Il thriller psicologico Il segreto di Isabelle, serie proposta da Rai 1 la sera del 25 e 26 agosto, non è una semplice storia di delitti. È una serie che costruisce il suo interesse non tanto sulla scoperta del “chi ha fatto cosa”, quanto sull’ossessione per la verità o, meglio, per ciò che sembra tale. Composta da quattro episodi da 52 minuti ciascuno, diretta da Philippe Dajoux e scritta da Franck Ollivier, prende ispirazione da fatti realmente accaduti, in particolare dal caso di Manuela Gonzalez, ribattezzata dai media francesi la “vedova nera dell’Isère”.


Da questo materiale oscuro nasce una fiction che indaga la sottile linea tra vittima e carnefice, menzogna e sopravvivenza, investigazione e ossessione. Tutto si gioca sul volto enigmatico di Isabelle Dubreuil (Odile Vuillemin), sospettata dell’omicidio del marito, e sulla determinazione di Mathilde Delboscq (Joyce Bibring), capitano della gendarmeria incaricata del caso.

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Odile Vuillemin e Joyce Bibring nella serie di Rai 1 'Il segreto di Isabelle'.

Un fuoco per aprire l’abisso

La serie di Rai 1 Il segreto di Isabelle si apre con un’immagine secca e definitiva: l’automobile di Pascal Dubreuil in fiamme, con lui dentro. La sua morte, a prima vista un tragico incidente, diventa il punto di partenza per un’indagine che si trasforma rapidamente in duello. Il sospetto non tarda a cadere su Isabelle, la vedova. Ma più la polizia scava, più la figura di Isabelle si moltiplica: moglie affettuosa o calcolatrice? Vittima o predatrice? Madre protettiva o manipolatrice seriale?


L’indagine si infittisce quando emergono gli uomini del passato: altri mariti, altre morti, altre ambiguità. La narrazione si sviluppa quindi su due binari paralleli: la ricostruzione dei fatti e la decostruzione di Isabelle. In mezzo, la tenacia di Mathilde, convinta che ogni elemento del passato della donna abbia un peso decisivo. Più l’indagine avanza, più si sgretolano certezze.

Due donne, due specchi deformanti

Il cuore pulsante della serie di Rai 1 Il segreto di Isabelle è lo scontro psicologico tra Isabelle e Mathilde. Non si tratta di un semplice interrogatorio esteso su quattro episodi, ma di un confronto costante che mette in crisi ruoli, convinzioni e identità. Isabelle ha il volto di chi potrebbe convincere chiunque della propria innocenza. La sua ambiguità non è caricaturale: è fatta di sguardi, pause, dettagli sfuggenti. Mathilde, dal canto suo, entra nel caso con l’apparente neutralità dell’investigatrice razionale, ma è subito evidente che l’inchiesta tocca qualcosa di più profondo. Il caso diventa personale. Ossessivo. Distruttivo.


L’intelligenza del racconto sta nel far vacillare anche chi guarda. Chi manipola davvero? Chi è la preda e chi la cacciatrice? A ogni rivelazione, l’equilibrio si sposta, e con esso l’empatia dello spettatore.

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Joyce Bibring e Vincent Jouan nella serie di Rai 1 'Il segreto di Isabelle'.

Un passato che non passa mai

Se la trama ruota intorno a un presente fatto di sospetti e rivelazioni, la scrittura della serie di Rai 1 Il segreto di Isabelle attinge costantemente al passato. Isabelle è un personaggio costruito come una matrioska: ogni strato rivelato porta a nuove domande. I flashback non sono semplici inserti cronologici, ma chiavi interpretative. Ogni relazione amorosa, ogni evento familiare, ogni scomparsa ambigua riemerge con una forza inquietante, come se il passato stesso fosse l’arma del crimine.


Il passato di Isabelle non è solo un archivio di indizi. È un trauma continuo, un campo di battaglia dove ogni legame è stato, prima o poi, spezzato. In questo contesto, la maternità stessa si presenta come un terreno instabile: Isabelle è madre, ma quanto lo è davvero? E che tipo di madre può essere una donna che potrebbe aver ucciso i padri dei suoi figli?

Il crimine come distorsione del legame

Il segreto di Isabelle affronta un tema fondamentale: la fiducia come elemento fragile e manipolabile. In ogni relazione che Isabelle intrattiene (con i mariti, con gli amanti, con i figli, persino con la segretaria del marito) c’è un equilibrio che si spezza. Ma non c’è mai un momento netto in cui si passa dall’amore al sospetto. I sentimenti si degradano lentamente, fino a diventare veleno. E in questo, il movente non è mai solo materiale. Come dichiarato dallo sceneggiatore Franck Ollivier, la scelta narrativa è stata quella di evitare il denaro come motore dell’azione. Qui si parla di emozioni deviate, di traumi sedimentati, di potere relazionale.


La serie suggerisce che l’omicidio, quando c’è, non è un gesto impulsivo, ma il frutto lento e disturbante di dinamiche più profonde. Non è mai semplice capire cosa spinga una persona oltre il limite e forse è proprio questo che l’autore vuole lasciare in sospeso.

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Yann Sundberg e Paul Le Bourdon nella serie di Rai 1 'Il segreto di Isabelle'.

Un racconto femminile senza redenzione

A differenza di molti thriller polizieschi, nella serie di Rai 1 Il segreto di Isabelle non si cerca di costruire un arco narrativo consolatorio. Nessuna delle due protagoniste esce vincente. Isabelle, anche se colpevole, non si lascia ridurre a un cliché da true crime. Mathilde, anche se determinata, non riesce a conservare il distacco professionale. Lo sguardo maschile, se presente, rimane marginale: mariti, amanti, colleghi, padri sono spesso funzionali alla trama, ma il racconto resta saldamente centrato su due donne e sulla tensione che le lega.


Non si tratta di un manifesto femminista, né di un dramma psicologico sulla condizione femminile, ma è evidente che la scrittura gioca con le aspettative sul ruolo della donna nella società, nel matrimonio, nella maternità e nella colpa. Isabelle è un personaggio che scardina l’idea della donna fragile. Mathilde, al contrario, scardina l’idea dell’inquirente freddo e infallibile. Entrambe cadono. Entrambe resistono.

Il dubbio come verità possibile

Il segreto di Isabelle si conclude senza chiudere davvero. Il meccanismo classico della risoluzione finale cede il passo a qualcosa di più instabile: il dubbio. Non solo su ciò che è accaduto davvero, ma su cosa pensare di Isabelle, di Mathilde, della giustizia stessa. Il thriller diventa riflessione: quanto possiamo credere a ciò che vediamo? Quante versioni della verità siamo disposti a considerare valide?


Franck Ollivier, in una dichiarazione, ha detto di aver voluto creare un personaggio che fosse il risultato di più “vedove nere” reali, evitando la semplificazione del movente economico. In questo senso, la serie riesce a suggerire che il male, quando c’è, non è sempre riconoscibile. Spesso si nasconde dietro sorrisi, memorie, ruoli sociali.

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Redazione

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