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Venne dal freddo

1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Venne dal freddo

di mck
5 stelle

“I russi, i russi, gli americani: no lacrime, non fermarti fino a domani”, ovvero: quest’odeporico “Go West!” m’ha fatto torcere il niffolo: guilty pleasure molto guilty ("La locura, René!") e poco pleasure.

 

 

Sono una persona/spettatore semplice: esce una serie con Margarita Levieva (“the Deuce”) come protagonista e io me la puppo comunque tutta, anche se il concetto base alla fine è che la russia è il male organizzato - da Mosca (e dalla Siberia) verso una pista di pattinaggio su ghiaccio in un palazzetto dello sport a (Valdemoro, vicino) Madrid - mentre i fascisti sono solo dei fottuto ritardati mentali agglomerati in groppuscoli fuoriusciti allo sbaraglio (salvo poi, con un colpo di coda, “ribaltare” l’assunto reiterato sino allo sfinimento con un’ultima scena che evidentemente - non è uno spoiler - è lì proprio a dimostrarlo quando, tutto ad un tratto, ecco che la tagline diventa: “In from the Cold”, ovvero: esistono anche russi buoni…).

 

 

Il fatto/punto è che se “In from the Cold” – che non è manco lontanamente “Killing Eve” (la casa di Villanelle a Barcellona, etc...), e anzi è più una roba - per rimanere in terra iberica - tipo il fiacco “Vantage Point” (Salamanca) e lo spento “the Rhythm Section” (ancora, se pur solo in parte, Madrid), o le location in Costa Blanca di “the Cold Light of the Day”, anche se poi la Spagna non è che abbia sempre avuto un cattivo rapporto col controspionaggio spy-fantasy-action ammeregano in trasferta, anzi: basti pensare - per aggirarsi sull’ultimamente, declinato metafisico e metacinematografico - a “the Limits of Control”: da Madrid al Deserto di Tabernas, passando per Siviglia e attraversando tutta l’Andalusia – fosse il remake o il reboot di un prodotto seriale a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio dei ‘90, tanto varrebbe scansare la copia e ripescarsi l’originale, perché a quell’immaginario (mi riferisco ad esempio all’assurda didascalicità dei dialoghi - aka: spiegoni – in molti punti nodali del racconto) la serie thriller-spionistica tagata Netflix (ma sembra l’ABC o la CBS) è rimasta legata/ancorata, e d’altronde il suo creatore, Adam Glass, qui al suo debutto come demuirgo/showrunner, prima di questo esordio da solista aveva partecipato a robetta/robaccia come “Cold Case”, “SuperNatural” e “Criminal Minds”: insomma, siamo ritornati a “the Six Million Dollar Man”, “Magnum, P.I.”, “Manimal”, “Knight Rider”, “A-Team” e “MacGyver”, o, meglio, alla loro versione aggiornata, ma pur sempre naïf… senza il coraggio ("La locura, René!") di esserlo sino in fondo, “compiutamente”. No, l’essenza del discorso è che “In from the Cold” si presenta come, e via via e man mano e passo dopo passo si conferma esserlo, la versione “a tubo catodico” di “the Americans” (o financo di “HomeLand”) e, per dire, sta a loro tanto quanto “Person of Interest” sta a “Mr. Robot”: gioca nello stesso campionato di “X-Files”, “Alias”, “C.S.I.” e “24”, non certo di “Black Earth Rising” con Michaela Coel o “the Little Drummer Girl” di Park Chan-wook (da le Carré). Spettatore avvisato…

 


Alla regìa dei primi due episodi degli otto totali c’è Ami Canaan Mann (“Texas Killing Fields”), mentre i restanti sei se li dividono, sempre a blocchi di due, Daniel Calparsoro, Paco Cabezas e Birgitte Stærmose. Musiche di Tori Letzler.

 


Accanto a Margarita Levieva chiudono il cast le brave Lydia Fleming (in un ruolo principale) e Anastasia Martin (in un ruolo secondario), “il vitello dai piedi di balsa, inventore di una storia falsa” (e dall’espressione non molto sveglia) Cillian O’Sullivan, oltre ad Alyona Khmelnitskaya, Charles Brice, José Luis García Pérez e Astrid Jones, e soprattutto Stasya Miloslavskaya, lei sì un’autentica Villanelle a tutti gli effetti. 

 

 

Abbandonando al suo destino (anche se il già accennato cliffhanger finale qualche stimolo lo lascia) “In from the Cold”, per ch’invece - e me per primo - volesse vivere un’ottima (a prescindere) spy story si butti pure (e ovviamente) su “SilverView”, l’ultimo - postumo - John le Carré (1931-2020), prossimamente edito da Mondadori con la traduzione di Silvia Pareschi.

 

 

“I russi, i russi, gli americani: no lacrime, non fermarti fino a domani”, ovvero: quest’odeporico “Go West!” m’ha fatto torcere il niffolo: guilty pleasure molto guilty e poco pleasure.

* * ½/¾ - 5.25     

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