Regia di Julia Ducournau vedi scheda film
Le ragazze stanno bene.
Se in “Grave / Raw” (2016) - un film vivo perché affamato - sarà il cannibalismo matrilineare e in “Titane” (2021) - un film assopito perché in costante stato di ipermetamorfosi - la meccanica della maternità, qui [e ho scientemente tralasciato “Mange” (2012), co-diretto con Virgile Bramly, perché non vi ho ancora assistito, e gli ep. 2x01/02 di “Servant” (2021), perché ai fini del discorso, semplicemente, pur affrontando argomentazioni finitime, poco contano], enucleando le tematiche portanti delle due opere (lungometraggi) successive, in questi densi e tumidi quanto scarni ed essenziali esordi, è l’umida exuvia di una crisalide mobile che lacerandosi rivela l’imago della persona al culmine del viaggio tra il possibile pericolante/infinito dell’adolescere all’acme dell’acne e il probabile stabile/consono dello stadio adulto che guarda, osserva, vede e al climax riconosce per la “prima” volta - oltre all’altro da sé suo consimile e culturalmente consanguineo - sé stessa nel riflesso dello sguardo che le restituisce la sorella maggiore, ad ancorare il film alla realtà, proiettata verso un altro, ennesimo passaggio a/di livello.
“Qu'une nouvelle vie commence!”
Per quei pochi minuti sui 20 totali in cui il cortometraggio è ambientato all’interno dell’istituto educativo, “Junior” (2011) è anche uno dei film [e ad oggi il lavoro migliore di Julia Ducournau, principiante un’ideale - quanto in farsi, lo dirà il futuro - trilogia avente come tratto d’unione Garance Marillier (1998; “Disparu à Jamais”, “Ad Vitam”, “Rue des Dames”), che passa da protagonista (13 anni) assoluta a personaggio (17/18 anni) principale a carattere (22 anni) secondario] che ritrae e rende al meglio (assieme a Todd Solondz, “Welcome to the Dollhouse”, Gus Van Sant, “Elephant”, Zhang Yimou , “Non Uno di Meno”, Nicholas Philibert, “Être et Avoir”, Abdellatif Kechiche, “l'Esquive”, Laurent Cantet, “Entre les Murs”) la (a)normale esperienza scolastica del presente. Poi, dato che il nome aleggia, lo fò: Cronenberg. Ecco: fatto.
Chiudono il cast Bernard Blancan, Virgile Bramly, Aude Briant e, tra i non professionisti, Yacine N’Diaye. Fotografia naturalistica di Claudine Natkin, montaggio preciso di Jean-Christophe Bouzy e musiche belle e appropriate di Mathieu Gauriat. Prodotto da Kazak (Jean-Christophe Reymond).
“Non mi chiamare Justine!”
Compagno di viaggio del cinema ginoide di Lucile Hadžihalilovic (Innocence, Evolution, Earwig), Lucrecia Martel (la Ciénaga, la Niña Santa) e Alice Rohrwacher (Corpo Celeste, le Meraviglie), e contemporaneamente etero proseguimento di “Tomboy” e antefatto di “Naissance des Pieuvres”, entrambi di Céline Sciamma, in questo “Junior” la metafora menarcale è palesement’evidente, dilaga sulla pagina e lo schermo, ma proprio questo suo ingombro la rende un normale luogo comune di buon senso, una figura retorica traslata/tropizzata in altra forma e sostanza, e al contempo pone in evidenza il rito di passaggio così segreto e personale, e così abituale e collettivo, col fine di renderlo un arcaico topos mitopoietico più facilmente assimilabile, comprensibile, digeribile, esperibile.
Le ragazze stanno bene.
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