Regia di Thomas Cailley vedi scheda film
La ridefinizione del concetto stesso di umanità, messa muso a muso con qualcosa che si può definire ancora umano ma che non lo è già più, scivolato com'è tra le imprevedibili metamorfosi del soma verso qualcosa che serba in seno sparuti affetti di una vita remota ma è irresistibilmente attratto verso il folto della selva.
La ricerca della moglie scomparsa nel bosco è l'occasione per Francois di rinsaldare il rapporto col figlio, un adolescente ribelle e volitivo costretto a seguirlo nelle sue peregrinazioni di cuoco nel sud della Francia. Quando anche quest'ultimo inizia a mostrare i segni delle mutazioni genetiche che affliggono la madre ed una parte del genere umano, trasformando gli uomini in strani ibridi di altre specie animali destinate alla cattività di ospedali e centri di reclusione, l'uomo dovrà proteggerlo da un pericolo ancora più grande e incombente.
The Animal Kingdom (2023): locandina
Mamma bradipo, figlio lupo.
A qualche anno di distanza dall'esordio con il sorprendente Les Combattants, a suo modo un'altra storia di formazione e di solidarietà sotto il segno di Ares, Thomas Cailley torna con questo curioso apologo fanta-ecologico, che si rivela però molto distante dalle speculazioni scientiste che hanno reso, per dire, molto popolari i romanzi ed i temi come quelli della Trilogia dell'Area X di Jeff VanderMeer. Al di là di una declinazione di genere che sembra ricapitolare nella forma e negli assunti, molti blockbusters distopici degli ultimi decenni, tra orde di mutanti che hanno invaso la Terra e catastrofi apocalittiche che ne hanno stravolto la faccia, spesso risolti nell'asserragliarsi dei sopravvissuti nel fortino di roccaforti sempre più isolate, qui l'accento è piuttosto rivolto alla trasformazione delle relazioni umane, poste di fronte ad una realtà che più che ridefinire il concetto di specie, minaccia soprattutto quello di umanità, come sistema di valori in cui riconoscersi diversi dal resto della natura, pur prendendone parte come taxon indiscutibilmente dominante. Le conseguenze di questo outbreak pandemico, presentato in media res senza tanti pipponi scientifici (c'è solo un breve dialogo iniziale con la dottoressa, peraltro rimessa a posto dai due interlocutori) è piuttosto quello prospettato in opere come Cecità di Meirelles (da Saramago) o Blade Runner di Ridley Scott (da P.K.Dick): una istituzionalizzazione della diversità come segregazione e medicalizzazione (per Dick intesa come eradicazione); una reazione nel segno della xenofobia che vede la trasformazione del corpo e il suo allontanarsi dagli standard dell'accettabilità sociale come il segno di una irreversibile patologia della specie, di quel malinteso punto di arrivo in cui era da subito stata pervertita la scimmiesca dinamica evolutiva di Homo Sapiens. Ma più ancora di questo aspetto (peraltro già proposto dal curioso Border - Creature di confine di qualche anno fa, ma per dire anche dal Bulgakov di Cuore di Cane, con la dovuta tara della satira ideologica o dal sempre impareggiabile H.G.Wells de L'isola del dottor Moreau), il film del regista francese prefigura la conversione di una patologia in una nuova opportunità, nelle infinite potenzialità trasformative di un progetto genetico in subbuglio, ma soprattutto nella necessaria ridefinizione del concetto stesso di umanità, messa a confronto (letteralmente muso a muso) con qualcosa che si può definire ancora umano ma che non lo è già più, scivolato com'è tra le imprevedibili metamorfosi del soma verso qualcosa che serba in seno sparuti affetti di una vita remota ma è irresistibilmente attratto verso il folto della selva.
Cinque premi Cesar 2024 e in concorso per il premio Un Certain Regard alla 76ª edizione del Festival di Cannes 2023.
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