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Station Eleven

1 stagioni - 10 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Station Eleven

di mck
8 stelle

Un Amleto di Più.

 

La fine del mondo. Senza le parti noiose.   

 

 

Parte lenta, ha un momento di stanca effettuando il giro di boa giunt'all'incirca a metà e si spegne un po’ verso la fine (ma ha pure dei difetti, eh), “Station Eleven”, la mini-serie in 10 ep. da 45’/50’ ideata, showrunnerizzata e scritta (con l’aiuto di altri 6 sceneggiatori) per HBO Max da Patrick Somerville (che dopo essersi fatto le ossa firmando gli script di un quartetto d’episodi tanto per il remake U.S.A. della dano-svedese “Bron/Broen” quanto per “the Leftovers” creerà con Cary Fukunaga “Maniac” e con altri “Made for Love” rimanendo in attesa di sbarcare nei pressi/dintorni dell’orbita di “Ursa Major”) traendola dal romanzo omonimo (e - intendendo ciò nell’accezione positiva - la fondativa provenienza letteraria si percepisce fortemente) di Emily St. John Mandel (classe 1979) del 2014 (che non ho letto, ma che ha vinto un Arthur C. Clarke ed è stato candidato per il National Book e per il PEN/Faulkner), in cui, ad un certo punto, si abbandonano le armi per i libri (e se dal PdV spazio-temporale certe atmosfere di costruzione narrativa rimandano allo schema della complessa architettura di "Cloud Atlas", il primo nome [...alla fine, tanto per (ri)cominciare...] che viene alla mente, per la tematica di fondo, è senz'altro il Ray Bradbury di "Fahrenheit 451", mentre il "the Terminal" spielberghiano è uno dei "Non-luoghi, e procedere!" della situazione (commisto all'iper-luogo degli assiti bogdanovichiani di "Noises Off" disseminato nell'itinerante itinerario in itinere del tendone knaufiano di "Carnivàle") e metà delle necessità primarie sono condivise con un altro film del "giorno dopo", il post-apocalittico  "the Postman" costneriano, da David Brin: recapitare lettere, e salire s'un palcoscenico).  

 

 
Gran cast, per lo più: dall’ottima Mackenzie Davis (“Halt and Catch Fire”, “Blade Runner 2049”, “Tully”, “Happiest Season”) alla giovanissima e bravissima Matilda Lawer (“the Block Island Sound”), passando per Himesh Patel, David Wilmot, Gael García Bernal, Danielle Deadwyler, Lori Petty (“Point Break”, “Orange Is the New Black”), Nabhaan Rizwan, Philippine Velge (esordiente l'anno precedente per l'Ozon di "Été 85"), Caitlin FitzGerald, Daniel Zovatto, David Cross, Enrico Colantoni, Tattiawna Jones, Joe Pingue, Timothy Simons, Maxwell McCabe-Lokos, Prince Amponsah…

 

 
I primi due episodi - che mitopoieticamente dettano stile e regole - sono diretti rispettivamente da Hiro Murai (“Atlanta”, “Guava Island” e uno degli episodi migliori di “Legion”), che dietro la MdP metterà in scena anche il 3°, e da Jeremy Podeswa (“the Five Senses”, “Six Feet Under”, “Carnivàle”, “the Pacific”, “BoardWalk Empire”, “the NewsRoom”, “Game of Thrones”, “True Detective”, “Here and Now”, “the HandMaid’s Tale”, “On Becoming a God in Central Florida”), cui sarà affidata la regìa anche degli ultimi 2, ma i restanti 5, che vanno a comporre l’altra metà, ovvero il nucleo centrale del racconto, quasi non sono da meno: alternandosi dietro alla MdP, prima Helen Shaver (“WestWorld”, “Lovecraft Country”), poi Lucy Tcherniak (“WanderLust”), e così via, se la cavano alla grande. 

 

 
C'è sempre musica nell'aria...

Bellissima la colonna sonora originale di Dan Roman (“Beasts of the Southern Wild”, “Mediterranea”, “Digging for Fire”, “the Little Hours”, “A Ciambra”, “Maniac”, “Wendy”, “Luca”), e ben utilizzata: mai fuori posto, superflua o ridondante. 

 

 
Fra le canzoni preesistenti, invece: Bob Dylan (Don't Think Twice, It's All Right), Lee Hazlewood, Etta James, Bill Callahan (One Fire Morning), Elton John, Bobby Charles, the Impressions, A Tribe Called Quest, Amir Katz (Paganini)... Poi, ecco spuntare un basso tuba che prende e parte a dettare il ritmo: ed è subito “Tremé”.

 

 
A margine, un piccolo blooper, ma evidente, nel lungo attimo protratto un po’ troppo in cui, sul finire del 9° ep., quando poco prima a Jeevan sono rimasti solo i fantasmi da abbracciare, proprio un fantasma, nelle vesti fuori campo di un camera-car guidato dalla seconda unità, riprendendo mentre - lasciata la nursery - avanza precedendolo il side-car inq.to e diretto verso la temporanea dimora oramai vuota (ma contenente una bussola rotta che punta ad est), solleva impossibili mulinelli di pulviscolare nevischio ai lati della trincea scavata dal misteriosamente provvidenziale spazzaneve che nemmeno la fine del mondo ha saputo fermare.  

 

 

Pandemie, e altre fastidiose catastrofi.
L’unbroken circle ch’è il teatrante periplo annuale del lago Michigan (dopo averlo, nel secondo inverno dell’anno 1, aka 2021, attraversato quand’era ghiacciato), tra bivi/diramazioni, incroci/crocevia, incontri/scontri e addii/ritorni, esprime quella ch’è la sola ragione del viaggio: viaggiare.

 

 

Nota. La prima e l'ultima immagine utilizzate in questa pagina sono opera di Shelley Chapman.

* * * ¾ (****) - 7.75         

 

[Recensione originariamente pubblicata su FilmTV sotto forma di playlist il 23/01/'22 e qui copia-incollata con alcuni piccoli interventi di sistemazione.]   

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