C’è una domanda che attraversa ogni episodio di Se non avessi mai visto il sole, la nuova serie taiwanese firmata da Chien Chi-feng e Chiang Chi-cheng su Netflix dal 13 novembe: quanto può sopravvivere, della luce, in una vita oscurata da colpa e segreti? Non è solo un thriller, né un semplice dramma carcerario. È una storia in cui la violenza si intreccia con il rimpianto, l’amore proibito si confonde con l’ossessione e la giustizia cede il passo a una memoria collettiva distorta.
Suddivisa in due parti (la seconda sarà disponibile dall’11 dicembre), la serie si apre con una confessione scioccante, ma procede sfidando lo spettatore a distinguere il vero dall’immaginato, la colpa dalla redenzione.

Il killer che sapeva guardare il sole
All’inizio della serie Netflix Se non avessi mai visto il sole, Li Jen-yao, venticinquenne apparentemente ordinario, si consegna spontaneamente alla polizia ammettendo di essere il famigerato “killer del temporale”, un assassino che ha terrorizzato i suoi ex compagni di liceo colpendo sempre nei giorni di pioggia. Non cerca attenuanti. Snocciola i dettagli degli omicidi con precisione inquietante.
Eppure, qualcosa manca: il movente. Perché ha ucciso? Nessuna risposta. Solo uno sguardo fisso, in cui si alternano innocenza e colpa. In carcere rifiuta ogni contatto con l’esterno, finché non accetta di farsi intervistare da una giovane documentarista, Chou Pin-yu. Da quel momento, la linea tra cronaca e incubo si spezza.
La cronista e i sogni che uccidono
Chou Pin-yu non è una giornalista navigata. È una giovane determinata, convinta di poter raccontare la verità oltre i titoli di giornale. Ma il suo rapporto con Li Jen-yao prende una piega inquietante fin dal primo incontro. Nella notte successiva, lo sogna. Non come un criminale, ma come un amante.
Da lì in poi, i sogni diventano ricorrenti, disturbanti. Pin-yu viene visitata (e a tratti posseduta) da una figura femminile in uniforme scolastica: Chiang Hsiao-tung, ragazza scomparsa anni prima, legata misteriosamente a Jen-yao. L’indagine di Pin-yu si fa ossessione, e il suo corpo, così come la sua mente, diventa campo di battaglia tra presente e passato.
Ombre nella danza
Chiang Hsiao-tung, nella serie Netflix Se non avessi mai visto il sole, non è solo un fantasma. È una presenza che reclama giustizia, ma non con rabbia: con grazia. Le sue apparizioni (spesso danzanti, come una falena notturna) sono al tempo stesso poetiche e terrificanti.
Dietro la sua figura evanescente si nasconde una verità che nessuno ha voluto affrontare. Non solo un amore spezzato, ma anche un sistema scolastico e familiare capace di distruggere ciò che non comprende. Hsiao-tung è la memoria repressa di un trauma collettivo: una vittima dimenticata che non ha mai smesso di chiedere di essere vista.

Quando l’amore non salva ma segna
Nella serie Netflix Se non avessi mai visto il sole, il triangolo tra Jen-yao, Pin-yu e Hsiao-tung non è solo sentimentale: è esistenziale. Non c’è nessuna idealizzazione dell’amore. C’è piuttosto la sua versione più cruda: un sentimento che nasce dall’incomprensione, dalla solitudine, dalla disperazione.
Jen-yao non è il classico mostro da studiare, ma nemmeno un martire da redimere. È un ragazzo spezzato da un dolore mai metabolizzato, legato a doppio filo a una relazione proibita e ingiusta, che ha finito per generare solo distruzione. La serie suggerisce che non sempre l’amore guarisce: a volte, lascia cicatrici permanenti.
Il tempo non guarisce ma rivela
Il concetto chiave attorno a cui ruota la serie Netflix Se non avessi mai visto il sole è l’irreversibilità. Non è un’opera che cerca consolazioni. Ogni episodio afferma che certi dolori non si cancellano, che certe ferite restano aperte. Il tempo, lungi dal curare, diventa un contenitore di verità rimosse che prima o poi tornano a galla. Così, i sogni di Pin-yu non sono solo esperienze oniriche, ma strumenti narrativi che permettono di accedere a uno strato più profondo della realtà: quello che la memoria e la società hanno rifiutato di vedere. Non è la giustizia, ma la verità, il cuore oscuro della serie.
Una discesa nel dolore
Se non avessi mai visto il sole è una discesa. Nel dolore, nella memoria, nella coscienza. Ma è anche un tentativo, a tratti disperato, di risalita. I suoi protagonisti non vengono mai assolti, né completamente condannati. Si muovono in uno spazio intermedio, dove la redenzione non è una parola vuota ma una possibilità conquistata attraverso la sofferenza. La serie non chiude con soluzioni nette, ma con uno sguardo che invita a restare. A non dimenticare. A non voltarsi dall’altra parte quando qualcuno cade nell’ombra.
Con una narrazione stratificata e una regia che alterna con precisione claustrofobia carceraria e visioni oniriche, la serie Netflix Se non avessi mai visto il sole non è un semplice crime psicologico ma è una riflessione sul trauma e sulla responsabilità collettiva. Mostra quanto possa essere pericoloso ignorare il dolore, e quanto fondamentale sia (per chi guarda, per chi racconta, per chi vive) riconoscere che certi danni non si riparano. Ma si possono ascoltare. E questo, a volte, è l’unico atto davvero umano.

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