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Nodo alla gola

Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film

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La recensione su Nodo alla gola

di Letiv88
8 stelle

Un film teso, claustrofobico e spietato. Un gioco di intelligenza e follia.

Con Nodo alla gola (1948) Hitchcock mette in scena un esperimento radicale: un film che si svolge in tempo reale, dentro un unico appartamento, girato come se fosse un piano sequenza ininterrotto. È il suo primo film a colori e uno dei più audaci della sua carriera. Più che un giallo, è un gioco di tensione filosofica, dove la macchina da presa diventa un ospite invisibile che costringe lo spettatore a restare nella stanza insieme agli assassini.

Brandon (John Dall) e Phillip (Farley Granger), due giovani benestanti di New York ed ex allievi del professor Rupert, strangolano a sangue freddo il loro amico David (Dick Hogan). Non lo fanno per odio o vendetta, ma per dimostrare la loro superiorità intellettuale: l’omicidio come “atto perfetto”, privilegio riservato agli uomini eccezionali. Per arroganza, decidono di nascondere il corpo in una cassapanca e organizzare una cena proprio lì, con gli invitati più scomodi possibili: i genitori di David, la fidanzata Janet (Joan Chandler) e soprattutto lo stesso Rupert Cadell (James Stewart), che in passato aveva sostenuto teorie provocatorie sul diritto dei forti di dominare sui deboli. La serata diventa un campo minato di allusioni, nervi a pezzi e giochi psicologici sempre più pericolosi

Hitchcock gira il film come un esperimento claustrofobico: dieci lunghe bobine cucite insieme con tagli nascosti dietro oggetti o attori, per dare l’illusione di un unico piano sequenza. La macchina da presa si muove senza tregua tra i personaggi, seguendo sguardi, mani e silenzi, senza mai concedere respiro. La finestra sullo sfondo, con la skyline di New York che cambia luce dal giorno alla notte, scandisce il tempo e amplifica la tensione. È un esercizio di stile? Sì. Ma anche un modo per farci sentire prigionieri, complici della follia dei due ragazzi.

Il film nasce dalla pièce Rope di Patrick Hamilton, ispirata al celebre caso Leopold e LoebArthur Laurents adatta il testo teatrale mantenendo l’unità di luogo e tempo, spostando il baricentro sul conflitto filosofico: l’omicidio non come mistero da risolvere, ma come provocazione intellettuale. I dialoghi sono lama pura: battute brillanti che diventano indizi, conversazioni mondane che nascondono un fondo di morte. Il vero nodo è il confine tra teoria e realtà, tra l’idea di onnipotenza e la fragilità umana.

James Stewart offre un’interpretazione inedita, lontana dall’eroe rassicurante: il suo Rupert è un professore brillante e disincantato, costretto a confrontarsi con il peso delle proprie teorie. John Dall, glaciale e arrogante, dà a Brandon la precisione di un manipolatore spietato, mentre Farley Granger costruisce un Phillip fragile e nevrotico, un continuo detonatore di tensione. Joan Chandler (Janet) introduce leggerezza e normalità, in netto contrasto con l’ambiguità dominante, e Cedric Hardwicke conferisce autorevolezza e gravità nel ruolo del padre della vittima. Un cast perfettamente calibrato, capace di sostenere un impianto teatrale fatto di dialoghi serrati e lunghi confronti psicologici.

Il set era una macchina da guerra: le pareti erano montate su rotaie per permettere i movimenti di macchina, mentre i tecnici spostavano oggetti in silenzio durante le riprese.

Alfred Hitchcock fa le sue consuete comparsate nel film: la prima, subito dopo i titoli di testa, lo mostra mentre cammina lungo la strada in compagnia di una donna; la seconda, più sottile, appare sotto forma di un’insegna al neon lampeggiante sullo sfondo mentre Kenneth e Janet stanno per andarsene dall’appartamento, richiamando un suo precedente cameo nel film Prigionieri dell’oceano (1944).

Il film prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto: il caso di Nathan Leopold e Richard Loeb, due studenti di Chicago che nel 1924 rapirono e uccisero il quattordicenne Bobby Franks, convinti di poter commettere il “delitto perfetto”. Si consideravano intellettualmente superiori e vedevano l’omicidio come una dimostrazione della loro presunta grandezza. La loro relazione era omosessuale, una sfumatura che rafforza il parallelo con Brandon e Phillip. Il processo suscitò grande scalpore e influenzò la cultura americana, ispirando la pièce Rope di Patrick Hamilton e il film di Hitchcock.

All’epoca, il cinema statunitense era regolato dal Codice Hays, che vietava rappresentazioni di omosessualità, violenza esplicita, atti criminali eroizzati e nudi. Questo spiega perché certe sfumature psicologiche e tensioni tra Brandon e Phillip fossero smussate o censurate nel doppiaggio italiano. In originale, Hitchcock utilizza il sottotesto queer e la dinamica manipolativa dei protagonisti per creare tensione e riflettere sul confine tra teoria e realtà.

Nodo alla gola è cinema da camera, claustrofobico e spietato. Hitchcock toglie il respiro, riduce lo spazio e ti costringe a condividere la cena più macabra della storia del cinema. Non ci sono inseguimenti o colpi di scena spettacolari, ma la tensione cresce in modo implacabile fino a diventare soffocante. È un film che divide, ma resta un tassello fondamentale per capire quanto Hitchcock fosse disposto a rischiare per trasformare un’idea tecnica in un’esperienza psicologica.

 

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