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Fleabag

2 stagioni - 12 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Fleabag

di mck
9 stelle

Dice che "FleaBag" non ha bisogno di un ulteriore capitolo/tassello. Ma il pubblico sì!

 

Riassumo adesso in questa pagina il paio che avevo scritte dedicandole alle due stagioni di "FleaBag" in occasione della loro uscita perché l'improbabilità di una terza annata s'è fatta definitivamente... abbastanza concreta.

 

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Stagione 1 (2016).

 

One Broke Girl.

 

“Il sangue fluisce direttamente dal loro cazzo al cuore. E tutto è fottuto.”

 

One Broke Girl. Si, perché s'è vero com'è vero che nulla di più lontano, niente, da una sit-com, è, dal PdV della forma e dello stile e dei principi tecnici e grammaticali, “FleaBag” (letteralmente: sacco pulcioso → persona squallida) di Phoebe Waller-Bridge [trentenne autrice ed interprete di “Crashing”, creatrice e scrittrice di “Killing Eve”, attrice e produttrice di “Run”), è altrettanto evidente che la sostanza e il contenuto di questa serie in 6 episodi da 25 minuti l'uno della BBC Three (poi acquistata da Amazon) girata in un metropolitanico-ecceteraecceterico 2.35/2.39:1 (fotografia: Tony Miller) si allineano con una impossibile ed improbabile versione (incommensurabilmente ancor più) nera, empia e spinta della serie multi-camera creata da Michael “Sex &” Patrick “the City” King e Whitney “Whitney” Cummings per Warner-CBS con Kat Dennings (e Beth Behrs), presente in un universo parallelo in cui Al Gore, Barak e Michelle Obama, Bernie Sanders e Nancy Pelosi (e Jeremy Corbyn) la fanno da padroni.   

 

«L'unica ossessione che vogliono tutti: l'“amore”. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l'amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due.»

Philip Roth - the Dying Animal - 2001 (trad. ital di V.Mantovani: “l'Animale Morente” - Einaudi - 2002)   

 

Il paragone immediato e ben più pertinente, invece, è con “One Mississippi” di Tig Notaro (e Diablo Cody e Louis C.K.) e “Girls” di Lena Dunham, e, ancor più, per altri versi, nello spirito e nella carne -[ e nella sintassi: il rivolgersi direttamente al pubblico - lo sguardo in camera portato e protratto all'ennesima potenza - rompendo la quarta parete in/con una dialogazione a una sola via a senso unico che come non mai produce una contro-reazione percepibile, viva, immedesimante, “oltre” l'empatia - aggeggio, congegno e dispositivo il cui uso inflazionato ha sovraffollato di mostri l'arte contemporanea (vedasi la madrina-matrigna, interpretata da Olivia Colman, che non è l'antagonista per partito preso, ma perché lo è, punto) - : FleaBag c'est moi? Tropismo all'ennesima potenza: Moi c'est Fleabag: un per nulla ridondante ma perentorio viceversa che ci schianta ]-, col “WhatEver Works” di Woody Allen.

 

 

Falling in Love. 

- “Non farmiti odiare, amarti è già troppo doloroso.”
- “Ook, scusa... ma credo sul serio che dovresti scrivertela! Lo so, lo so che adesso non è il momento adatto, ma questa devi scrivertela, è perfetta per un verso...”
- “Non me la voglio... scrivere!”
- “No, no, no, no!, dico sul serio, usala per una canzone, è perfetta, è poetica ma vera, dico sul serio.”   

Fatto.  

 

Un semplicissimo campo controcampo (montaggio di Gary Dollner) tra un risveglio all'alba nel presente e un ricordo a supporto di un dialogo [tra FleaBag e Boo - la migliore amica, l'altra parte di sé (e siccome la protagonista è, filosoficamente parlando, sadomasochista/autolesionista morale...), interpretata da Jenny Rainsford] da antologia:   

Interno Giorno – da sotto le lenzuola – primo cisposo sguardo del mattino rivolto al comodino: una matita con gommino, posata, lì, per traverso, sta.
STACCO
Interno Giorno – conversazione a due nella mattina inoltrata al tavolino del locale (coffee) per, pardon, ispirato ai roditori (Guinea Pigs).
- “Ohm!”
- “Cosa?”
- “Oh no, non penso che a Hillary [specie: nome latino: Cavia porcellus, nome comune: cavia domestica o porcellino d'india...sudamericana] piacerà sentire questa storia.”
- “Oh, vai avanti.”
- “No.”
- “Oh, vai avanti.”
- “Ok. Un ragazzino di undici anni è finito in carcere minorile per aver ripetutamente ficcato delle matite col gommino nel culo del criceto della scuola.”
“Cosa?!”
“Eh sì.”
“E perché farlo?”
“Pare gli piacesse quando strabuzzava gli occhi.”
“No: perché lo hanno allontanato? Ha evidentemente bisogno di aiuto.”
STACCO – da sotto le lenzuola: “Era una persona sorprendente.” – STACCO
“Non avrebbero dovuto rinchiuderlo.”
“Ha scopato un criceto con una matita!”
“Sì, ma è ovvio che non è felice, le persone felici non fanno cose del genere.”
“Giusta osservazione.”
“Ad ogni modo, è quella la vera ragione per cui si mettono le gomme alla fine delle matite.”
“Cosa? Per fottere i criceti?!”
“Noo. Perché le persone sbagliano.” 

 

Phoebe Waller-Bridge, classe 1985, trae dal suo monologo teatrale del 2013 (ben lontano anni luce da Eve Ensler, ad esempio) un potente, scorticato, amorevole, impietoso (auto) ritratto (para/semi) universale.    

 

Messa davanti al disvelamento dell'agnizione nel pre-sottofinale al termine della stagione (e davvero non o ben poco importa quanto questa rivelazione sia risultata essere più o meno intuibile da parte dello spettatore: a mio avviso questa svolta, rilancio e passo obbligato della trama è stato soprattutto ben gestito e congegnato attraverso l'applicazione di un buon compromesso tra topos/retorica e suspense/colpo di scena), FleaBag (il cui Vero Nome non viene, mai, pronunciato nel corso di tutti e 6 gli episodi: e ciò accade per molti personaggi: il padre, interpretato da Bill Paterson, la nuova compagna di questi, molti amanti della protagonista: le uniche due persone ad aver concessa la grazia di un documento d'identità sono la sorella e, ma solo in parte, l'amica del cuore, che si deve accontentare di un soprannome, mentre pure del roditore conosciamo il battesimo), col suo carico di colpe non ancora elaborate-espiate, si volta per sfuggire ai suoi giudici-accusatori di turno, ma trova un muro davanti a sé, quella quarta parete che nel corso delle due ore precedenti aveva ripetutamente, consapevolmente e abilmente sfondato, squarciato e attraversato: e quel muro siamo noi, è la macchina da presa (mi viene in mente Alice in “Eyes Wide Shut” che per uscire dal bagno nel prologo del film di Kubrick si sposta, ''impercettibilmente'', compiendo un gesto con la spalla e sbilanciando il corpo, per non incappare contro l'operatore alla steady-cam che nel precederla sulla soglia s'era fermato ad attenderla), e così fa dietro front e ritorna sui suoi passi: noi non possiamo, più, esserle d'aiuto nel climax-rivelazione-epifania del momento, ma torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, torniamo a ricoprire il nostro vero ruolo, quello di spettatori. Le ottime musiche di Isobel Waller-Bridge (sorella di Phoebe) contribuiscono allo straniamento, alla disvelazione, alla presa di coscienza.  

 

“E so che il mio corpo, così com'è ora, è l'unica cosa che mi è rimasta, e quando invecchia e non diventa più scopabile tanto vale morire. E in qualche modo non c'è niente di peggio di qualcuno che non vuole scoparmi. E mi scopo di tutto… E si sentono tutti almeno un po' così, anche se non ne parlano, oppure sono completamente sola?”  

 

Poi, tutto viene esplicitato da una battuta (di Claire - interpretata da Sian Clifford -, la sorella di FleaBag), che racchiude il senso ultimo della grammatica e della sintassi utilizzata per mettere in scena “FleaBag” (e per una serie che spinge, forza e sfrutta il contatto empatico sino allo stremo questo è specificatamente significativo) : uno dei migliori esempi di Forma e Stile che si concretizzano, trasportano, traslano e riconoscono in Sostanza e Contenuto:
“I'm sorry, but you just have to see it from my point of view”.     

 

m.c., 08 Marzo 2017
 
* * * * ¼ (½)
 
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Intermezzo - Assonanze antecedenti.
 
Margherita Vicario ("la Terra e il Vento", "Arance e Martello", "Cristian e Palletta Contro Tutti") in "Per un Bacio" (chitarre di Roberto Angelini; videoclip da lei diretto e co-interpretato, pubblicato l'8 Gennaio 2015) da "Minimal Musical" del 2014... 
      

 

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Stagione 2 (2019).
 
"Arm Touch...! Ooohh...!"
 
Si piange, si ride, non ci si crede.

 

I primi quattro episodi sono piccoli capolavori - termina inflazionato, stra-abusato e svilito, ma qui, assumendomi ogni responsabilità, me ne faccio carico utilizzandolo in modo, “Dica lo giuro!”, non improprio - che rasentano la perfezione, gli ultimi due, a meccanismo oramai non solo ovviamente ben oliato ma proprio avanzante perorantesi in moto autonomo e avviato ad una velocità di crociera supersonica, rimangono ottimi, e solo un poco più canonici.   

 

“E sono stato bene, e sono stato male.”

 

Tutti scritti e interpretati (“FleaBag” è nata primariamente nel 2013 come one-woman play per gli assiti dell'Edinburgh Festival Fringe) da Phoebe Waller-Bridge [creatrice/showrunner di “Crashing” x Channel 4 (di cui è anche attrice), “Killing Eve” per BBC America e della prossima “Run” per HBO, oltre che attrice in “BroadChurch” e “Solo: a Star Wars Story” e rifinitrice dello script del prossimo James Bond (Craig/Fukunaga), il n. 25 o giù di lì, "No Time To Die"] e diretti da Harry Bradbeer (ancora il dispoitivo retorico, ma ben utilizzato, del camera-look con interpellazione diretta in “Enola Holmes”), sono stati trasmessi [prodotta e pubblicata da BBC Three, la prima stagione del 2016 è in seguito stata riproposta da BBC Two, mentre questa seconda annata/venuta/avvento (che però si svolge 1 anno dopo, non 3) è stata rilasciata, passando lancia in resta, direttamente su BBC One e contemporaneamente su BBC Three] a cadenza settimanale: assistere a 20/25 minuti circa tanto pieni quanto leggeri una volta ogni 7 giorni posso immaginare (perché infatti, con la distribuzione internazionale - U.S.A. e Resto del Mondo - acquisita da Amazon, l'ho recuperata in una tirata unica di due ore) non sia poi soverchiantemente irritante all'eccesso (sono “troppo” pieni, ma sono così leggeri!), ch'è invece quel che accade con l'addiction in zona “Game of Thrones”.   

 

Al cast principale della prima stagione (Sian Clifford, la sorella, Bill Paterson, il padre, Olivia Colman, la matrigna, Brett Gelman, il cognato, e Jenny Rainsford, l'amica del cuore, tradita e deceduta), si aggiunge niente po' po' di meno che Moriarty in persona (carne, ossa e ghigno), ovvero Andrew Scott (tanto teatro, poi, appunto, “Sherlock”, e inoltre un ep. della prossima, 5a stag. di “Black Mirror”), mentre due piccoli ruoli (comparsate, ma incisive) sono affidati a Fiona Shaw (ancora, in mezzo a una carriera immensa, “Killing Eve”), e Kristin Scott Thomas (una bellissima particina, davvero).     

Fotografia di Tony Miller. Montaggio di Gary Dollner. Musiche, tra cui un potente e ottimamente utilizzato Kyrie Eleison, di Isobel Waller-Bridge (the real sister). 

 

Adorabile e sorprendente il contro-sfondamento / ri-(s)velamento della quarta parete (“What was that?” - “What?” - “Where did... Where did you just go?” - “What?” - “You just... went somewhere. There! There! Where did you just go?” - “Nowhere.” - “Okay...” - “...?!!!?....”), momento ripetuto, reiterato e protratto per un paio abbondante di volte in cui l'altro da sé, cioè da lei, ovvero lui, si accorge di questa particolare peculiarità comportamentale espressa dalla protagonista e ad essa connaturata e caratterizzante tanto il personaggio quanto l'autrice e la serie stessa: un dispositivo che, grazie a questo intervento - che appare come "extra"-diegetico, ma che, cambianto le carte in tavola in corso d'opera, risulta essere profondamente diegetico -, anche lo spettatore scopre esistere come concreto nel mondo fittizio della storia seriale narrata: certo, poi è solo un gioco, non importa davvero se sia reale o no, perché conta ciò che significa questo segno, dato che il succo del discorso è che compiendo questo atto (naturale, non pre-architettato/studiato) lui la guarda davvero, e la vede e riconosce realmente per ciò che è, in una delle sue manifestazioni più intime e personal(izzant)i.

 

 

“I have a horrible feeling I’m a greedy, perverted, selfish, apathetic, cynical, depraved, mannish-looking, morally bankrupt woman who can’t even call herself a feminist.”

 

E poi, il finale, in cui – senza spoilerare, e con la voce di Brittany Howard sulle note di “This Feeling” degli Alabama Shakes, qui in studio e qui dal vivo –, con un cenno, lei ci dice di non seguirla più. Almeno per ora.   

 

m.c., 20 Maggio 2019

 

* * * * ¼ (½)

 

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Ho riassunto adesso in questa pagina il paio che avevo scritte dedicandole alle due stagioni di "FleaBag" in occasione della loro uscita perché l'improbabilità di una terza annata s'è fatta definitivamente... abbastanza concreta. Dice che "FleaBag" non ha bisogno di un ulteriore capitolo/tassello. Ma il pubblico sì!  ♥ ♥ ♥            

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