragico di Muriel e non ritrova la serenità se non accanto alla propria amica Marie-do.

Cosa vuole Hélène? Cosa cera ? Conquistare Alphonse ? Modificare la propria vita? Verificare i propri ricordi? Farvi nascere un avvenire  o liberarsene? Lei stessa lo ignora, come Alphonse ignora perchè ha accettato l’invito ed  è venuto.

Per 14 giorni, mentre continua a ricevere i clienti, a vedere De Smoke, ad invitare gli amici, a giocare al Casino, tutti vanno e vengono, camminano nella città,  negli incontri casuali, mescolano la loro storia o il loro dramma senza legarli fra loro. Muriel è dunque la storia di un ritorno. Il libro bianco di una more. (…)

Tutte  le scene saranno girate in rapida successione. E’ così che si è deciso. Esse formano in un certo senso uno schema un po’ marginale, delle ore, dei giorni, delle settimane vissute. Schemi e ripetizioni che disegnano certamente una trama, ma nello stesso tempo sono anche una sorta di topografia della città. O un quadro di passi inutili, perché tutte queste scene che  possono rappresentare molte giornate nello stesso tempo, sono in un certo senso solo degli esempi. E la macchina da presa, più che il tramite. è il solo legame comune che unisce e collega i personaggi itineranti della storia. Essi potrebbero incrociarsi (lo fanno spesso) come accade sempre per esempio in una piccola città dal centro limitato. Potrebbero salutarsi, vedersi, ma questo non succede. Sorta di “farniente” duqnue che ci mostra alcuni personaggi già sorpresi dall’avvenire. (…) Queste scene “casuali” qualche volta hanno un legame con la storia, i personaggi, servono a loro volta da collante, ma devono soprattutto creare anche un clima di panico: persino le strade, le piazze devono risultare tutt’altro che sicure. L’atmosfera deve essere di disagio, di insicurezza, ma  tutta interiore però, perché non bisogna svelare con troppa evidenza la propria paura. Le parole poi sono importanti, evocano ricordo: “Nessuno aveva conosciuto questa donno in precedenza – è un passaggio fondamentale che racconta il rapporto di Bernard con un passato che gli fa paura, ma è solo un esempio pratico per chiarire meglio la procedura adottata -  Ho traversato l’ufficio  dove lavoravo e ho ricoperto la macchina da scrivere. Ho attraversato il cortile. Lei si vedeva ancora. L’hangar era in fondo, con le munizioni.  Dapprima non l’ho vista. E’ avvicinandomi alla tavola che mi sono imbattuto in lei. Sembrava addormentata, ma tremava dappertutto. Mi hanno detto che si chiamava Muriel. Non so perché, ma questo non doveva essere il suo vero nome. Erano ben in cinque intorno a lei. Si discuteva. Bisognava che parlasse prima di notte. Robert si è abbassato e l’ha voltata. Muriel ha emesso un gemito. Aveva messo il  braccio sugli occhi. La lasciano andare e lei ricade come un sacco. E’ allora che la cosa ricomincia. La si tira per le caviglie nel mezzo dell’hangar per vederla meglio. Robert le da dei calci. Prende una lampada e la punta su di lei. Le labbra sono gonfie, piene di schiuma. Le si tolgono i vestiti. Si cerca di sederla su di una sedia, lei ricade; un braccio è come attorcigliato. Bisogna finirla. Anche se avesse voluto parlare non avrebbe potuto. Mi ci sono messo anch’io. Muriel gemeva ricevendo gli schiaffi. La palma della mano mi bruciava. Muriel aveva i capelli tutti inzuppati. Robert accende una sigaretta. Si avvicina a lei. Lei urla. Proprio allora il suo sguardo mi ha fissato. Perché me? Ha chiuso gli occhi, poi si è messa a vomitare. Robert si è ritirato, disgustato. Io li ho lasciati tutti. La notte sono tornato a vederla. Ho sollevato il telone. Come se fosse stata a lungo nell’acqua… Come un sacco di patate sventrato… Con sangue su tutto il corpo, nei capelli… bruciature sul petto. Gli occhi di Muriel non erano chiusi. Questo non mi faceva quasi nessun effetti. Il giorno dopo, prima del saluto, Robert l’aveva fatta sparire.

Le parole dunque, traccia e collegamento proprio per riportare a galla gli smarrimenti ed  il dolore ma in forma impersonale, come qualcosa che non ci appartiene, che non ci riguarda, che non danno il senso della gravità di un gesto perpetrato, con la camera che gira intorno ai volti ed alle cose con altrettanta indifferenza, senza prestare attenzione a nessuno, e tantomeno indugiare sugli incontri. (Jean Cayol)

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