Regia di Bob Meyer vedi scheda film
John Malkovich e John Goodman in un film ispirato ad una poesia di Arthur Rimbaud. Le Bateau ivre (La nave ubriaca) narra il delirante vagabondaggio di un vascello abbandonato che va alla deriva in un mare tempestoso: le sue allucinazioni si mescolano ai ricordi dei viaggi passati, mentre la feroce irrealtà delle sue allucinazioni appare nobilitata dall’espressionistica intensità della poesia. La composizione visionaria di un poeta maledetto, che è un inno all’ebbrezza, al vagabondaggio, al naufragio nell’oceano della memoria, è il lontano punto di riferimento per un film erratico, che celebra la sua compiaciuta incoerenza entro gli spazi angusti dei cortili, dei depositi, delle cantine, dei vicoli, delle aiuole: sono questi i luoghi che ospitano fantasie più o meno comprensibili, audacemente proiettate verso il futuro o confusamente immerse nel passato. Ci sono i giovani che sognano, andando via di casa per spostarsi in autostop, o girando uno strano film con un accendino ed una ragazza vestita di uno spinnaker, oppure progettando un giro del mondo in barca a vela; e c’è il vecchio Mort che rievoca gli orrori del Vietnam come se fosse un’avventura di ragazzi andata male, una gita guastata da bravate e stravaganze. E intanto lui, che è sempre stato un incallito bevitore, usa le bottiglie vuote per decorare un angolo del giardino di sua sorella. Tutti cercano la fuga dalla normalità, che si rivela, però, un desiderio irrealizzabile: alcuni non riescono a partire, altri, che pure si erano allontanati, si trovano costretti a ritornare indietro. Coi piedi per terra rimane solo chi soffre e combatte (come Eileen), chi non ha fantasia (come Morley), e chi invece bada solo al proprio tornaconto (come Fletcher). Gli elementi tipici dell’universo marinaresco si addensano in una storia che salpa le ancore, ma per non andare da nessuna parte: la guerra, il commercio, le intemperie, le mappe, la solitudine, le casse di whisky, i filibustieri si danno convegno entro i contorni di un quadro sostanzialmente fermo, movimentato solo dalle velleità dell’immaginazione. La stessa idea dell’infinito è racchiusa in un segno grafico compatto, il simbolo dell’otto rovesciato, un circuito che si torce e si richiude su se stesso. Drunkboat è un film ermetico, immobilizzato dall’impossibilità dei personaggi di essere veramente liberi, se non nelle loro individuali utopie; ed è un racconto stretto come un nodo, forse troppo per riuscire ad esprimere appieno la sua intrinseca ricchezza di suggestioni letterarie.
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