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Light of My Life

Regia di Casey Affleck vedi scheda film

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La recensione su Light of My Life

di mck
9 stelle

It’s a Love Adventure.

 

 

Principia con una mitopoiesi di specie generata all'ombra di un focolare (“Would you like me to tell you a story?” / “Vorresti che ti raccontassi una storia?”) l'opera seconda alla regìa (dopo “I'm Still Here”, mokumentary scritto col protagonista Joaquin Phoenix) e terza alla sceneggiatura (dopo “Gerry”, redatto assieme al co-protagonista Matt Damon e al regista Gus Van Sant) di Casey Affleck (che nei tre anni precedenti ha girato, come attore, tra gli altri, “Manchester by the Sea”, “A Ghost Story” e “the Old Man & the Gun”, per dire), una crasi distopica (parallela, incrociata, succedanea, inversa) fra due opere di Debra Granik - “Winter's Bone” (di cui è anche l'inverso) e “Leave No Trace” - e compagna di viaggio - per eterogenee ragioni - del “the Road” di Cormack McCarthy (e, in seconda istanza traslata, di John Hillcoat), del "the Happening" di M. Night Shyamalan, del "Melancholia" di Lars von Trier, di "28 Weeks Later" di J.C. Fresnadillo, di "InTo the Forest" di Patricia Rozema, di "the Survivalist" di Stephen Fingleton, di "It Comes at Night" di Trey Edward Shults e - in emisfero opposto - del “Cargo” di Ben Howling e Yolanda Ramke (e solo in parte del "Children of Men" di A.Cuarón da P.D.James), e termina con la concretizzazione di una mitopoiesi famigliare. 

 

 

Nel mentre: leggere apprendendo, camminare orientandosi, ascoltare riflettendo: i ragazzini sono sempre stati multitasking, anche in assenza di smartphone.

 

 

Un plot di una semplicità scarna e risaputa messo in scena con una capacità magistrale - di sceneggiatura, recitazione e regìa - nel reinventare i luoghi comuni, le zone già battute, i sentieri ben tracciati, i cliché ed i tòpoi dei generi attraversati [post-apocalittico, nella fattispecie post-pandemia di genere con coppia cromosomica xx ginoide (in zona “the HandMaid’s Tale”: i “rifugi” dove le donne vengono “protette”), survival e western (il Canada della British Columbia ad interpretare gli U.S.A. del Pacific NorthWest)] s'affianca ad un meraviglioso (grazie anche, ma non solo, tanto alla bravura di Elisabeth Moss quanto alla sicurezza dei tagli di editing) uso dei flashback (si considerino qui le analessi del film con Viggo Mortensen: John Hillcoat, se messo a confronto con Casey Affleck, si rivela essere cinematograficamente un bolso pachiderma), agli ottimi fotografia, in 1.66:1 [di Adam Arkapaw: tre J.Kurzel (SnowTown, Macbeth, Assassin’s Creed), due D.Michôd (Animal Kingdom, the King), uno a testa per C.Shortland (Lore), N.Caro (McFarland, U.S.A,) e D.Cianfrance (the Light Between Oceans) - quindi tutto molto felpatamente tumido e freddamente ovattato - e soprattutto le prime stagioni di “True Detective” e “Top of the Lake”], e il già citato montaggio [di Dody Dorn (“Memento”, “Insomnia”, “Kingdom of Heaven”, “Year of the Dog”, “Fury”, e già al lavoro con Affleck per “I’m Still Here”) e di Christopher Tellefsen (“Smoke / Blue in the Face”, “Kids”, “the People vs. Larry Flynt”, “Gummo”, “Man on the Moon”, “the Village”, “the Human Stain”, “Capote”, “A Guide to Recognizing Your Saints”, “MoneyBall”, “Joy”, “A Quite Place”, “the Kitchen”, “the Many Saints of Newark)], alle musiche dolcemente potenti e consapevolmente commoventi di Daniel Hart [sodale collaboratore di sempre di David Lowery (“Ain't Them Bodies Saints”, “A Ghost Story”, “the Old Man & the Gun”, “Green Knight”), e “SMILF”] e al come al solito gran lavoro di casting organizzato da Avy Kaufman: oltre allo stesso protagonista-regista-sceneggiatore, basilare la scelta del deuteragonista, la figlia undicenne del personaggio principale, interpretata in surplace (tra Ana Torrent e Nadine Nortier) dalla giovanissima ed ec-ce-zio-nal-men-te e naturalmente brava Anna Pniowski (cui non si può che egoisticamente augurare un futuro artistico à la Jennifer Lawrence e Thomasin McKenzie), mentre un ruolo secondario, di contorno robusto, è affidato a Tom Bower, classe '38 e rivisto recentemente (dopo aver già lavorato con Affleck in “the Killer Inside Me”) in “El Camino - A Breaking Bad Movie”: splendido il suo carattere, e meraviglioso il modo in cui interagisce con Affleck, con quest'ultimo che in una delle molteplici scene dense e stratificate lo guarda, dopo aver ricevuto ospitalità, rifocillamento ed alloggio con la contropartita di una predica da Vecchio Testamento, tra il ringraziarlo soddisfatto e il compatirlo sospettoso...

 

 

Una tensione quasi insostenibile scorre lungo tutto il corso del film; il finale riluce di un... qualcosa.

 

- Cos'è quello che hai lì?
- Oh, è solo un Winchester standard .12 [probabilmente appartenuto a Cechov].

It’s a Love Adventure.

* * * * ¼     

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