Forse il calcio non è mai stato così apparentato alla morte come in questo ultimo periodo, per una serie di circostanze drammatiche o di discussioni politiche su scelte del governo internazionale di questo sport, a cominciare com’è noto dall’assegnazione al Qatar dei mondiali appena conclusi. Proprio qui si sono innescate grandi problematiche non solo sul terreno dei diritti civili (donne, omosessuali eccetera), ma anche sul disinteresse più totale verso la sicurezza sul lavoro, con diversi operai deceduti durante la costruzione degli stadi, nonostante i tentativi del Potere locale di ridimensionarne l’entità. Sono stati mondiali dove i morti si sono contati prima di cominciare a giocare e successivamente purtroppo anche durante, con una casualità tragica che ha visto morire ben tre giornalisti inviati in Qatar, aspetto del tutto inquietante, nel suo accadimento fortunatamente aleatorio.
Non bastasse: il calcio che, come tutti gli sport, vive nell’agone il senso metaforico della morte, ha subìto in pochi giorni la perdita di tre straordinari protagonisti, che ha scosso l’opinione pubblica: Pelé, Siniša Mihajlović e Gianluca Vialli. Del primo è stato forse minore l’impatto tragico, non certo quello emozionale: ammalato da tempo e in età discretamente avanzata si è portato dietro un’immagine leggendaria che scavalca storia e talento, anche perché vissuto nell’epoca in cui non si era bombardati continuamente da immagini e filmati, e l’esposizione mediatica era praticamente inesistente, tanto che forse il ricordo visivo più vivido per molti è la sua partecipazione al film Fuga per la vittoria. Una perdita sicuramente affettiva, anche perché si sta parlando di uno dei due o tre campioni assoluti di tutta l’avventura ultracentenaria del pallone, ma consumata comunque in una dimensione diciamo “accettabile”.
Diverso il caso di due giocatori ancora troppo giovani per morire, fino all’altro ieri applauditi sul campo e da qualche tempo passati a ruoli tecnici, come allenatori, o dirigenziali. Al di là dell’imperante e fastidioso ricorso a figure come battaglia o guerriero nella convivenza personale con il Male, la precoce perdita di questi formidabili giocatori è stata vissuta da tutti con grande partecipazione. L’età ha indubbiamente contribuito (il centrocampista serbo aveva 53 anni, l’attaccante cremonese solo qualcuno di più, 58), ma gran parte dell’abbraccio collettivo con cui sono stati tristemente salutati poggia anche sul fatto di averli “vissuti” così continuamente, nella riproducibilità del gesto e nella sedimentazione iconografica, oltre a essere ovviamente due campioni.
Ma il senso di pericolo che accompagna lo sport in generale, che il cinema ha ricordato spesso con i tantissimi film sul mondo della boxe e ancora con altri titoli tipo Rollerball, Un mercoledì da leoni, Point Break, Fast & Furious eccetera, lo abbiamo vissuto nel calcio ben più stupidamente in questi giorni anche con gli scontri, ben lontani dagli stadi e in piena autostrada trafficata, tra ultras della Roma e del Napoli, che si sono dati appuntamento durante le trasferte delle loro rispettive squadre per un’ulteriore puntata della faida in atto da anni, che ha già visto in passato qualche tifoso morire, mentre per fortuna stavolta non si è arrivati a tanto.
Basterebbe ricordare l’immane e sciagurata tragedia dell’Heysel, nella finale dell’allora Coppa Campioni del 1985 a Bruxelles tra Juventus e Liverpool, che costò la vita a 39 persone, oltre ai 600 e passa feriti, per comprendere come queste distruttive interpretazioni del tifo portino a conseguenze nefaste imperdonabili. E di tutte le morti possibili che lo sport comunque contempla, nel suo svolgersi più o meno pericoloso, come direbbe Guccini, questa «è una morte un po’ peggiore».
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