Disponibile su Netflix dal 13 novembre, la serie The Beast in Me è un thriller psicologico in otto episodi che trasforma la tranquilla provincia di New York in una trappola emotiva. Claire Danes torna a collaborare con il team di Homeland per interpretare Agatha “Aggie” Wiggs, scrittrice acclamata che ha smesso di scrivere da quando la morte del figlio l’ha trascinata in un dolore silenzioso.


Quando nella casa accanto si trasferisce Nile Jarvis (Matthew Rhys), magnate immobiliare carismatico e sospettato di aver fatto sparire la moglie, Aggie vede in lui l’oggetto perfetto per un nuovo romanzo. Ma ciò che inizia come una curiosità professionale si trasforma rapidamente in un’ossessione personale. E il confine tra osservare e partecipare si fa pericolosamente sottile.

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Claire Danes nella serie Netflix 'The Beast in Me'.

Due predatori, un solo specchio

Nella serie Netflix The Beast in Me, Aggie e Nile non sono due semplici personaggi: sono due facce della stessa febbre. Aggie, cerebralmente lucida ma attraversata da impulsi ferini, si avvicina a Nile non per salvarlo o condannarlo, ma per capirlo o forse per rispecchiarsi in lui. Nile, interpretato da Matthew Rhys, non è il villain monodimensionale che ci si aspetterebbe. È manipolatore, sì, ma anche magnetico, vulnerabile, perfino tragico. “Volevo che avesse calore, umanità”, dice Rhys. “Era facile cadere nel cliché. Ma con Claire ogni scena era come una partita a scacchi ad alta tensione”.


Claire Danes definisce il rapporto tra i due “familiare ma amplificato, vagamente hitchcockiano”, e parla di Aggie come di una donna che lotta con il proprio lato oscuro. “Cosa succede se le tue pulsioni più violente prendono forma? Aggie è controllata, analitica, ma ha qualcosa di animale dentro. Giocare con questa dualità è stato affascinante”. La chimica tra Danes e Rhys è il cuore pulsante della serie: la tensione tra loro non è solo narrativa, è strutturale.

Non è (solo) un mistero

La serie Netflix The Beast in Me non si accontenta di tenere il pubblico col fiato sospeso. Usa la tensione per indagare temi scomodi: la responsabilità del narratore, la zona grigia tra colpa e innocenza, l’attrazione per ciò che ci disgusta. Il titolo, tratto da una canzone di Johnny Cash, richiama non solo il “mostro” che si sospetta sia Nile, ma anche quello che si agita in Aggie e forse anche in chi guarda. “Mi affascinava l’idea dello scrittore come figura predatoria”, ha detto Danes, citando The Journalist and the Murderer di Janet Malcolm. Chi racconta una storia reale, specie se tragica, non è mai del tutto neutrale.

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Matthew Rhys nella serie Netflix 'The Beast in Me'.

Vicini (pericolosamente) troppo umani

Attorno alla coppia centrale nella serie Netflix The Beast in Me si muove un cast corale che arricchisce la trama e moltiplica i punti di vista. Brittany Snow è Nina, seconda moglie di Nile. Jonathan Banks interpreta Martin Jarvis, padre padrone che incombe come un’ombra sul figlio. Natalie Morales è Shelley, l’ex moglie di Aggie. David Lyons è l’agente dell’FBI Brian Abbott, che scava nel passato di Nile insieme alla collega Erika Breton (Hettienne Park).


Ognuno porta frammenti di verità, ma nessuno ne possiede il quadro completo. Il mistero è stratificato, disseminato di false piste e ambiguità. E, come nella migliore tradizione hitchcockiana, la suspense nasce non dal sapere, ma dal sospettare.

La verità come dipendenza

La forza della serie Netflix The Beast in Me sta nella sua capacità di non offrire risposte nette. Non si tratta di capire “chi è il mostro”, ma di accettare che il mostro è una possibilità dentro ciascuno. La serie è costruita come un gioco di specchi, dove le identità si riflettono, si deformano, si fondono.


L’indagine di Aggie è un pretesto per entrare in una zona grigia, in cui giustizia, desiderio e trauma si sovrappongono. Howard Gordon e Gabe Rotter, i due creatori, raccontano l’ambiguità con ritmo controllato, evitando gli eccessi del true crime sensazionalista. La tensione non esplode mai del tutto: resta sotto pelle, come il sospetto. Come un istinto difficile da ammettere ma impossibile da ignorare.

Il riflesso che non vogliamo vedere

The Beast in Me non è solo un thriller, ma una riflessione tagliente su ciò che ci attrae nell’oscurità. Non cerca di assolvere né di condannare, ma obbliga a guardare. Dentro Aggie, dentro Nile, e dentro noi spettatori. È una serie che non si accontenta di raccontare un mistero: vuole sapere perché continuiamo ad aver bisogno di storie come questa. E cosa dice di noi il fatto che le guardiamo, le amiamo, e torniamo ogni volta a cercare il mostro non fuori ma dentro la casa accanto. O dentro noi stessi.


The Beast in Me
non cerca colpevoli da esporre ma domande da lasciare aperte. Non offre chiusure rassicuranti, ma zone d’ombra da attraversare. È una serie che punta alla testa, ma lavora nello stomaco. Che interroga la morbosità di chi osserva e di chi racconta. Come in uno specchio, ci mostra quanto il male non sia sempre fuori dalla porta: a volte è sul divano accanto o nella nostra stessa voce.

Autore

Redazione

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