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Wayward - Ribelli

1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Wayward - Ribelli

di mck
5 stelle

Tall Pines, Low Balls.

 

No, non ci siamo: assistere a “Wayward” [Tall Pines], la seconda prova (Netflix, 2025), questa volta declinata seria, di Mae Martin (da lei ideata e poi, con Ryan Scott, sviluppata) dopo l’ottima “Feel Good” (Channel 4 & Netflix, 2020-‘21, scritta con Joe Hampson), non è così logorante come sottoporsi alla Cura Ludovico lunga le due stagioni componenti la tanto sua quasi omonima quanto quasi di tutt’altro genere “Wayward Pines” (Hodge, Friedman, Crouch, Shyamalan; 2015-‘16), ma comunque per tutti gli otto episodi da circa tre quarti d’ora l’uno sembra di stare osservando una versione semplicemente più marcatamente progressista (qualità positiva in politica e neutra nell’arte) della non certo esaltante “The Institute” (tratta dall’omonimo molto buon romanzo di Stephen King, però purtroppo rimesso in scena, con l’aiuto di Jack “Tranquilli, Ci Penso Io ad Appiattire Tutto!” Bender, da Benjamin Cavell, che già si era occupato, con Josh Boone, dello sviluppo dell’un bel po’ bolsa “the Stand”, tratta dall’omonimo mastodontico capo d’opera anchesso kinghiano).

 


Ted Sarandos & soci ci mettono i soldini (o le hanno dato carta bianca oppure le hanno messo troppi paletti: ad ogni modo non è così che si fa il mestiere di produttore: dovrebbero - a prescindere dal numero di visualizzazioni e dall'indice di gradimento - metaforicamente saltare delle gran teste) per aprire e chiudere il tutto con niente po’ po’ di meno che “Time” dei Pink Floyd e nel mezzo infilarci, fra le...

 

 

...altre, “Hurdy Gurdy Man” di Donovan, “Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)” di Kenny Rogers & the First Edition, “Highway Star” dei Deep Purple e “No Surprises” dei Radiohead: per dire, eh (tra l’altro persino ben utilizzate, ma no, ovviamente non basta a risollevare le sorti di un prodotto non funzionante su quasi tutta la linea e sbagliato sotto quasi ogni aspetto della sua interezza: e questo nonostante la presenza di due pezzi da novanta quali Toni Collette½ Women, the Sixth Sense, In Her Shoes, United States of Tara, Hereditary, WanderLust, Unbelievable, I'm Thinking of Ending Things, Juror #2 - e Sarah Gadon - A Dangerous Method, Antiviral, Cosmopolis, Enemy, Maps to the Stars, 11.22.63, Alias Grace, True Detective 3, Black Bear, Corner Office, A Big Bold Beautiful Journey - come co-protagoniste).

 


E persino l’ipno-rospo è messo lì solo per fare scena e nient’altro: manco una leccatina (a meno che la droga utilizzata durante il “salto” non derivi da una spremitura/frullato di un parente allucinogeno dell’Anaxyrus americanus), mentre l’Ontario interpreta il Vermont e il resto del cast è completato, senza guizzi particolari, ma discretamente, da Tattiawna Jones (the Expanse, the Handmaid’s Tale, Dragged Across Concrete, Station Eleven, Murderbot) e dalle giovani Alyvia Alyn Lind e Sydney Xiaolang Topliffe.

 


Non dico che quello di Mae Martin con “Wayward” sia uno spreco di talento equivalente a quello che, per altre ragioni, ha coinvolto Phoebe Waller-Bridge, la cui prestazione più rimarcabile dopo le due annate di “Fleabag” e la prima stagione di “Killing Eve” è stata il fare da voce narrante per “Octopus!” (Amazon, 2025: carino, eh, per carità, ma leggetevi piuttosto “Altre Menti” di Peter Godfrey-Smith: e se non siete schizzati/schizzoidi sociopatici la smetterete finalmente di mangiare i polpi), però: che cazzo, eddai.

 

* * ¾ - 5.75   

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