Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Ipnotico nelle immagini e nell’atmosfera, L’orto americano affascina, ma la trama confusa fatica a decollare: un’opera imperfetta dove il mistero vale più della storia.
L'orto americano (2024): locandina
Dopo capisaldi come La casa dalle finestre che ridono (1976) e Zeder (1983), e il più recente Il signor Diavolo (2019), Pupi Avati torna al gotico con L’orto americano (2024), un thriller dalle venature gialle e horror. Il film pesca da atmosfere cupe e da temi di memoria e ossessione, scegliendo un’estetica vintage in bianco e nero che si impone come marchio visivo. Nonostante la forza delle immagini, la sceneggiatura mostra più di una crepa, un limite che diventa chiaro entrando nella trama.
Nel dopoguerra, un giovane scrittore bolognese, chiamato semplicemente Lui (Filippo Scotti), resta segnato da un incontro fugace con Barbara (Mildred Gustavsson), donna americana che diventa la sua ossessione. Anni dopo, una coincidenza lo porta a scoprire che la madre di lei, Flora (Rita Tushingham), vive in una remota zona rurale degli Stati Uniti, accanto a un orto che nasconde segreti inquietanti. Parte così un viaggio interiore e investigativo in cui realtà e immaginazione si confondono, lasciando lo spettatore immerso in un clima sospeso e ambiguo. Una vicenda che trova nella regia la sua vera forza.

Avati sfrutta il bianco e nero e il formato stretto non come scelta di stile fine a sé stessa, ma come strumento per costruire un mondo chiuso, soffocante, in cui ogni dettaglio visivo diventa essenziale. I chiaroscuri scolpiscono volti e spazi, accentuando l’ambiguità tra luce e ombra, realtà e allucinazione. Le inquadrature sembrano rinchiudere i personaggi dentro i loro tormenti, creando una claustrofobia psicologica che si trasmette allo spettatore. È un lavoro ossessivo, dove l’immagine non accompagna la storia ma la guida, trasformando il linguaggio visivo nel vero motore del film.
Accanto a questa forza visiva, la sceneggiatura, tratta dal romanzo omonimo di Pupi Avati e firmata insieme a Tommaso Avati, mostra limiti evidenti. Se da un lato alcune sequenze riescono a evocare suggestioni potenti e a mantenere la tensione sospesa, dall’altro i dialoghi spesso suonano forzati, poco naturali, e la trama fatica a trovare un percorso chiaro. Il mistero resta volutamente avvolto nell’ambiguità, ma la mancanza di una progressione solida finisce per spezzare il ritmo e ridurre l’impatto emotivo. La sensazione è che l’estetica trascini avanti il film molto più della scrittura, lasciando dietro un racconto frammentario. È proprio in questa tensione, tra potenza dell’immagine e debolezza della parola, che si inserisce il lavoro del cast.

Al centro c’è Filippo Scotti, che dopo È stata la mano di Dio (2021) affronta un ruolo cupo e tormentato, abbandonando l’autobiografia per calarsi in un’ossessione che diventa totalizzante. Accanto a Lui Mildred Gustavsson dà a Barbara un’aura sfuggente, quasi irreale, mentre Rita Tushingham, icona del Free Cinema britannico, presta a Flora un fascino che richiama una memoria cinefila internazionale. Chiara Caselli, già con Avati in Il signor Diavolo, si muove ancora in territori perturbanti, confermando il suo legame con il regista.
Roberto De Francesco e Armando De Ceccon incarnano due fratelli dal legame torbido, capaci di insinuare tensione sotterranea. Romano Reggiani veste con misura i panni del pubblico ministero, Massimo Bonetti quelli del presidente della Corte d’Assise, a cui dà autorevolezza. E poi ci sono le incursioni più curiose: Andrea Roncato maresciallo dei Carabinieri e Cesare Cremonini oste, apparizioni che Avati inserisce come note di riconoscibilità, capaci di contaminare il gotico con un gusto popolare senza snaturarlo. Una costruzione di personaggi che si arricchisce anche di curiosità dietro le quinte.

L’orto americano evita soluzioni nette, mantenendo il mistero avvolto in un velo di ambiguità. Il confine tra realtà e fantasia resta incerto, lasciando lo spettatore a vagare in un’atmosfera rarefatta che a tratti può risultare frustrante. Il finale aperto non è solo scelta stilistica, ma invito a riflettere su come le ossessioni personali possano distorcere la percezione della realtà. Tuttavia, questa indecisione narrativa indebolisce la trama, spesso inconcludente e poco incisiva. Il film si regge soprattutto sull’impatto visivo e sull’atmosfera, elementi in cui Avati conferma la sua abilità, ma manca di un racconto solido e coinvolgente capace di sostenere pienamente l’interesse dello spettatore.
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