Nel cuore del Giappone post-samurai, là dove la tradizione vacilla sotto il peso della modernità, la serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing mette in scena una sfida estrema: 292 samurai, un solo vincitore, cento miliardi di yen in palio. Non è solo una competizione letale. È un requiem per un’epoca.


Ispirata alla serie di romanzi Ikusagami dello scrittore Shogo Imamura (vincitore del Premio Naoki), la serie disponibile dal 13 novembre non si limita a rievocare l’estetica del Giappone feudale: la seziona, la stressa, la porta all’estremo. Il risultato è una narrazione corale e brutale, che usa l’azione come strumento per riflettere su identità, lealtà e sopravvivenza in un mondo che non riconosce più i propri eroi.

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Jun'ichi Okada nella serie Netflix 'Ikusagami - Last Samurai Standing'.

La regola è una sola: sopravvivere

La trama della serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing si sviluppa a partire da un’idea tanto semplice quanto spietata: ognuno dei 292 samurai riceve un tag di legno. L’obiettivo è sottrarre quelli degli avversari e raggiungere Tokyo. Il punto di partenza è il Tenryū-ji, antico tempio zen di Kyoto, santuario di spiritualità e silenzio trasformato in campo di battaglia. Da lì, il Giappone si trasforma in una mappa letale: foreste, città, villaggi diventano teatri di scontri, agguati, alleanze e tradimenti. Ogni samurai combatte con ciò che ha: la spada, l’astuzia, la disperazione.


Dietro l’architettura del “gioco” c’è qualcosa di più di un pretesto narrativo. È un modo per raccontare lo smarrimento di un’intera classe sociale spazzata via dalla Storia, costretta a combattere per dimostrare ancora una volta, forse per l’ultima, il proprio valore. Il messaggio è chiaro: non c’è spazio per la gloria. Solo per la sopravvivenza.

L’uomo dentro la leggenda

Shujiro Saga, interpretato nella serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing da Jun’ichi Okada (anche produttore e coreografo delle scene d’azione), non è un eroe da copertina. È un uomo disperato che entra nel massacro per salvare ciò che gli resta: la moglie e il figlio, entrambi malati. In un contesto dove ogni partecipante è potenzialmente un assassino, la sua umanità lo rende vulnerabile. Eppure, è proprio questo a differenziarlo. Shujiro è il nostro punto d’ingresso nella brutalità della sfida, un personaggio guidato non dall’ambizione, ma dalla necessità.


Il suo viaggio non è solo fisico, da Kyoto a Tokyo, ma morale: ogni taglio inflitto, ogni alleanza rotta, ogni cadavere lasciato alle spalle scava dentro di lui una voragine. Non combatte per diventare il migliore, ma per non diventare il peggiore.

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Jun'ichi Okada nella serie Netflix 'Ikusagami - Last Samurai Standing'.

Il demone dai capelli bianchi

Tra i volti che emergono dal caos, uno in particolare ridisegna le regole del gioco: Gentosai Okabe, interpretato da Hiroshi Abe. È una presenza inquietante, quasi sovrannaturale. Alto, capelli bianchi, occhi imperscrutabili. I partecipanti lo temono e non a caso lo chiamano “mostro”. Non si sa da dove venga, né cosa voglia. Ma una cosa è certa: non è interessato al denaro. Okabe è il caos incarnato, un samurai fuori scala che trasforma ogni scontro in una lezione di terrore.


La sua funzione narrativa è chiara: Okabe è lo spartiacque tra il possibile e l’impossibile. È la prova che non esistono regole nel gioco, nemmeno quelle non scritte. E con la sua sola presenza, alza l’asticella della sopravvivenza a un livello quasi mitologico.

Onore, sopravvivenza, disillusione

La serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing non è una storia di vendetta, né un’ode all’onore tradizionale. È una riflessione feroce su cosa succede quando l’onore diventa un lusso. I temi affrontati sono tanti, ma si intrecciano su una domanda centrale: chi sei quando nessuno ti guarda? Nella notte di Kyoto, lontano da occhi e codici, ogni samurai è solo con la propria coscienza o con la sua assenza.


Il contesto storico della restaurazione Meiji fa da sfondo ideale a questa trasformazione. È un’epoca in cui i samurai stanno scomparendo, sostituiti da un esercito moderno, da un governo centralizzato, da un’economia che non ha tempo per i duelli rituali. La serie mostra chiaramente il trauma dell’obsolescenza: questi uomini, un tempo rispettati, oggi devono uccidere per essere ricordati.


C’è poi il tema della collettività infranta. Nessuno può fidarsi di nessuno. Le alleanze sono temporanee, i tradimenti inevitabili. Eppure, in mezzo a tutto questo, emergono frammenti di umanità. Un gesto di pietà, una memoria condivisa, un codice d’onore che resiste anche quando tutto il resto è crollato.

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Jun'ichi Okada nella serie Netflix 'Ikusagami - Last Samurai Standing'.

Un kolossal che taglia dritto al cuore del genere

Con una produzione che ha richiesto l’equivalente di tre film, oltre 300 costumi realizzati su misura, e una narrazione tesa come una lama, la serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing si presenta come una sfida titanica non solo per i suoi protagonisti ma per il pubblico stesso. Il regista Michihito Fujii, con il supporto totale di Okada, ha lavorato per mantenere il cuore del romanzo di Imamura, adattandolo a un formato seriale capace di coinvolgere anche chi di samurai non ha mai visto un film.


È un’opera che unisce tradizione e ritmo moderno, che osa con la struttura narrativa e con un’estetica potente, ma sempre funzionale alla storia. La tensione non si stempera mai, e ogni episodio promette (e mantiene) colpi di scena, evoluzioni imprevedibili e combattimenti mozzafiato.

Una serie per chi non cerca eroi, ma sopravvissuti

La serie Netflix Ikusagami - Last Samurai Standing non racconta la fine dei samurai. Racconta il momento in cui smettono di essere leggenda per diventare uomini. Uomini che lottano, barano, crollano, ma resistono. Non ci sono santi, né martiri. Solo individui gettati in un gioco che non hanno scelto, ma che devono vincere. Per amore, per onore, per disperazione.


E forse è proprio questa la forza della serie: non idealizza il passato, ma lo mette sotto processo. Lo racconta con le sue ombre, i suoi paradossi, la sua violenza. E, così facendo, gli restituisce una verità che spesso la nostalgia cancella: quella di un’epoca bella da immaginare, ma impossibile da vivere.

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Redazione

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