Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
Bugonia è un esperimento riuscito solo in parte: freddo, disturbante, affascinante nelle idee ma meno incisivo nell’emozione. Un film che ipnotizza più che coinvolgere, dove la perfezione formale prevale sull’empatia.

Yorgos Lanthimos torna dopo il trionfo di Povere Creature! (2023) con un progetto che spiazza e divide. Bugonia (2025), presentato all’82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è il remake del sudcoreano Save the Green Planet! (Jigureul jikyeora!, 2003) di Jang Joon-hwan, una storia allegorica di natura, violenza e fanatismo. Lanthimos ne rielabora completamente il linguaggio, trasformandolo in un dramma satirico e disturbante che parla del presente: la crisi ecologica, l’ipocrisia del potere e l’illusione di poter salvare il mondo distruggendolo. È un film più concettuale che emotivo, gelido e pungente, che lascia addosso un senso di disorientamento lucido.
Michelle Fuller (Emma Stone), CEO dell’azienda farmaceutica Auxolith, viene rapita dal teorico della cospirazione Teddy Gatz (Jesse Plemons) e dal suo cugino neurodivergente Don (Aidan Delbis), e tenuta prigioniera nel seminterrato della casa che i due condividono. Teddy è convinto che Michelle faccia parte di una specie aliena invasiva, gli “Andromedani”, e rappresenti una minaccia per il pianeta. Progettando di usarla come strumento di contrattazione per esigere dagli alieni di lasciare la Terra, Teddy e Don le rasano la testa per impedirle di comunicare con la sua astronave madre. Michelle si risveglia confusa e inorridita dalle convinzioni di Teddy. Cerca di contrattare, minacciare e poi assecondare Teddy per placarlo, ma lui non le crede e le spiega che ha quattro giorni per confessare, prima di un’imminente eclissi lunare che permetterebbe all’astronave madre Andromedana di entrare nell’atmosfera terrestre senza essere individuata. I flashback rivelano che la madre di Teddy, Sandy (Alicia Silverstone), è stata una cavia per uno dei farmaci di Auxolith, che l’ha lasciata in coma.

Lanthimos consolida il suo stile distintivo, ma in Bugonia lo porta a un livello di controllo ancora maggiore rispetto a The Lobster (2015) e Povere Creature! (2023). Il regista utilizza grandangoli estremi e prospettive deformate per generare una percezione di distorsione costante, rendendo visibili gli squilibri psicologici dei personaggi. Rispetto al surrealismo emotivo di The Lobster, qui la freddezza è più severa e geometrica, richiamando la claustrofobia di Dogtooth (2009), ma inserendo maggiori elementi grotteschi e satirici, che rendono la visione più disturbante.
I silenzi e i gesti dei personaggi non sono casuali: ogni pausa e ogni micro-espressione hanno funzione narrativa, creando tensione e straniamento. Sono strumenti ricorrenti nel cinema di Lanthimos per sottolineare la distanza tra spettatore e personaggi. Il distacco emotivo serve a far emergere la follia dei comportamenti umani e il paradosso della responsabilità morale. La fotografia dai toni terrosi aumenta il senso di isolamento, mentre la colonna sonora minimale e i disturbi sonori calibrati amplificano la tensione mentale. Ogni elemento visivo e sonoro rafforza l’alienazione e la follia condivisa.

La sceneggiatura di Will Tracy si concentra sulla psicologia dei personaggi e sul loro significato simbolico. Teddy è ossessionato dalle teorie complottiste, convinto che Michelle, CEO di una multinazionale farmaceutica, sia un’aliena invasiva; la sua ossessione fonde paranoia, idealismo e visione estrema di giustizia ambientale. Michelle rappresenta il potere corporativo e la responsabilità del progresso umano: immobile e sottoposta al rapimento, diventa simbolo della distanza tra chi detiene il controllo e le conseguenze delle proprie azioni sul mondo.
Don, cugino di Teddy, accompagna passivamente il rapimento, osservando e partecipando ai rituali senza condividere pienamente le convinzioni di Teddy, accentuando il senso di alienazione e controllo. I dialoghi sono essenziali, taglienti e stranianti; silenzi e gesti calibrati costruiscono tensione e grottesco. Il simbolismo delle api e degli alieni sottolinea cicli di autodistruzione e illusioni di controllo umano, senza spiegazioni dirette, lasciando allo spettatore la responsabilità di interpretare la vicenda.

Emma Stone domina la scena, glaciale e ambigua, incarnando la distanza tra il potere corporativo e le conseguenze delle proprie azioni. Non è nuova all’universo di Lanthimos: dopo La Favorita (2018), Povere creature! (2023) e Kinds of Kindness (2024), conferma ancora una volta la sua straordinaria capacità di fondersi con la visione disturbante e simbolica del regista. In Michelle porta un controllo assoluto, una freddezza quasi disumana, che diventa il volto stesso del potere e dell’alienazione. Michelle non è semplicemente vittima del rapimento: la sua calma glaciale la trasforma in un simbolo della distanza tra chi comanda e chi subisce.
Jesse Plemons, anche lui già protagonista in Kinds of Kindness (2024), costruisce Teddy con ossessione e paranoia, ma anche con una vulnerabilità che ne rivela le contraddizioni interiori. Ogni suo gesto è guidato da convinzioni estreme, e dietro la sua determinazione si intravedono le crepe di un uomo divorato da un ideale che lo sta distruggendo. Al suo fianco, Don (Aidan Delbis) accompagna il cugino con un atteggiamento ambiguo, quasi sospeso, amplificando il senso di tensione e stranezza senza mai condividere davvero le sue ossessioni. Alicia Silverstone, nel ruolo di Sandy, madre di Teddy, ha poche scene ma un peso enorme: il trauma legato al trattamento sperimentale subito in passato diventa la radice delle ossessioni del figlio. È una presenza silenziosa ma decisiva, che permette di comprendere la psicologia e la deriva ideologica di Teddy.
Lanthimos dirige il cast come un ingranaggio teatrale perfettamente orchestrato: ogni gesto, ogni pausa, ogni sguardo sono calibrati per costruire tensione e straniamento. Il distacco emotivo diventa strumento narrativo, alimentando quel grottesco tipico del suo cinema, dove la realtà è sempre un passo oltre il plausibile.

Bugonia prende spunto dal film sudcoreano Save the Green Planet! (Jigureul jikyeora!, 2003) di Jang Joon-hwan; Lanthimos ne conserva il nucleo grottesco ma lo depura: abbandona la frenesia e il caos tonale dell’originale per trasformarlo in un grottesco freddo, simbolico e controllato — una riflessione glaciale su follia, ossessione e bisogno umano di controllo.

Il titolo stesso, Bugonia, non è casuale: trae origine dalle Georgiche di Virgilio (Libro IV, 528-558), dove si racconta che dalle carcasse degli animali morti nasce uno sciame di api. Questo mito descrive un ciclo di morte e rinascita, in cui la fine genera inevitabilmente un nuovo inizio, concetto che Lanthimos trasferisce nel film come metafora dell’autodistruzione e della ricorsività delle azioni umane. Le api, simbolo di ordine, comunità e produzione, diventano allegoria della follia e dell’ossessione dei personaggi: dalle azioni estreme di Teddy e Don nascono conseguenze imprevedibili e cicliche, proprio come nello sciame che emerge dalla morte. Gli “Andromedani” percepiti, così come le api del mito, incarnano un nemico invisibile, la proiezione del bisogno di controllo e del terrore del caos. Un concetto che trova pieno compimento nella visione pessimista del finale, dove l’idea di rinascita si confonde con la condanna a ripetere gli stessi errori, chiudendo il cerchio di un film che parla di distruzione, speranza e controllo come facce della stessa illusione.
Bugonia non offre consolazioni. Lanthimos firma un film glaciale e lucido, una parabola sull’autodistruzione umana e sull’ossessione di controllo che soffoca ogni empatia. Il pessimismo domina, ma non è sterile: riflette una civiltà che confonde realtà e delirio, scienza e convinzioni assolute. Il finale, coerente con il tono dell’opera, lascia una sensazione di inquietudine persistente. È cinema d’autore rigoroso, simbolico e disturbante, che osserva l’uomo senza indulgenza, mettendo in luce quanto la fede cieca nelle proprie convinzioni possa diventare distruttiva.
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