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The Handmaid's Tale

6 stagioni - 68 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 6

  • 2025-2025
  • 10 episodi

L'autore

mck

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La recensione su The Handmaid's Tale

di mck
7 stelle

Una lama di Sole sul legno dello stambugio.

 

“Nolite te bastardes carborundorum” (cit., sic!, “Don't let the bastards grind you down”), ovvero, en passant: “Ah! Hanno impiccato tutti i guardiani.”

 

 

E anche per questo oggi è una bella giornata di festa e disgelo nella Boston appena liberata dall’estremismo fanatico religioso che impestava quella fetta di mondo (e che ancora ne appesta una consistente porzione: New York, Washington D.C., Colorado, California): si è giunti a questo punto dopo 66 episodi spalmati su 6 stagioni lungo 8 anni (sulla carta inchiostrata da Margareth Atwood erano 300 pagine) però in perseverante declino evidente (se pur - e ci mancherebbe altro! – con altrettanto evidenti picchi di risalita), perché sì, ad esempio l’ultimo quarto d’ora dell’ottavo (sessantaquattresimo) episodio di “The HandMaid’s Tale”, una serie che procede sempre più dicotomica fra bruttezza e bellezza tra loro immescibili, è quanto di peggio cui si possa assistere al Cinema nel 2025 (quel che doveva essere il corrispettivo delle Nozze Rosse di GoT si risolve nella palpabile tensione che si può ritrovare in un’accesa riunione di condominio Palladini in “Un Posto al Sole”: le giravolte caratteriali di Aunt Lydia sono insopportabili, e non che nel corso di tutta la serie quelle relazionali tra June e Serena siano state da meno in quanto a “pazzerellamento”, ma è tutta la costruzione e la gestione della tensione di quei momenti che s’inerpica e s’inabissa nel ridicolo involontario), e col senno di poi i conti tornano tutti siccome alla regìa (che poteva sopperire alla didascalicità trita e ritrita del copione scritto dalla veterana - è il suo 7° ep. dalla 2ª stag. - Yahlin Chang) di questo qualcosa d’indicibilmente inusitato, d’infandemente irricevibile e d’inesprimibilmente inenarrabile che sembra una via di mezzo fra Don Matteo (con tutto i rispetto per Don Matteo) ed Elisa di Rivombrosa (con tutto i rispetto per Don Matteo) c’è l’insipienza respingente di Daina Reid, già dietro alla MdP per l’insul-s/t-o “Run, Rabbit, Run” (non conosco i retroscena, ma il cinema non si fa con le amicizie, le affinità e le simpatie, lo si fa col mestiere, le capacità e i talenti). Poi, certo, per il finale di stagione e serie intervengono le pietre miliari della mitopoiesi in uroborico e metacinematografico farsi, e il risultato – grazie alla scrittura di Bruce Miller e all’interpretazione e alle regìe di Elisabeth Moss: di buono inoltre c’è ch’ella stessa, primariamente, non tende minimamente a smussare gli spigoli comportamentali della sua eroina – lo si porta a casa.
Ed ora (?) tocca ai Testamenti: che sono il futuro. (Spero solo che le ulteriori 500 pagine - tutte meritevoli di attenta lettura tanto quanto quelle che le hanno precedute - possano essere trasposte con più criterio e meno diluizione.) E tutto può iniziare.

Una sedia, un tavolo, una lampada. Sopra, sul soffitto bianco, un motivo ornamentale in rilievo a forma di ghirlanda, e, al centro, un buco riempito di calce, come la cicatrice in un viso cui sia stato tolto un occhio. Lì doveva esserci un lampadario, un tempo. Hanno eliminato ogni cosa cui si possa legare una corda.
Una finestra, due tendine bianche. Sotto la finestra, un sedile con un piccolo cuscino. Quando la finestra è aperta, in parte (si apre solo in parte), l'aria entra e fa muovere le tendine. Posso sedere sulla sedia, o sul sedile della finestra, con le mani in grembo, e guardare. Anche il sole entra dalla finestra e cade sul pavimento che è di legno, a li-stelli, ben lucidato. Sento l'odore della cera. C'è un tappeto ovale sul pavimento, fatto di stracci intrecciati. Questo è il genere di cose che a loro piace: arte folclorica, arcaica, cui si dedicano le donne, nel loro tempo libero, utilizzando cose che non servono più. Un ritorno ai va-lori tradizionali. Non sprecare e non ti mancherà niente. Io non ho sprecato. Perché mi mancano tante cose? Alla parete sopra la sedia, un quadro, incorniciato ma senza vetro: è una riproduzione, un mazzo di giaggioli blu dipinti ad acquerello. I fiori sono ancora permessi. Mi chiedo se ognuna di noi ha l'identico quadro, l'identica sedia, le identiche tendine bianche. È un ordine del governo?
Considera di essere sotto le armi, diceva Zia Lydia.
Un letto, a una piazza. Materasso semiduro, coperto da un copriletto bianco di lana. Null'altro avviene nel letto che il dormire; o il non dormire. Cerco di non pensare troppo. Al pari di altre cose, adesso, il pensiero dev'essere razionato. Ci sono pensieri che diventano intollerabili quando ci si sofferma troppo. Il pensare può nuocere, e io sono decisa a resistere. So perché non c'è il vetro sull'acquerello di giaggioli blu, e perché la finestra si apre solo in parte, e perché è di cristallo infrangibile. Non temono che ce ne andiamo di nascosto. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto con un bordo tagliente.
Ecco. A parte i dettagli, questa potrebbe essere la stanza degli ospiti in una università, la stanza degli ospiti di minor riguardo; oppure la stanza di un pensionato dei tempi passati, o per signore dalle possibilità ridotte. Ciò che siamo ora. Le possibilità sono ridotte; per quelle di noi che hanno ancora delle possibilità.
Ma una sedia, la luce del sole, i fiori: queste cose non si possono ignorare. lo sono viva, io vivo, respiro, metto fuori la mano aperta alla luce. Non mi trovo in una prigione, ma in un luogo privilegiato, come ha detto Zia Lydia, entusiasta comunque dell'una o dell'altro o di entrambi.
Sta suonando la campana. Qui il tempo è misurato da campane, come una volta nei conventi di suore. E, come anche nei conventi di suore, c'è qualche specchio. Mi alzo, mi muovo nella luce del sole, i piedi nelle scarpe rosse senza tacchi, per risparmiare la spina dorsale e non per ballare. I guanti rossi sono posati sul letto. Li prendo, me li infilo, dito per dito. Tranne le alette che porto ai lati del viso, tutto è rosso: il colore del sangue, che ci definisce. La gonna scende sino alle caviglie, ampia, raccolta in uno sprone piatto che si allarga sul petto, le mani-che sono lunghe. Anche le alette bianche sono dotazione obbligatoria; servono a impedirci di vedere, ma anche di essere viste. Il rosso non mi ha mai donato, non è il mio colore. Prendo il cesto della spesa, me lo infilo sul braccio.
La porta della stanza (non la mia stanza, mi rifiuto di dire mia) non è chiusa a chiave. Il battente non accosta bene. Esco nel corridoio lucidato, che ha una guida, al centro, di un rosa polveroso. Come un sentiero che attraversa la foresta, come un tappeto in na cerimonia regale, mi indica la strada. – Margareth Atwood.

Una sedia, un tavolo, una lampada. C’è una finestra con le tende bianche; il vetro è infrangibile, ma non perché temano che scappiamo – non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro se hai un oggetto tagliente, o un lenzuolo attorcigliato e un lampadario. Io cerco di non pensare a quelle fughe: è dura nei giorni della cerimonia, ma pensare a volte è peggio. Il mio nome è DiFred. – Bruce Miller.


Il cast, in tutto ciò, fa quel che può, a volte molto, e mi riferisco in particolare a, ovviamente, Elisabeth Moss (the West Wing, Mad Men, Top of the Lake, Listen Up Philip, the One I Love, Queen of Earth, MeadowLand, High-Rise, the Free World, Mad to Be Normal, Tokyo Project, the Square, Top of the Lake: China Girl, the Old Man & the Gun, Her Smell, Light of My Life, Us, the Kitchen, Shirley, the Invisible Man, the French Dispatch, Shining Girls, the Veil, Shell, Imperfect Women), che giganteggia, strafà, spadroneggia, stroppia, ma anche nell’esagerazione “da film muto” dei megalomaniaci primissimi piani titaneggianti riesce sempre e comunque a restituire un senso di necessità e verità, e a Bradley Withford, che raggiunge i medesimi risultati facendo esattamente... il contrario (insomma: due opposti che si bilanciano alla perfezione), e a volte un po’ meno, perché in mezzo a loro, tra alti (merito loro) e bassi (per colpa di sceneggiature – oltre al buon Bruce Miller si alternano nella writers’ room ben altri 10 autori, non certo tutti eccelsi – e messe in scena – e qui mi riferisco in particolare a Daina Reid, 2 ep., perché invece l’one-woman-show Elisabeth Moss, 4 ep., tra cui pilot e final season/serie, impegnata nei selfie in close-up, con Natalia Leite, 3 ep., e David Lester, 1 ep., diversamente non sbracano), si destreggiano Yvonne Strahovski, Madeline Brewer, Samira Wiley, Ann Dowd, Amanda Brugel, Max Minghella, O-T Fagbenle e Sam Jaeger, più il gradito ritorno della brava (non c’è stata occasione di costringerla a sbagliare) Alexis Bledel (mentre nel frattempo di Clea DuVall - il suo personaggio è solo citato - e Mckenna Grace si son perse definitivamente le tracce).

Confermato, viceversa, il tono perennemente grigio-rosaceo della fotografia, qui ad opera, per 5 ep. a testa, di Stuart Biddlecombe (in tHm'sT dalla 3ª stag.) e Nicola Daley (in tHm'sT dalla scorsa stag.), e dello stesso colore sono anche le musiche, sia quelle originali di Adam Taylor che quelle di repertorio. 

Ed io vi ho solamente raccontato

Senza niente inventare

Il primo discorso registrato

Della donna che non voleva parlare

Della donna che (non) voleva parlare

Della donna che voleva parlare!

 

 

- Stag. 1 (10 ep., 2017): 8.00
- Stag. 2 (13 ep., 2018): 7.50
- Stag. 3 (13 ep., 2019): 7.50
- Stag. 4 (10 ep., 2021): 7.50
- Stag. 5 (10 ep., 2022): 7.50
- Stag. 6 (10 ep., 2025): 7.00

 

Una lama di Sole sul legno dello stambugio.  

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