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Frankenstein

Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film

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La recensione su Frankenstein

di Letiv88
7 stelle

Del Toro firma un Frankenstein sontuoso e profondamente personale, costruito con devozione e rigore. Un film che ammalia per la forma e per la visione, ma che lascia il cuore un passo indietro.

C’era da aspettarselo: prima o poi Guillermo del Toro avrebbe dato forma al suo sogno più ossessivo, quello di riportare in vita Frankenstein. Un progetto inseguito per decenni, accarezzato, riscritto e rinviato mille volte, fino a concretizzarsi in questa nuova versione, presentata in anteprima mondiale in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, passata per poche sale selezionate (in Italia con Lucky Red dal 22 ottobre) e approdata infine su Netflix il 7 novembre 2025, portando sullo schermo l’opera che il regista sognava da una vita.

Il risultato? Un film visivamente maestoso, gotico fino al midollo, dove l’amore per la creatura di Mary Shelley esplode in ogni inquadratura, ma non riesce a colpire al cuore quanto dovrebbe. Del Toro mette il cuore, la mano e tutta la sua sensibilità nel racconto, ma il suo Frankenstein è più un poema visivo che un colpo all’anima.

In una Londra cupa e spettrale, il dottor Victor Frankenstein (Oscar Isaac), spinto da un’ossessione divina, tenta l’impossibile: creare la vita dalla morte. La sua creatura (Jacob Elordi) nasce fragile, confusa, assetata d’amore e rifiutata dal mondo ancor prima di capire chi sia. Attorno a loro ruota un’umanità corrotta, fatta di uomini che giocano a essere Dio e finiscono travolti dalle proprie ambizioni. La figura femminile di Elizabeth (Mia Goth) diventa l’unico spiraglio di empatia in un universo dominato dal dolore e dal peccato. Del Toro rispetta la radice del romanzo, ma la piega alla sua poetica: la mostruosità non è nella carne cucita, ma nello sguardo dell’uomo che giudica.

Guillermo del Toro trasforma il mito in una fiaba gotica colma di malinconia e rigore visivo. Ogni inquadratura è un dipinto, ogni movimento di macchina è misurato come in una partitura. Con la fotografia di Dan Laustsen, già collaboratore di Del Toro in Crimson Peak (2015)La forma dell’acqua (2017) e La fiera delle illusioni – Nightmare Alley (2021) il regista costruisce un mondo fisico, denso, fatto di ombre, polvere e luce filtrata. Ogni ambiente — dal laboratorio alle vie di Londra — è stato costruito realmente, perché Del Toro rifiuta l’artificio digitale e pretende che tutto si possa toccare. È cinema d’artigianato, come non se ne vede più.

Il film si apre con un’indicazione precisa: Parte Uno – Il racconto di Victor, seguita da Parte Due – Il racconto della Creatura. Non è una scelta estetica, ma strutturale: Del Toro riprende la costruzione a specchio del romanzo di Mary Shelley, dove la verità si forma dall’alternanza delle voci. La prima parte è dominata dall’ambizione e dall’orgoglio del creatore: la regia diventa geometrica, fredda, immersa in luci taglienti e ambienti simmetrici. Nella seconda, la macchina da presa cambia linguaggio, si abbassa, respira, si avvicina alla natura e al volto della Creatura. È il passaggio dall’artificio alla vita, dall’ossessione alla compassione.

Fin dai suoi esordi, Del Toro ha raccontato l’incontro tra innocenza e mostruosità, elevando le creature a figure sacre e gli uomini a peccatori. In Il labirinto del fauno (2006) la bambina fuggiva all’orrore umano rifugiandosi nel mito; in La forma dell’acqua (2017) l’amore nasceva tra una donna muta e una creatura anfibia; in Crimson Peak (2015) il gotico diventava una storia di fantasmi interiori. Frankenstein raccoglie tutti questi fili e li intreccia in modo definitivo: la creatura è l’anima che chiede pietà, Victor è l’uomo che la rifiuta.

Il tono resta romantico e funereo, coerente con la tradizione gotica che il regista ama. In questo dialoga apertamente con la lunga storia del mito, assorbendo suggestioni che vanno dal laboratorio sacro del Frankenstein (1931) di James Whale all’eleganza decadente del gotico inglese fino al romanticismo febbrile di Branagh. Ma Del Toro non replica: trasforma tutto in una grazia dolente, più simile a un sogno che a un omaggio. La sua macchina da presa guarda i mostri come figure sacre, non come aberrazioni. È un cinema della compassione, costruito sul silenzio, sulla lentezza, sul respiro. Il film è sontuoso ma contenuto: preferisce il sussurro all’urlo, la contemplazione alla ferita.

Scritta da Del Toro, la storia adatta Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley, rispettandone la filosofia e aggiornandola alla contemporaneità. Il dottor Frankenstein diventa il simbolo di un’umanità che non accetta i propri limiti, un “creatore tecnologico” ante litteram che gioca a fare Dio. Lo stesso regista ha paragonato il suo Victor ai geni moderni della scienza e dell’innovazione che “creano senza chiedersi se dovrebbero”.

Il linguaggio scelto da Del Toro è solenne, volutamente fuori dal tempo. I dialoghi si muovono come canti o confessioni, pieni di silenzi e parole pesate, più simili a preghiere che a conversazioni. La sceneggiatura si appoggia a un registro quasi teatrale, fedele alla tradizione gotica ma filtrata dalla sensibilità moderna del regista. Ogni frase risuona come un frammento di mito, ogni pausa diventa uno spazio per il dolore.

Pur mantenendo un tono letterario, Del Toro dosa l’intimità con la riflessione morale: il suo Frankenstein non è un racconto sull’orrore, ma sulla colpa e sulla compassione. La scrittura mantiene un registro alto, a tratti ridondante, e rallenta nei passaggi centrali, ma resta coerente con il suo autore: l’orrore non sta nella mostruosità, bensì nella mancanza di empatia. In fondo, è una parabola sull’amore negato: l’uomo che crea senza capire e la creatura che ama senza essere accettata.

 

Oscar Isaac costruisce un Victor Frankenstein tormentato e umano, un uomo che crea non per gloria ma per disperazione. La sua follia non esplode mai: rimane sotto pelle, compressa nello sguardo e nei silenzi. Nel confronto con la Creatura emerge tutta la sua fragilità, quella di un dio che si accorge di aver perso la fede. Jacob Elordi, nella parte della Creatura, è la vera rivelazione. Non è un mostro urlante, ma un essere vulnerabile e poetico. Del Toro lo ha voluto alto, elegante, quasi androgino, con un volto che porta addosso la bellezza del dolore. Elordi ha raccontato di essersi ispirato al suo cane per costruire la fisicità della Creatura: “come un bambino che non parla ma dice tutto con il corpo”. Per dar vita al personaggio ha affrontato lunghe sessioni prostetiche e un training fisico ispirato alla danza but?, lavorando sul contrasto tra rigidità e grazia, tra corpo e anima. Rispetto ai Frankenstein del passato – dal titanico Karloff al tormentato De Niro – il suo è un essere fragile, empatico, da comprendere più che da temere.
Il suo è un Frankenstein da amare, non da temere.

Mia Goth interpreta Lady Elizabeth Harlander, promessa sposa di William Frankenstein (Felix Kammerer), fratello minore di Victor, per il quale quest’ultimo nutre sentimenti contrastanti. La Goth appare anche nel ruolo della Baronessa Claire Frankenstein, la madre defunta di Victor. Due presenze speculari che incarnano amore e perdita, desiderio e colpa: la Goth si muove come un fantasma fragile e materno, bilanciando la freddezza degli uomini. Christoph Waltz dà vita a Henrich Harlander, zio di Lady Elizabeth e magnate delle armi che finanzia gli esperimenti di Victor. Non è un semplice antagonista, ma il motore economico e morale della tragedia: un uomo che compra la scienza e la piega al potere. Con la sua calma velenosa e la lucida complicità, Waltz incarna l’avidità di un mondo che trasforma la creazione in merce e il genio in strumento.

Ralph Ineson, nel ruolo del professor Krempe, porta sullo schermo l’arroganza del sapere accademico. È l’insegnante che deride le ambizioni di Victor e incarna la scienza ortodossa che teme l’intuizione e rifiuta la follia del genio. La sua voce cavernosa e la presenza austera aggiungono un peso simbolico a ogni scena, rendendolo una delle presenze più incisive tra i personaggi minori.

Charles Dance interpreta il barone Leopold Frankenstein, padre di Victor: autoritario, distante, incarnazione del dovere e del peso del nome di famiglia. David Bradley è invece l’uomo cieco, figura di pura umanità che la Creatura incontra nel suo cammino: il primo sguardo non giudicante del film, che rivela la compassione negata dal mondo.
Infine, Lars Mikkelsen dà volto al capitano Anderson, colui che trova Victor nell’Artico, aprendo e chiudendo il racconto in un cerchio tragico e glaciale. Tre presenze brevi ma significative, che chiudono il mosaico morale costruito da Del Toro: fede, conoscenza e colpa che circondano la tragedia dell’uomo che osa sostituirsi a Dio.

 

La colonna sonora di Alexandre Desplat si intreccia perfettamente con le interpretazioni, amplificando la malinconia del racconto con un’orchestrazione dolente e misurata. Il compositore francese, già al fianco di Del Toro in La forma dell’acqua (2017) e Pinocchio (2022), ritrova qui la stessa sensibilità lirica che contraddistingue il regista. “Il cinema di Guillermo è molto lirico, e anche la mia musica lo è”, ha dichiarato Desplat.
Il risultato è un canto sommesso che accompagna la Creatura come una preghiera: una musica che non spaventa, ma consola, trasformando il dolore in pietà. È la voce invisibile del film, quella che unisce la tragedia di Victor alla purezza del suo mostro.

Già nel 2007, Del Toro aveva espresso il desiderio di portare sullo schermo Frankenstein, ma il progetto rimase a lungo un sogno irrealizzato. Solo nel 2023, dopo il successo di Pinocchio (2022)Netflix gli ha concesso piena libertà artistica. Girato tra Canada e Regno Unito, da febbraio a settembre 2024, il film restituisce un mondo umido, terroso e palpabile, costruito con set reali e senza artifici digitali.

Del Toro rilegge il mito dialogando con un secolo di cinema: da James Whale eredita la pietà (Frankenstein, 1931 – La sposa di Frankenstein, 1935); dalla Hammer di Terence Fisher e Peter Cushing il conflitto morale; da Branagh (Frankenstein di Mary Shelley, 1994) la devozione al romanzo, ma spogliata dell’enfasi barocca. Al contrario, evita la parodia di Mel Brooks (Frankenstein Junior, 1974) e l’eccesso carnale di Morrissey / Warhol (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein, 1973), scegliendo la via della tenerezza e della compassione. Echi visivi emergono anche dal Dracula (1992) di Coppola e dal Frankenstein teatrale di Danny Boyle (2011), mentre fuori dal genere le influenze dichiarate includono Rebecca, la prima moglie (1940) di Hitchcock, La voce nella tempesta (1939) di Wyler, Il castello di Dragonwyck (1946) di Mankiewicz e Il segreto del castello (1947) di Charles Frank. Durante un evento Netflix a Los Angeles, i primi frammenti del film furono accompagnati dalla musica di Wojciech Kilar per il Dracula di Coppola (1992), chiaro segnale del legame spirituale tra le due opere.

In questo intreccio di suggestioni e rimandi, Frankenstein diventa per Del Toro molto più di un film: una confessione personale.

“Sono cresciuto cattolico, ma non ho mai capito i santi finché non ho visto Boris Karloff. Nei suoi lineamenti ho riconosciuto un messia ferito.” Con queste parole Del Toro definisce il suo Frankenstein come un atto di fede: un film che trasforma il mostro in figura sacra, l’innocenza crocifissa dallo sguardo dell’uomo.

Del Toro realizza il film della sua vita, un atto d’amore verso il mito, verso il cinema e verso la fragilità che ci rende umani. Un film sontuoso e coerente con la sua poetica, ma privo di quella ferita emotiva che lo avrebbe reso indimenticabile. Lo ammiri più di quanto lo senti, ma resta un capitolo importante nel lungo viaggio del mostro che ci somiglia più di quanto vorremmo. Chiude il cerchio? Forse sì. Ma la domanda resta: serviva davvero un nuovo Frankenstein? Forse sì, se a raccontarlo è un autore che ne fa una confessione personale più che un omaggio. Del Toro non cerca di reinventare il mito: lo accarezza, lo purifica, lo rende umano. E in questo, forse, trova la sua giustificazione più profonda.

Frankenstein (2025): Trailer ufficiale italiano

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