A oltre settant’anni dal suo debutto al cinema, vogliamo ancora tutte essere Monica Vitti: sono decine, solo nel mio feed, le foto-profilo che la ritraggono, capelli scompigliati e sguardo languido, a sostituire l’immagine della reale proprietaria di questo o quell’account, come a voler sottolineare una somiglianza – reale o sperata – tra queste ragazze tra loro sconosciute e l’attrice, con tutto ciò che ha rappresentato. Vogliamo ancora tutte essere Monica Vitti, ma non solo quella risoluta e auto-ironica di La ragazza con la pistola, o quella ammaliante e contesa di L’anatra all’arancia e Dramma della gelosia. Vogliamo essere anche quella triste, vulnerabile, inconsolabile: la Valentina Gherardini del meraviglioso film La notte di Antonioni, per esempio, con la sua “tristezza di cane” – che la ragazza afferma di provare in una famosissima scena –: un sentimento primitivo, assoluto, sincero, ma impossibile da comunicare a parole, esattamente come se a provarlo fosse un’intelligenza animale.

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La notte

C’è infatti qualcosa di straordinario nel personaggio interpretato da Vitti nel capolavoro di Antonioni, con la sua capacità di restituire una tristezza “epocale” che è del tempo in cui questo personaggio vive prima ancora che di sua proprietà esclusiva. Valentina, nel film, è infatti figlia di quella borghesia di cui La notte vuole mostrare il conflitto interiore, riversatosi poi nell’antitesi che ha vibrato in tutta la cultura italiana degli anni Sessanta, attratta da un lato dalle ideologie delle avanguardie politiche, ma pur sempre legata all’allure dei salotti borghesi che, per quanto illuminati, restavano molto aggressivi nel difendere i privilegi di casta.

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La notte

Valentina è quindi l’archetipo di un sentimento d’epilogo da cui, a ben guardare, non siamo mai più stati consolati, negli oltre sessant’anni a seguire. È simbolo di una percezione di decadenza e fragilità che si muove da fuori a dentro di noi, nel momento in cui non possiamo più ignorare che il mondo che abbiamo attorno, probabilmente, non tornerà più uguale a come lo abbiamo conosciuto. La notte racconta infatti la classe media italiana, la vera protagonista degli anni Sessanta e del boom economico, superando l’iconografia simbolica che la vorrebbe “favolosa”, moderna, nata dal benessere straripante e dunque proiettata in un avvenire altrettanto radioso. Per questo, lo stesso grigiore e l’imponenza dei palazzi della Milano iper-industrializzata che fa da sfondo al film servono a restituire un senso di oppressione che è funzionale alla messa in scena del trionfo dell’infelicità borghese, vittima dell’alienazione e del senso di vuoto che l’hanno resa una classe sociale tronca, priva di futuro, ben prima che la produzione di massa, la globalizzazione e la diffusione del capitalismo nel mondo rendessero evidenti i loro effetti catastrofici.

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La notte

Valentina incarna dunque il correlativo oggettivo, o meglio il correlativo emotivo, di questa tristezza diffusa, che si manifesta radicalmente nel suo personaggio, descrivendo con oltre cinquant’anni di anticipo la crisi esistenziale quotidiana che stiamo vivendo oggi, assorbiti dai nostri pensieri sull’inevitabilità di ciò che ci aspetta, se continuiamo a seguire la tempolinea a cui gli anni passati ci hanno condotto, senza creare un qualche tipo di scarto.

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La notte

La tristezza di Valentina, però, è anche una tristezza seducente. Almeno, lo è abbastanza da non passare inosservata agli occhi del romanziere Giovanni Pontano – interpretato da uno straordinario Marcello Mastroianni –, che la cerca instancabilmente durante una festa a casa del padre di lei, mentre la ragazza si rifugia lontano dagli ospiti leggendo I sonnambuli di Hermann Broch – opera che esplora, non a caso, la disgregazione dei valori nella società tedesca tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, attraverso le storie di personaggi che sembrano agire come assopiti, smarriti in una realtà in rapido rivolgimento storico, un po’ come fanno i protagonisti di Antonioni e come facciamo noi oggi, di fronte a un mondo che, ogni volta che cambia, sembra farlo in peggio.

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La notte

Giovanni cerca Valentina mettendo a rischio il suo matrimonio con Lidia – ruolo affidato a Jeanne Moreau – perché scegliendo un’altra tristezza rispetto a quella della moglie pensa di potersi distrarre dalla sua, dalla loro, da quella che ormai conosce bene, arrivato alla soglia di un matrimonio destinato al fallimento. Questa vena sensuale dei personaggi drammatici di Monica Vitti – spesso criticata durante le sua carriera per il rischio di avvicinarli a visioni stereotipiche – fa parte di uno schema narrativo preciso, che con l’avvento di Internet si è diffuso ben oltre il cinema. La “sad girl”, letteralmente “ragazza triste” – hashtag che dopo il 2010 ha letteralmente invaso i social, tra ricondivisioni dei post di Bella Hadid con gli occhi gonfi di pianto, canzoni di Lana del Rey come didascalia delle foto da postare online e crying makeup a impreziosire i selfie – sulla carta è infatti una giovane donna che non si vergogna della sua vita emotiva e che quindi esprime il suo dolore senza filtri, affinché gli altri lo vedano. Un modello estetico venduto come anticonformista, quando invece il filtro esiste eccome, e consiste proprio in uno sfoggio della sofferenza che non è mai sciatta o esagerata, ma si mantiene sempre abbastanza composta tanto da risultare attraente, compiacendo lo sguardo maschile.

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La notte

Per ogni foto-profilo che ritrae Monica Vitti in bianco e nero, sepolta dai suoi meravigliosi capelli, c’è quindi una ragazza che con tutta probabilità si riconosce in un modello femminile solo superficialmente alternativo e fuori dal comune, e che si vanta del suo essere lontana dagli stereotipi abbracciandone uno ancora più subdolo, quello della ragazza diversa. La ragazza che guarda i film d’autore, che tenta disperatamente di leggere un romanzo pur disturbata dal rumore di una festa, che abbina abiti vintage a frangetta regolare, e che fa della tristezza, della malinconia diluita e un po’ annoiata, il suo stato d’essere e il suo principale strumento di seduzione – anche se questo è invece, ancora una volta, mutuato dalla logica del male gaze.

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La notte

Prima di essere ammansita dallo stereotipo, però, la tristezza di alcuni dei personaggi di Monica Vitti ha espresso un sentimento ancora estremamente attuale: la paura di scivolare passivamente lungo la propria vita senza impulsi o prospettive, attraversando la distopia collettiva di un mondo al collasso – dal punto di vista politico, climatico, sociale –, con la sensazione viscerale di essersi svegliati in una linea temporale alternativa, e la consapevolezza profonda, fisica, inevitabile, che ci sia qualcosa che non va, ma senza avere la minima idea di come rimettere le cose a posto. La stessa consapevolezza che, qualche anno dopo, farà dire alla Giuliana di Deserto rosso, personaggio interpretato ancora da Monica Vitti in un’altra opera immensa di Antonioni: “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è”. La differenza, rispetto agli anni Sessanta, è che ora sappiamo fin troppo bene di che si tratta: è la percezione di un mondo al crepuscolo, e la coscienza di farne parte, nonostante tentiamo strenuamente di dissimulare la nostra preoccupazione nei confronti del futuro. Allora, forse, tutte quelle foto di Monica Vitti moltiplicate su internet a sostituire l’identità di tante altre ragazze che, come me, vorrebbero ancora essere lei, anche solo per stereotipo, sono solo in parte una posa estetica. Dall’altra sono invece un tentativo goffo di dire, in un presente in cui riesce difficile non essere tristi almeno un po’, che sarebbe bello farlo almeno assomigliando a lei.

Autore

Federica Bortoluzzi

Nata nel 1997 in una casa dove la televisione era praticamente un oggetto proibito. Lavorarci, oggi, le sembra quasi un gesto di ribellione. Ha iniziato a scrivere i primi pezzi sul cinema mentre frequentava la facoltà di filosofia, dopo un incontro fortuito con Inseparabili di Cronenberg. Oltre a Film Tv, collabora con varie riviste online tra cui The Vision.

Donne diversamente tristi

locandina L'avventura

L'avventura

Drammatico - Italia/Francia 1960 - durata 140’

Regia: Michelangelo Antonioni

Con Gabriele Ferzetti, Monica Vitti, Lea Massari, Dominique Blanchar, Esmeralda Ruspoli

in streaming: su Raro Video Amazon Channel Rakuten TV Amazon Video

Se vuoi completare la “Trilogia dell’Incomunicabilità” di Antonioni, scoprendo altri due straordinari personaggi drammatici interpretati da Monica Vitti, recupera L’avventura e L’eclisse (vedi sotto), entrambi concentrati sul tema dell’infelicità borghese.
locandina L'eclisse

L'eclisse

Drammatico - Italia 1962 - durata 123’

Regia: Michelangelo Antonioni

Con Monica Vitti, Alain Delon, Francisco Rabal, Lilla Brignone, Louis Seigner, Rossana Rory

locandina Il giardino delle vergini suicide

Il giardino delle vergini suicide

Drammatico - USA 1999 - durata 95’

Titolo originale: The Virgin Suicides

Regia: Sofia Coppola

Con Danny DeVito, James Woods, Kirsten Dunst, Kathleen Turner, Josh Hartnett

Al cinema: Uscita in Italia il 06/05/2024

in streaming: su Netflix Basic Ads Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Amazon Video Netflix

Se vuoi vedere un film che ha nutrito l’archetipo della tristezza femminile, creandone la versione glamour che ha invaso la cultura di internet, recupera Il giardino della vergini suicide di Sofia Coppola.
locandina Pietà

Pietà

Drammatico - Corea del Sud 2012 - durata 104’

Titolo originale: Pieta

Regia: Kim Ki-duk

Con Lee Jeong-jin, Jo Min-soo, Kim Jae-Rok, Jin Yong-Ok, Eunjin Kang

Al cinema: Uscita in Italia il 14/09/2012

in streaming: su Apple TV Chili

Se vuoi vedere un film dove la rappresentazione della disperazione femminile esce da ogni stereotipo, esprimendosi con la massima intensità e crudezza, fino all’abbrutimento, ti consigliamo Pietà del regista sudcoreano Kim Ki-Duk.