Ma noi non ci saremo. Nomadi in cerca di un Mondiale futuro, ché gli ultimi due, compreso questo in partenza, ci hanno visti e ci vedranno ingloriosamente assenti. Cos’è un Mondiale senza Italia? Una carbonara senza uovo, Venezia senza Piazza San Marco, Star Wars senza Darth Vader, i Nirvana senza Kurt Cobain, insomma qualcosa che non è più la stessa. Ma non è nemmeno l’unico accidente che dimostra come non sia un Mondiale come gli altri, un Mondiale che si rispetti.
La scelta di andare a giocare in Qatar ha aperto da tempo un’infinità di polemiche: 1) il Qatar c’entra con la storia del calcio come un igloo nel Sahara; 2) si gioca in novembre, costringendo tutti i campionati più importanti del mondo a sospendere la propria attività, condizionando un’annata intera a rischi di esiti aleatori; 3) il Qatar notoriamente è uno Stato che calpesta i più elementari diritti civili, feroce con le donne e gli omosessuali, e con ogni altra categoria di persone che non rappresenti la “normalità” per la Shari’a, tutto questo mentre da anni la Fifa, ignobilmente paradossale, ha adottato una campagna di sensibilizzazione contro ogni forma di razzismo; 4) la dimostrazione ulteriore che nello sport i soldi contano più di tutto e che in nome di essi si calpestano allegramente le più evidenti regole del merito, preferendo quelle della convenienza; 5) si darà l’immagine di un Paese lontana dalla realtà, coprendo con il tifo e i gol ciò che fuori dagli stadi giornalmente accade, un po’ come successe nell’Argentina di Videla nel 1978, nel tripudio della coppa vinta, come se non ci fosse alcun desaparecido, questo per dire che tali “scandali” sono sempre esistiti, in tutti gli sport, Olimpiadi comprese (il caso Atlanta-Coca Cola nel centenario dei Giochi scippati ad Atene, per dire).
Ma non facciamoci illusioni: al primo gol tutto questo verrà velocemente dimenticato, perché niente è come un Mondiale di calcio, soprattutto per noi italiani, che notoriamente crediamo che esista solo uno sport che valga la pena di avere un’audience adeguata. Quindi calcolando che sarà quasi inverno e non estate come al solito, almeno da noi perché in Sudamerica è sempre stato così, il nostro non sarà un tifo caldo, spettatori neutrali, che è il ruolo peggiore che ci possa capitare. Sarà sempre di più un mondiale tecnologico, derubricato dal campo e immerso nello sguardo solerte delle spie della sala Var, pronte a tirare righelli virtuali per i fuorigioco e concedere appelli continui rispetto alle decisioni sul prato, come nessuno in quel lontano 13 luglio 1930 (il big bang in Uruguay) avrebbe mai potuto immaginare.
Ma adesso siamo qui, quasi un secolo dopo, alla partenza dell’edizione numero 22, l’ultima a 32 squadre, prima che tutto si gonfi (per soldi, non per divertimento), a 48 partecipanti, così magari stavolta l’Italia ce la fa a qualificarsi. La copertura mediatica sarà sensazionale (a parte l’Italia, necessariamente ridimensionata per la nostra assenza), la speranza che finalmente vinca una Nazione non europea e non sudamericana (il centro del Potere del Pallone) intatta come sempre, pronta all’ennesima delusione, specie per quel calcio africano, che dal 1990 (quando si giocò in Italia) un po’ di questo sogno lo accese con il Camerun di Roger Milla, calciatore-ballerino. E tale è da 32 anni. Facciamocene una ragione.
Anche stavolta le squadre in pole position sono sempre quelle: Brasile, Argentina, Francia, Spagna, forse Inghilterra, improbabile Germania, men che meno il Belgio che ha stufato di regalare solo illusioni. Le star, tante: Neymar, Messi, Mbappe, Lewandoski, Dybala, Harry Kane, Bale, Neuer, De Bruyne, Modric, Cristiano Ronaldo, solo per citare le più note, amate e attese. Grande assente: il norvegese Erling Haaland, 22 anni per 194 centimetri, nato a Leeds, figlio d’arte, forza della natura, straordinariamente tecnico nonostante un fisico imponente, un’assenza pesante in Qatar. Al pari dell’Italia. Ma lui almeno non se lo merita.
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