Regia di Veiko Õunpuu vedi scheda film
Ballata sull’approvazione del mondo. Questo il titolo originale di un’opera che sembra volerci parlare per interposta persona. La vera storia è immersa in una dimensione invisibile, affondata dentro l’anima di un ragazzo inquieto, che non esprime mai esplicitamente ciò che prova, affidando le proprie sensazioni all’oscuro linguaggio della poesia. Io ci sono, ma non sono quello che dovrei essere. Un individuo eternamente inadeguato, che non si adatta a nessuna situazione, a nessun ruolo, che rovina tutto quanto gli capiti tra le mani, che si tratti di un mestiere o di una relazione sentimentale. Fred non è, semplicemente, il solito ventenne introverso ed imbranato, immaturo ed insicuro. È, più propriamente, un maldestro ribelle, un pasticcione per partito preso, animato da una volontà (auto)distruttrice che contiene un messaggio di sfida lanciato contro l’universo. Fare a modo suo è una scelta radicale, che non si cura della sua insostenibilità rispetto alle leggi della fisica, della logica, della società, ma si estende da un gusto puerile del politicamente scorretto (la stroncatura in chiave omofoba di una nota pellicola americana) al gioco da bambini applicato agli attrezzi dei grandi (il muletto della segheria, il filobus fermo al deposito). Fred non accetta, non capisce, e quindi non mostra rispetto, conquista ed abusa. È una metafora in azione, che reagisce agli interrogativi senza risposta impadronendosi dei loro oggetti, per spingerne il significato al di là di ogni limite consentito. Le sue scorribande rivelano l’insensatezza delle definizioni, la loro natura fondamentalmente antilibertaria, tale da soffocare la voglia di vivere. Dove vigono le regole, un’idea come quella di diventare padre non può che suonare oppressiva, legata a responsabilità stringenti e funzioni ben precise. Lo stesso amore perde il fascino della spontaneità, per assumere l’odore poco allettante del dovere. Fred non se la sente di andare dritto al punto: non fa parte della sua indole di esploratore, di vagabondo votato al disorientamento. Preferisce girare intorno ai concetti, inghirlandandoli di intrecci di parole che sono parafrasi di un meditativo silenzio. Il suo stile è un espressionismo della sconclusionatezza, che si mescola con la reticente rarefazione nordica, mantenendo, in sottofondo, il disincanto striato di sarcasmo che caratterizza il nuovo corso del cinema baltico. La soggettività è una visione confusa e lievemente attonita, che sembra vivere l’attesa della rivelazione con la pigra curiosità di chi vorrebbe sapere, ma non ha il coraggio di chiedere. Il suo rapporto col padre è frenato dalla paura di scoprire la complessità delle proprie debolezze, che si sottraggono, anch’esse, con adolescenziale cocciutaggine, ad ogni tentativo di classificazione. Un uomo onesto non sbaglia mai, nemmeno quando ha toccato il fondo: il consiglio paterno cade nel vuoto. O forse, al contrario, coglie in pieno il senso di quella giovanile smania di proseguire imperterrito lungo una strada senza meta, continuando a provare a fallire, in tutti i modi possibili. Il film di Veiko Õunpuu è un interessante esperimento di narrazione negata, che comunica attraverso i gesti e i pensieri che non vanno a buon fine, che non portano a nulla, e offrono lo spunto per futuri insuccessi. Questo racconto, intenso nella sua tormentata laconicità, appare in formazione come il suo protagonista, e racchiude, nel suo spirito fragile e acerbo, una flebile promessa di compiutezza e stabilità.
Free Range ha concorso, come rappresentante dell’Estonia, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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