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Il Signore degli Anelli. Le due Torri

Regia di Peter Jackson vedi scheda film

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La recensione su Il Signore degli Anelli. Le due Torri

di FilmTv Rivista
8 stelle

C’è un palazzo reale, e la mente di un grande re, che sono come consumati e immobilizzati dalla voce melliflua di un consigliere cattivo e insinuante che ha le labbra sottili, i capelli lunghi e unti e il fascino ambiguo di Riccardo di Gloucester nella sua sanguinosa ascesa al trono. C’è una landa acquitrinosa nella quale nessuno osa addentrarsi, perché è cosparsa di morti che traspaiono a fior d’acqua e che tentano di tirare giù i vivi con la forza magnetica del loro sguardo. C’è un bosco che marcia contro una torre per distruggere il signore del Male che la abita. Sono tre momenti di “Le due Torri”, la seconda parte della trilogia “Il Signore degli Anelli” diretta da Peter Jackson: rispettivamente, il castello di Rohan dove re Théoden soggiace all’incantesimo in cui lo imprigiona Saruman attraverso il consigliere Grima Vermilinguo; l’attraversamento delle Paludi Morte, dove Frodo sta per annegare e viene salvato da Sam e da Gollum; l’assalto da parte di Barbalbero e degli altri Ent alla torre di Isengard dove Saruman fabbrica le sue armate mostruose. Ma sono anche, come altri momenti della saga di Tolkien e del film di Jackson, rimandi a una cultura classica e preziosa: “Riccardo III” e la foresta di Birnam del “Macbeth” di Shakespeare (che nutriva le sue opere anche di suggestioni celtiche) e la fascinazione dei Preraffaelliti per l’annegamento, che comunque ancora a Shakespeare, e più all’indietro, rimandavano, alla morte di Ofelia, al sogno degli annegati di Clarence (ancora nel “Riccardo III”) e alle saghe cavalleresche nordiche. Tutto questo per dire che la titanica impresa di Jackson è sì un’avventura fantastica che riesce a trovare il proprio sontuoso corpo cinematografico grazie alla perfezione odierna degli effetti speciali (chi mai, se non in animazione, avrebbe potuto nel passato “materializzare” Uruk-hai così concreti, teutonici e spaventosi, Lupi Mannari così guizzanti, e soprattutto in tali, brulicanti quantità?), ma che dietro il fantasy, anzi davanti, nelle immagini che rimbalzano dallo schermo, c’è una cultura iconografica precisissima e appassionata, che non fa mai rimpiangere i voli della fantasia evocati dalle pagine di Tolkien. Jackson che, nonostante tutto il gore che ha fatto all’inizio di carriera (o forse l’ha fatto proprio in chiave d’esorcismo), deve essere un gran romantico, riesce in pratica a conciliare la sua passione per l’horror con il trasporto dell’avventura e la leggerezza della fiaba, facendo emergere alla superficie di questa quelle radici che sono sempre e comunque orrifiche, penose, più che umane. Ne sapevano qualcosa i cavalieri tormentati ed erranti abbandonati da Excalibur e dal loro re. Ne sapeva qualcosa Galadriel nella prima parte della storia, che con la forza dell’Anello e i propri poteri sarebbe potuta diventare la Signora dell’universo. E qui è Frodo che comincia a capire davvero cosa significhi una “quest”, un viaggio di ricerca. In questo caso, il suo è un viaggio verso la distruzione (dell’Anello) e forse verso la propria autodistruzione. Mentre Uomini, Elfi e Nani continuano a battersi (nella battaglia, lunghissima e bellissima, al Fosso di Helm), mentre gli Stregoni Bianchi lanciano le loro sfide, tre piccoletti inermi si addentrano nella terra di Mordor. I due compagni di Frodo rubano la scena a tutti: Sam il giardiniere, che è la terra, la saggezza quotidiana, il coraggio della vita che continua, e che è l’unico capace di riacchiappare Frodo quando viene catturato dal fascino del Male; e Gollum, il precedente possessore dell’Anello, quello che l’ha tenuto con sé troppo a lungo e ne è diventato schiavo, mezzo Hobbit e mezzo bestia affamata, il fantasma della creatura che fu, pelle e ossa, strisciante e aggressivo, Servile e Scurrile, Gollum che fa davvero pena e paura, nella magnifica interpretazione “digitalizzata” di Andy Serkis. “Le due Torri”, com’era “La compagnia dell’Anello”, è un film che ha un’anima, oltre che un magnifico corpo fantastico, e Peter Jackson è un talento visivo al lavoro, un George Lucas dei giorni nostri, non un tecnico del computer. E non è un caso che la sua immaginazione non voli negli spazi eleganti delle guerre stellari, ma si incunei nel Medio Evo della Storia, nel sangue, nella carne, nelle ferite della terra di Mezzo.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 4 del 2003

Autore: Emanuela Martini

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