Con Lazarus, Prime Video propone dal 22 ottobre una serie che affonda nelle crepe dell’animo umano, intrecciando thriller psicologico, dramma familiare e una tensione costante tra razionalità e allucinazione. Sviluppata da Harlan Coben insieme a Danny Brocklehurst, la serie si muove lungo i bordi taglienti del trauma, della colpa e dell’eredità emotiva, costruendo sei episodi in cui la verità non è mai semplice e il passato non è mai davvero sepolto.
A guidare il racconto è Joel “Laz” Lazarus (Sam Claflin), psichiatra forense in una struttura ospedaliera, la cui vita viene scossa dalla morte improvvisa – apparentemente per suicidio – del padre Jonathan Lazarus (Bill Nighy), anch’egli psichiatra, noto come Dr L. Questo evento, già traumatico di per sé, riapre ferite mai guarite: la perdita, 25 anni prima, della sorella gemella Sutton, assassinata in circostanze mai chiarite. Da quel momento, Lazarus innesca un’indagine personale dove ogni scoperta diventa anche un confronto con il dolore, la memoria e l’identità.

Un uomo in pezzi
Joel “Laz” Lazarus, il protagonista della serie Prime Video, è un uomo costruito sulle macerie. Cresciuto sotto l’ombra imponente del padre, ha scelto la stessa carriera per superarlo e per nascondersi da se stesso. L’omicidio irrisolto della sorella, la tensione competitiva con Dr L, il fallimento del suo matrimonio: tutto contribuisce a creare una figura spaccata tra la sua competenza professionale e un’incapacità emotiva cronica. La morte di Dr L diventa la miccia che lo costringe a riaprire ogni ferita e ad affrontare l’instabilità della propria psiche, messa in crisi da visioni inquietanti e da un crescente senso di paranoia. È davvero perseguitato dai morti o è solo il suo cervello a cedere?
La forza del personaggio di Laz non sta nella sua resilienza, ma nella sua fragilità. Sam Claflin lo interpreta senza retorica, lasciando emergere l’uomo dietro il professionista: un essere umano spezzato, in cerca disperata di risposte che forse nemmeno esistono.
Legami che imprigionano
Nella serie Prime Video, la famiglia Lazarus è un nodo stretto di affetti, competizioni e silenzi. Jonathan “Dr L” è una presenza dominante anche da morto: rispettato nel suo campo, temuto come padre, enigmatico fino all’ultimo gesto. La sua fine – inspiegabile e in apparenza contraddittoria – è la chiave che sblocca la narrazione, ma è anche una domanda sospesa che mette in crisi chiunque lo abbia conosciuto.
Jenna (Alexandra Roach), l’altra sorella sopravvissuta, è l’opposto speculare di Laz: spiritualista, sensibile, connessa all’invisibile ma destabilizzata dal fatto che sia il fratello – lo scettico, il razionale – a fare esperienza di visioni. Il loro rapporto è fatto di affetto e incomprensioni, e si deteriora man mano che Laz si lascia inghiottire dalla sua ossessione. Nella famiglia Lazarus, tutti sanno qualcosa, ma nessuno dice tutto: è un sistema di verità parziali e segreti mai detti, dove ogni parola pesa e ogni silenzio grida.

Il dolore come eredità
La serie Pime Video Lazarus mette in scena il dolore come fenomeno trasmissibile. Coben, che ha perso suo padre in giovane età, usa questa storia per riflettere su ciò che resta quando una figura centrale scompare. La serie suggerisce che il lutto non è solo perdita, ma anche contaminazione: condiziona, deforma, perseguita. La morte di Sutton e quella di Dr L non sono solo eventi, ma epicentri da cui si propagano onde emotive che investono chi resta.
Non c’è nulla di sovrannaturale in Lazarus che non possa essere spiegato dalla psiche: le visioni di Laz, i ricordi confusi, l’ambiguità della realtà sono strumenti con cui la serie scandaglia la mente umana, più che evocare il paranormale. Ma non esclude che, nel mezzo del dolore, l’invisibile possa prendere forma.
L’illusione del controllo
Nonostante la sua posizione di esperto, Laz è un uomo che non sa leggere se stesso. Il controllo che esercita sugli altri crolla quando è costretto a guardarsi dentro. Il lavoro da psichiatra diventa, paradossalmente, la sua gabbia: un modo per evitare il confronto con le proprie emozioni, finché gli eventi non lo costringono a rivedere tutto. La serie costruisce così un sottotesto costante: quanto possiamo fidarci della nostra mente? E quanto ci serve credere che la realtà sia oggettiva, per non impazzire?
In questo senso, la serie Prime Video Lazarus è anche un racconto di identità. Chi è davvero Joel? Quanto di lui è determinato dal padre, dal trauma, dai fallimenti? La sua discesa nella verità diventa una forma distorta di autoanalisi, dove ogni passo avanti è anche un crollo di certezze.

Verità sepolte
La struttura narrativa segue un percorso da thriller, con indagini, misteri e piste da seguire. Ma il motore della storia è emotivo, non investigativo. Le morti sospette che emergono scavando nel passato di Dr L, le relazioni con altri personaggi – come l’ex moglie Bella (Karla Crome), il detective riluttante Seth McGovern (David Fynn) o la sergente Alison Brown (Kate Ashfield) – servono a costruire un contesto in cui nulla è lineare e ogni rapporto è ambiguo. Ognuno custodisce un pezzo del puzzle, ma nessuno ha l’intera immagine.
Coben e Brocklehurst non inseguono il colpo di scena fine a sé stesso, ma usano la suspense per scavare nei personaggi. Il mistero esterno è solo il riflesso di un disordine interno: la verità che conta davvero è quella che i personaggi evitano di dirsi, più che quella legata ai crimini irrisolti.
Una storia di fantasmi senza fantasmi
In Lazarus, i fantasmi sono reali, ma non servono effetti speciali per mostrarli. Sono i traumi che non passano, le domande senza risposta, le presenze che continuano a farsi sentire nei gesti quotidiani. La serie, come racconta lo stesso Coben, nasce da un’esperienza personale di lutto, e si trasforma in una riflessione ampia e lucida su come le persone sopravvivono – o soccombono – alle perdite.
Non è una serie sul paranormale, anche se lo sfiora. È una serie sulla mente umana e su quanto poco ci basta per perdere l’equilibrio quando il dolore prende il sopravvento.
Lazarus è un titolo che non lascia spazio all’ambiguità: è il nome del protagonista, certo, ma anche il simbolo di ciò che ritorna. Non i morti in carne e ossa, ma ciò che hanno lasciato: il dolore, il dubbio, il bisogno disperato di capire. È una serie che non cerca consolazione, ma scava. E, nel farlo, mostra quanto la mente possa essere tanto una trappola quanto una via d’uscita.
Coben e il suo team non offrono una soluzione semplice, né un finale rassicurante. Offrono qualcosa di più raro: un ritratto crudo, ma onesto, di cosa significa essere vivi mentre si convive con i propri morti.
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