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Mulholland Drive

Regia di David Lynch vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Mulholland Drive

di Alvy
10 stelle

Quando Billy Wilder, Alfred Hitchcock ed Ingmar Bergman si fondono nell'onirismo di David Lynch, il risultato è garantito: leggendario capolavoro

 

 

Una delle migliori cose che sia mai capitata alla Cultura italiana è stata la fondazione della Cineteca di Bologna, autentico faro nella notte del sonno della ragione che genera mostri quale, purtroppo e troppo spesso, si rivela essere il Bel Paese. La riproposizione di Mulholland Drive, restaurato in 4K da StudioCanal presso il laboratorio Fotokem/Criterion a partire da negativo originale sotto supervisione del regista David Lynch e del direttore della fotografia Peter Deming, in occasione del 20° anniversario dall'uscita, che darà il là anche ad una nuova edizione home video statunitense ed europea in 4K UHD, dà a tutti gli spettatori italiani (un minuto di silenzio per la regione Calabria che non ha annoverato nemmeno una sala coinvolta allo storico evento) la possibilità di tornare a riflettere su un'opera che, nel 2016, il British Broadcasting Corporation Culture Poll ha incoronato 'miglior film del XXI secolo': è bene prendere questa informazione e metterla da parte perché chiunque sia dotato di ragionevolezza è in grado di capire quanto abbia poco senso tributare un simile premio con otto decenni di secolo ancora in fieri. Detto ciò, tale encomio la dice lunga sull'impatto di Mulholland Drive nella storia del cinema e nell'immaginario collettivo di spettatori, critici, analisti. Il fatto stesso che tale iniziativa della Cineteca di Bologna abbia riscosso un grande successo di pubblico a tal punto da rendere possibili, a grande richiesta, ulteriori giorni di programmazione è indicativo dello strapotere immaginifico di quest'opera magistrale da molti, non a torto, ritenuta un'autentica summa della poetica lynchiana. 

 

locandina italiana 2021

Mulholland Drive (2001): locandina italiana 2021

 
Ciò che colpisce nell'avvicinamento ad un'opera titanica che nemmeno pare duri solo 146 minuti è la quantità di riflessioni che essa sia stata in grado di stimolare in pensatori ed accademici anche di formazione molto diversa tra loro: un mare magnum di analisi e svisceramenti - spesso di natura e di conclusioni anche molto diverse tra loro - talmente grande da lasciare storditi. Si è detto, in vent'anni, tutto e il contrario di tutto e qualsiasi recensione si possa stilare non può non prescindere dal porre, quasi come disclaimer iniziale o finale, l'esortazione a non fermarsi ad una univoca interpretazione del testo filmico, bensì a cercane altrealtre e altre ancora. Il nono lungometraggio di David Lynch si aggira nei territori empirei della Gioconda di Leonardo Da Vinci: qualcosa che trascende il campo cui appartiene e che si consegna direttamente alla leggenda.
 
 
Uno dei tanti approcci per poter comprendere un materiale filmico così stratificato consiste nello stabilire una connessione intima tra Mulholland Drive e alcuni capisaldi della storia del cinema: intrecciando le singole comparazioni con questi film sarà, forse, possibile riuscire a districarsi meglio nell'universo lynchiano. Nulla che non sia stato già rilevato da tanti, ma chi scrive, in assenza di capacità personale e titoli di istruzione superiore, non può certamente ambire a superare le profonde e talora contrastanti disamine di accademici e divulgatori ben più preparati
 

Naomi Watts, Laura Harring

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts, Laura Harring

 
Il primo film da prendere in esame è Viale del tramonto, leggendario capolavoro del noir, diretto, nel 1950, da uno dei più grandi geni della cinematografia mondiale, quel Billy Wilder che le nuove generazioni cinefile sembrano puntualmente dimenticare o, quantomeno, trascurare. Risulta particolarmente utile adoperare il titolo originale, cioè Sunset Boulevard. Infatti, Sunset Boulevard è, esattamente come Mulholland Drive, una strada della città di Los Angeles. Aprendo banalmente Google Maps, è molto semplice constatare la fisica vicinanza tra queste due importanti arterie stradali: esse, infatti, distano tra loro 3.1 miglia, ovvero poco meno di 5 km. L'ambientazione, insomma, è la medesima: Los Angeles e, nella fattispecie, Hollywood. Entrambi i film hanno come titolo una nota strada di Hollywood ed entrambi i film sono, logicamente, ambientati ad Hollywood, "La Mecca del Cinema", uno dei luoghi maggiormente identificativi dell'american way of life e, soprattutto, dell'american dream.
 

Erich Von Stroheim, Gloria Swanson, William Holden

Viale del tramonto (1950): Erich Von Stroheim, Gloria Swanson, William Holden

 
Ecco, una parola chiave fondamentale: "dream", "sogno", termine di assoluta rilevanza per il regista David Lynch a partire dai primi cortometraggi giovanili che avrebbe trovato una prima sublime concretizzazione nel lungometraggio Eraserhead - La mente che cancellauno dei film preferiti di un certo Stanley Kubrick e uno dei migliori esordi della storia del cinema, insieme a pochi altri titoli colossali come Quarto Potere di Orson Welles, Ossessione di Luchino Visconti, I quattrocento colpi di François Truffaut, Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Accattone di Pier Paolo Pasolini, I pugni in tasca di Marco Bellocchio e I duellanti di Ridley Scott
 

Jack Nance

Eraserhead (1977): Jack Nance

 
Hollywood è l'incarnazione statunitense del sogno più iperbolico e sfrenato di fama, lusso, gloria che l'industria cinematografica prometta a qualsivoglia persona dotata di talento artistico. La celeberrima Hollywood Sign, non a caso, troneggia in più di una inequivocabile inquadratura in Mulholland Drive, è presente alle spalle delle due protagoniste nella locandina del film e proprio ad Hollywood spera di fare carriera una giovane aspirante attrice di nome Betty Elms (Naomi Watts). Di Hollywood è pervaso in maniera chiarissima anche il capolavoro di Billy Wilder, incentrato sulla figura di Norma Desmond (Gloria Swanson), star del cinema muto caduta in disgrazia che spera di poter rientrare in un ambiente che prima l'ha idolatrata e poi l'ha scaricata. Secondo elemento di contatto tra le due pellicole: il sogno lavorativo di due donne ad Hollywood. Ma, si sa, i sogni sono spesso inganni. E, non a caso, il lemma che, in greco antico, traduce "sogno", cioè "onar" (da cui il corrente "onirico"), ha anche un altro significato: "fantasma", "illusione". Da qui deriva il terzo punto di contatto: i sogni si rivelano, spesso, illusioni dalle quali, se non ci si sveglia in tempo, si rischia di precipitare in veri e propri incubi. Se è vero che Hollywood sia la fabbrica dei sogni, è altrettanto vero che possa trasformarsi, per chi non fosse sufficientemente (o non più come una volta) talentuoso, in una fabbrica degli incubi. In Mulholland Drive, la bionda Betty Elms rivela, fin dall'arrivo in aeroporto a Los Angeles, un atteggiamento infantile, con sorrisi a 32 denti: si illude di poter fare agilmente carriera col sentito ed affidabile appoggio della famiglia, si illude di poter aiutare la sconosciuta mora Rita (Laura Harring) da cui si sente in qualche modo attratta, si illude di possedere talento e perseveranza in sufficienti quantità da garantirle successo e felicità. Specularmente, in Sunset Boulevard, Norma Desmond si illude che il giovane soggettista casualmente imbattutosi nella sua villa-mausoleo, Joe Gillis (il grande William Holden), non solo possa contribuire efficacemente alla revisione del copione di un film su Salomè che la rilancerebbe ma che possa addirittura contraccambiare le sue velleità amorose, viene illusa continuamente dal maggiordomo Max (Erich von Stroheim), ex marito, di ricevere continuamente lettere dai fan che non l'avrebbero mai dimenticata, si illude, nell'amarissimo e struggente finale, di poter tornare a girare col vecchio sodale Cecil B. DeMille (se stesso) a tal punto da pronunciare la leggendaria frase "All right, Mr. DeMille, I'm ready for my close-up": un primo piano che vedranno solo i poliziotti pronti ad arrestarla per l'omicidio di Joe
 

Naomi Watts, Laura Harring

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts, Laura Harring

Gloria Swanson, William Holden

Viale del tramonto (1950): Gloria Swanson, William Holden

 
Tanto il capolavoro di Lynch quanto il capolavoro di Wilder configurano, in tal senso, una critica sottile e ferocissima al mito del divismo, a chi lo fomenta a scopi economici (industria) e a chi lo sostiene perché, secolarizzatesi le società occidentali ed affievolitosi il sentimento religioso istituzionalizzato, necessita di divinità in carne ed ossa da osannare (pubblico). Se il capolavoro di Wilder si focalizza, in particolare, sulla difficoltà o addirittura impossibilità di sopravvivere al proprio culto (ed è estremamente significativa, in tal senso, la scena della partita a carte con Buster Keaton che, nei panni di se stesso, pronuncia un "Pass" dai risvolti extradiegetici commoventi) e sulla folle deriva narcisistica, indotta da industria e pubblico, entrambi ugualmente colpevoli, di poter davvero lasciare un segno personale nella memoria collettiva, il capolavoro di Lynch ne rappresenta quasi un prequel ideale: la possibilità che Norma Desmond ha avuto e che le ha effettivamente dato una transitoria felicità lavorativa ed affettiva non sarà concessa a Betty Elms, le cui velleità artistiche e sentimentali vengono stroncate sul nascere da un provino andato male e da un'infatuazione non sufficientemente contraccambiata. Difficile non vedere nei panni di Betty Elms una giovane e ancor più disgraziata Norma Desmond: nella prima parte di Mulholland Drive, sogna (letteralmente ad occhi aperti e noi spettatori con lei) che ogni sua aspirazione prenda vita ma, quando l'implacabile realtà, impersonata dal Cowboy (Monty Montgomery), ordina di svegliarsi, tutto torna effettivamente ad essere quello che è, cioè un amarissimo cocktail di frustrazione, disillusione e rabbia. Rabbia identitaria (lei è Diane Selwyn, non una fantomatica Betty Elms; la donna di cui è innamorata è Camilla Rhodes, non una fantomatica Rita) che la porterà a compiere gesti di efferata crudeltà come la commissione di un omicidio ad un killer (Mark Pellegrino). In Sunset Boulevard, il medesimo ambiente produce il medesimo sentimento nella protagonista e il medesimo effetto finale sugli eventi. Hollywood, quintessenza della spietata meritocrazia statunitense che premia il talento ma, al tempo stesso, mortifica nell'intimo i non (più) adatti, è il chiaro bersaglio dei due film: nel mezzo secolo che separa le due pellicole, entrambe verosimilmente ambientate ai tempi in cui sono uscite, nulla è cambiato nella società statunitense.
 

Gloria Swanson, William Holden

Viale del tramonto (1950): Gloria Swanson, William Holden

Naomi Watts

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts

 
Lynch prosegue coerentemente un discorso specificamente autoriale e personale incentrato sul disvelamento degli orrori più mostruosi dietro le apparenze più pure, gioviali e belle. Paternità (Eraserhead), istituzioni (The Elephant Man), potere (Dune), famiglia ed innocenza (Velluto BluTwin Peaks), frontiera e libertà (Cuore selvaggio, l'anti-Easy Rider), matrimonio e fedeltà (Strade perdute), ambizione (Mulholland Drive) possono celare ferite malamente tamponate, disagi identitari, crisi irrisolte, acri fragilità. Trattasi di problematiche causate da motivi non solo familiari, cioè privati, ma anche sociali dovuti ai tempi in cui viviamo, e cioè politici nel senso etimologico del termine, che possono essere taciute e messe sotto il tappeto di una civile convivenza rispettabile ma a cui il mondo onirico sarà sempre in grado di porgere un implacabile redde rationem. E, quando l'inconscio diventa conscio, magari in maniera inaspettatamente traumatica, il lato peggiore dell'umano può deflagrare in una spirale di violenza inaudita. La stessa in cui Hollywood, ovvero l'apparenza per antonomasia, ha fatto cadere una vecchia gloria rottamata e dimenticata, Norma Desmond, e una giovane di belle speranze, Diane Selwyn, la quale sperava di nascondere la paura orrorifica di fallimento e povertà (Bonnie Aarons, truccata perfettamente da divenire uno dei miglior jumpscare della storia del cinema) spostandola oniricamente in un estraneo (Patrick Fischler), col suo nome al maschile, Dan, intravisto casualmente in un bar
 

John Gielgud, Anthony Hopkins

The Elephant Man (1980): John Gielgud, Anthony Hopkins

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan

Velluto blu (1986): Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan

Nicolas Cage

Cuore selvaggio (1990): Nicolas Cage

Bill Pullman

Strade perdute (1997): Bill Pullman

 
Cosa sia la violenza, è tristemente noto. Ma è altrettanto noto il concetto di spirale? Una spirale è, come spiega il vocabolario Treccani, "una linea che si avvolge su una superficie cilindrica o conica e, per estensione, qualsiasi elemento o struttura che ne ricordi la disposizione o l'andamento; in senso figurato, designa una serie di avvenimenti e di situazioni che si succedono, in una catena di cause ed effetti, con un ritmo e una intensità sempre crescenti rendendo via via più vasto e grave il fenomeno generale di cui sono manifestazione". Ed è con una serie ripetuta di spirali che si aprono i titoli di testa del secondo film da prendere in esame, Vertigo, leggendario capolavoro di Alfred Hitchcock a cui, a dispetto di tante lamentele oziose e contrariamente a quanto fatto in precedenza, risulta molto più utile riferirsi col titolo italiano: La donna che visse due volte. La magistrale opening title sequence, disegnata da quel Saul Bass che avrebbe segnato indelebilmente questa forma di videoarte di cui si può tranquillamente considerare pioniere, sulle note del magico ed enigmatico Vertigo Theme del gigante Bernard Herrmann, è all'insegna di questa linea avviluppata ossessivamente su stessa che, all'interno dell'occhio destro di una donna misteriosa, cambia continuamente colore e leggermente forma per poi svanire. E' sufficiente esaminare questi tre minuti, una delle prime eccelse forme di animazione computerizzata mai usata in un film, per addentrarsi nel cuore di uno dei più grandi capolavori degli anni Cinquanta (decade particolarmente significativa per David Lynch, da cui spesso, nella sua filmografia, ha ripreso brani d'epoca) e per riuscire contestualmente a sbrogliare efficacemente la matassa Mulholland Drive
 
 
La spirale è la rappresentazione geometrica del tema capitale di La donna che visse due volte: l'ossessione. Scottie Ferguson, interpretato da un gigantesco James Stewart, è talmente ossessionato dal dolore per la morte del collega di cui si sente responsabile da sviluppare una forma di acrofobia, è ossessionato, ben al di là della mera professionalità dell'incarico datogli dall'ex compagno di studi Gavin Elster (Tom Helmore), dagli oscuri comportamenti di Madeleine Elster (Kim Novak) che pedina in macchina in una lunga magistrale sequenza, lodata anche da Martin Scorsese, in cui si avverte solo la musica di Herrmann in sottofondo, è ossessionato dal fantasma (ricorda qualcosa questo termine?) della donna perduta sul campanile che tenta di far rivivere, come in un sogno ad occhi aperti (ricorda qualcosa questo infantile tentativo?), nella misteriosa Judy Barton (sempre Kim Novak), è ossessionato dalla verità dei fatti che lo condurrà nuovamente sul luogo del delitto e al tragico epilogo coerentemente fantasmatico. Scottie è un pazzo, un folle che si illude di dominare eventi dai quali puntualmente è dominato, autentico padre putativo degli antieroi di cui il cinema statunitense degli anni Settanta sarebbe stato un irripetibile cantore. Sir Alfred Hitchcock, precursore di tutto ciò alla fine degli anni Cinquanta, innesta, su questa base, una dialettica filosoficamente metacinematografica. La madre delle ossessioni in cui precipita Scottie, come già Jeff (sempre James Stewart), protagonista di La finestra sul cortile quattro anni prima, è quella dello sguardo. Scottie è uno spettatore, Madeleine/Judy è un'immagine (e il cinema stesso cos'è se non immagine in movimento?). Madeleine stessa ha la piega dei capelli a forma di chignon, eroticamente irresistibili per Scottie nella loro geometrica somiglianza alla spirale dei titoli di testa.
 
 
Su Madeleine che muore per diventare Judy (pur essendo sempre stata Judy sotto mentite spoglie) e morire di nuovo, Scottie proietta desideri e pulsioni personali: vorrebbe, da buon spettatore, che gli eventi seguissero un certo andamento. Ma, come tutti gli spettatori, non ha alcun potere decisionale: può solo assistere ad una finzione che imita la realtà al fine di essere più vera della realtà ma che è e resta una finzione.
 
 
"No Hay Banda / There is no band / It is an illusion": frasi glaciali che risuonano amaramente nella perturbante scena del Club Silencio in Mulholland Drive. Diane Selwyn e Camilla Rhodes assistono estasiate all'esecuzione del brano Llorando, cioè Crying di Roy Orbison in spagnolo, da parte di Rebekah Del Rio salvo poi scoprire che fosse un nastro registrato. Ma di quell'illusione godevano, come godeva Diane Selwyn nel sogno ad occhi aperti nei panni onirici di Betty Elms in cui tutto le andava bene, come godeva Scottie nell'illusione di ri-creare il fantasma di Madeleine in Judy e nell'illusione di diradare tutta la verità sulla vicenda: ed è un tocco di humor nero puramente britannico a far sì che la "seconda" morte di Madeleine/Judy sul campanile avvenga per mano di quello che, all'apparenza, sembrasse un fantasma inquietante, in realtà più prosaicamente una suora sbucata alle spalle. E anche l'espressione "seconda morte" è una menzogna, perché non si era mai concretizzata la prima morte effettiva di Madeleine/Judy. A morire, in quell'occasione, era stata la vera moglie di Gavin Elster, vestita allo stesso maniera di Madeleine e buttata giù dalla torre campanaria da quest'ultima, in realtà amante di Gavin e d'accordo con l'uomo nello sfruttare Scottie per ingannare la polizia. E non è un caso che la vera moglie di Gavin non appaia mai. Non è mai stata scritturata nessuna attrice per questa parte.
 

Kim Novak, Alfred Hitchcock

La donna che visse due volte (1958): Kim Novak, Alfred Hitchcock

 
E non è ugualmente un caso che la celebre carrellata indietro e zoomata in avanti, entrata nei libri di tecnica registica come "Dolly Zoom" o "Vertigo Effect", venga adottata da Hitchcock proprio nella decisiva scena sulle scale del campanile per connotare scientificamente l'acrofobia di Scottie. E' la riprova definitiva del fatto che Vertigo sia un film sull'ossessione dello sguardo, del punto di vista, sull'attività/passività nei confronti degli eventi e, quindi, sulla spettatorialità. Una lectio magistralis sulla reale falsità dell'arte che si sforza di imitare la finta realtà della vita in un gioco di doppi pressoché infinito che richiama classici assoluti della letteratura mondiale come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson e Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde.
 

Laura Harring

Mulholland Drive (2001): Laura Harring

James Stewart, Kim Novak

La donna che visse due volte (1958): James Stewart, Kim Novak

 
Scottie Ferguson e Diane Selwyn sono due facce della stessa medaglia accomunate dal fallimento: incapaci di guardare davvero, di andare oltre l'apparenza, di convolare al nocciolo delle cose (siano essere lavorative o sentimentali - d'altronde Scottie ignora completamente le attenzioni dell'amica Midge Wood interpretata da Barbara Bel Geddes), non possono non essere destinati alla sconfitta. James Stewart perde la donna amata, la ricrea programmaticamente e, scoperto l'inganno, la ri-ama giusto il tempo di un bacio appassionato prima del capitombolo finale; Naomi Watts, rosa dal senso di colpa per aver ordito venditicativamente l'assassinio della donna di cui era innamorata e per aver deluso le aspettative genitoriali, si spara in fronte nel tragico finale sulle note del sublime Mulholland Drive Main Theme composto e condotto dal genio di Angelo Badalamenti; Gloria Swanson di Sunset Boulevard, ormai irrimediabilmente perduta nel proprio mondo di ricordi (cioè di fantasmi), pur di difenderlo spara personalmente e uccide William Holden che cade in piscina. Tre antieroi, tre cecità profonde, tre passività immobili, tre destini tragici, nella cui delineazione non può non tornare alla mente il titolo originale del romanzo noir francese di Pierre Boileau e Thomas Narcejac che funse da soggetto per la La donna che visse due volte: D'entre les morts, ovvero Tra i morti
 
 
James Stewart, Naomi Watts e Gloria Swanson interpretano tre personaggi incapaci di guardare davanti a sé, dietro a sé e, soprattutto, dentro sé e, in preda a tale miopia allucinatoria, crollano in una vertigine rovinosa. Vertigine autoindotta dall'ossessione di uno sguardo che li ha resi morti in vita: uno sguardo da cui tutto è dipeso. Sì, in questi tre leggendari capolavori firmati da tre assoluti Maestri c'è anche, sottilmente, una riflessione, in chiave noir, sull'effetto Pigmalione: il potere dell'aspettativa e del pregiudizio ritorto contro chi lo detiene. Scottie Ferguson, Diane Selwyn e Norma Desmond sono tre persone che hanno vissuto ciascuna due volte: tutti e tre sono sopravvissuti al fallimento lavorativo salvo poi, come fantasmi in vita ("tra i morti") a causa del trauma mai davvero elaborato, perire definitivamente davanti al fallimento sentimentale. Ed è curioso notare come, in questi tre cult, ci sia, in qualche modo, una stretta relazione tra lavoro e amore. Scottie, Diane e Norma si innamorano di persone che potrebbero riabilitarli dopo i precedenti fallimenti lavorativi. La risoluzione del caso di Madeleine permetterebbe a Scottie di cancellare la macchia della morte del collega; l'amore di Camilla consentirebbe a Diane di entrare nel giro delle lavorazioni hollywoodiane; l'amore di Joe permetterebbe a Norma di tornare alla gloria che pensa di meritare. Tutti e tre sono vittime del complesso di castrazione che li condurrà al fatidico finale
 

William Holden, Gloria Swanson

Viale del tramonto (1950): William Holden, Gloria Swanson

Barbara Bel Geddes, James Stewart

La donna che visse due volte (1958): Barbara Bel Geddes, James Stewart

Michael J. Anderson

Mulholland Drive (2001): Michael J. Anderson

 
Dal primissimo piano del volto di donna nei titoli di testa di Vertigo al doppio volto che si incrocia di Persona il passo è breve. Di otto anni in otto anni, ecco il 1966: il cinema europeo è sconvolto dalla Nouvelle Vague mentre la commedia all'italiana conosce l'apice di popolarità e di gradimento critico. Ingmar Bergman, reduce da alcuni problemi di salute, scrive e dirige uno dei massimi capolavori della settima arte, capace di cristallizzare, con una maturità espressiva raramente vista prima e dopo nella sua filmografia, figlia anche del fervore artistico dei Sessanta, i temi tipici della propria poetica, talmente chiari nella loro complessità filosofico-esistenziale da essere coerentemente inseriti in una semplicità drammaturgica spiazzante. Bastano 85 minuti, 5 personaggi e 3 ambienti per lasciare un segno indelebile nella storia del cinema. 
 

Liv Ullmann, Bibi Andersson

Persona (1966): Liv Ullmann, Bibi Andersson

Liv Ullmann

Persona (1966): Liv Ullmann

 
Se Hitchcock, usando la metafora dello sguardo e del punto di vista, era riuscito a riflettere brillantemente sul rapporto uomo-vita, cioè spettatore-cinema, cioè realtà-finzione, ponendolo in chiave psicanalitica (Pigmalione; castrazione; lavoro-sentimenti come uniche vere carte d'identità umane, come già in Wilder), il tutto nascosto dietro un'abile sceneggiatura giallistica, Bergman giunge alle medesime riflessioni ricorrendo ad un immaginario più smaccatamente teatrale: il volto inteso pirandellianamente come maschera e il blocco dell'attore. Il primo era un tema già brillantemente enucleato in Il volto (coevo di Vertigo), pellicola difficile da incasellare in un unico genere, a partire dall'ambientazione di metà Ottocento, necessaria per spostare la dialettica scienza-fede religiosa, di cui erano pregni quei decenni positivisti, sul piano scienza-fede artistica. Se la religione prevede fede nel senso etimologico del termine, cioè affidamento ad una serie di eventi e spiegazioni non comprensibili col solo umano raziocinio, allo scopo di costituire un modello di comportamento virtuoso in terra per avere salva l'anima, allo stesso modo l'arte si poggia sulla sospensione dell'incredulità e chiede ai suoi adepti, cioè agli spettatori, di credere ad un'illusione, cioè ad una finzione basata su trucchi e prestigi, allo scopo di raffigurare, nella sua umanità terrena, un intrattenimento allietante o pedagogico.
 

Max Von Sydow, Gunnar Björnstrand

Il volto (1958): Max Von Sydow, Gunnar Björnstrand

 
Questa grande opera bergmaniana, spesso sottovalutata, che si poggia direttamente sulla biografia del regista, ex direttore del teatro di Malmoe, è una lectio magistralis sul concetto di spettatorialità riflessa: fino a che punto colui che fa arte può spingersi? L'artista deve credere davvero a ciò che fa o è sufficiente saper gestire la tecnica? L'artista è tale anche senza maschera, elemento imprescindibile che lo rende tale? L'artista è tale anche quando non ha successo? In un mare magnum di dubbi forse troppo grande da domare, Bergman sembra voler fornire un'unica certezza: colui che fa arte è destinato alla precarietà perché la rappresentazione artistica è, di per sé, un evento precario, di vita breve.
 
 
Tali riflessioni sono presenti tutte, otto anni dopo, anche in Persona. Ma qui il grande regista svedese fa un passo ulteriore, portando il livello della riflessione su un piano propriamente identitario e psicanalitico. E' casuale che Elisabeth Vogler (Liv Ulmann) abbia smesso di recitare proprio durante la rappresentazione di L'Elettra? Perché non è successo né prima né dopo nella sua attività di attrice professionista? La specifica figura di Elettra, caso più unico che raro di donna tratteggiata, in modo peraltro assai differente, da tutti e tre i grandi tragediografi greci classici, può aver indotto Elisabeth alla risata (tipica reazione spettatoriale) e, quindi, al mutismo? L'evento traumatico che aveva condotto Norma Desmond, Scottie Ferguson e Diane Selwyn nella famigerata spirale anche qui fa coincidere lavoro e sentimenti. Elisabeth in Persona può essere vista come una sorta di quarta raffigurazione classicamente tragica di Elettra. Bergman, nel solco di Eschilo (che l'aveva descritta fondamentalmente come una debole ragazzina), Sofocle (che l'aveva dipinta come una donna determinata ad ogni costo) ed Euripide (che l'aveva intrappolata in un alienante senso di colpa), la cesella in maniera assoluta, come una sorta di versione beta di questi tre tipi femminili classici. Elisabeth ride perché capisce di essere attrice non solo sul palcoscenico ma anche in vita. Costretta ad indossare una maschera di volta in volta differente (come le tre Elettra sempre diverse della tragedia greca classica), si rende conto che la vita possa essere più finta dell'arte. Arte che è finzione illusionistica ma che, a ben vedere, si rivela, nelle intenzioni, ben più autentica della realtà le cui costrizioni sociali, alcune delle quali indubbiamente necessarie, inibiscono la libera espressione di sé. Elisabeth ride per la tragica comicità della propria esistenza e cessa di parlare, cioè cessa di recitare una parte, cessa di indossare una maschera, un volto. Quando l'artista smette di fare il proprio lavoro, il rapporto con lo spettatore si incrina.
 

Liv Ullmann

Persona (1966): Liv Ullmann

Ann Miller, Lee Grant

Mulholland Drive (2001): Ann Miller, Lee Grant

 
E' questo il nucleo centrale di Persona: l'impossibilità di sfuggire alla dittatura dello sguardo altrui, poco importa che sia quello di uno spettatore, di un amico, di un genitore o di un amante. Aristotele ci ricorda che l'uomo sia un animale politico, sociale. Ma se la socialità degenerasse in un freno alla libertà, se l'altro da sé, per la sua sola presenza, per il suo solo sguardo, inducesse ad indossare una maschera e, quindi, a fingere, allora il precetto aristotelico avrebbe ancora valore? Bergman, con un sottile gioco ironico, dà ragione al grande pensatore greco e critica Elisabeth. Anche il consapevole mutismo è una recita. Non si mente solo usando certi gesti o scegliendo certe parole, ma si mente anche annullandoli, cioè negandoli del tutto. Il silenzio ad oltranza di Elisabeth porta, infatti, l'infermiera Alma (Bibi Andersson), apparentemente serena e soddisfatta, a rivelare le parti più intime e nascoste di sé. L'alterità è ineludibile: ma, per Bergman, questa non deve essere vissuta come una condanna ad una recita perpetua. Nelle relazioni sociali l'uomo può trovare il senso della propria autenticità: dal momento che tutti, proprio perché destinati aristotelicamente alla vita in comunità di simili, siamo costretti a salire su quel grande palcoscenico che chiamiamo vita, possiamo, anzi dobbiamo, trovare in quella che non va vissuta come una prigione, ma come un'opportunità, la nostra strada e il nostro vero sé. Alma ed Elisabeth sono una lo specchio dell'altra: e, in tal senso, la celeberrima inquadratura del volto diviso a metà tra le due è indicativo dell'afflato universale di cui Bergman intesse quest'opera magistrale. Se le vicende dello splendido Il volto potevano, in qualche maniera, essere circoscritte alla mera cerchia degli addetti ai lavori teatrali/cinematografici, Persona si pone, invece, come perno centrale della poetica bergmaniana. La propria identità - lavorativa, affettiva, di classe - non va frustrata o celata per evitare lo sguardo altrui. Ma, anzi, va affermata proprio perché c'è lo sguardo altrui. Bergman non dice che sia semplice o sempre fattibile (e, d'altronde, la grande differenza sociale tra un'attrice affermata e una semplice infermiera non sfugge al regista; le barbarie del mondo testimoniate dai notiziari televisivi vanno nella stessa direzione), ma descrive chiaramente come ciò che possa indurci ad essere noi stessi, cioè a tornare sul palcoscenico-vita in maniera sincera, sia la paura di perdersi: non a caso, Elisabeth rompe il silenzio "No! Sei pazza!" proprio quando la furia di Alma sembri davvero pronta a rovinarsi su di lei.
 

Liv Ullmann

Persona (1966): Liv Ullmann

Naomi Watts

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts

 
Il rapporto Elisabeth-Alma è molto simile a quello Diane-Camille, anzi Betty-Rita. In Mulholland Drive si ripropone il medesimo specchio. Rita è l'immagine distorta di quello che Diane vorrebbe fosse Camilla: una donna attraente, bisognosa di attenzioni dopo l'incidente stradale, ottimamente disposta a contraccambiarne l'amore. Ma, in realtà, lo sguardo di Diane è spettatorialmente fuori fuoco e Camilla, in realtà, si rivelerà essere una donna arrivista ed ingannevole (perfettamente intonata all'ambiente), pronta ad intrecciare allegramente liaison amorose con chiunque. Il motivo del comportamento di Diane è comprensibile facendo riferimento al già citato atteggiamento infantile nel momento dell'arrivo in aeroporto a Los Angeles. Esso può essere ricondotto alla sfuggente identità sessuale e di genere (un'omosessualità repressa?) della protagonista, al critico rapporto coi genitori (liquidati brevemente come accompagnatori di viaggio e riesumati come traumatizzanti fantasmi nel tragico finale) oniricamente sostituiti con figure più care come la zia Ruth, al bisogno di dare affetto, cura e protezione - ben oltre i limiti dell'amore e dell'attrazione - a Rita, ridotta a passivo bersaglio di attenzioni. Per non parlare dello stridente contrasto tra l'onirica facilità dell'ingresso nel mondo del lavoro e la triste realtà effettiva. Diane non può bergmanianamente ambire all'accettazione della propria identità (infatti, nega oniricamente di essere Diane e sogna di essere una fantomatica Betty) perché le sfere privata e sociale della sua vita l'hanno traumatizzata sin dall'adolescenza o, più probabilmente, fin dall'infanzia in maniera irrisolta. Insomma, Diane, alla stregua di Norma e Scottie, non sarà capace di pronunciare quel "No! Sei pazza!" e, persasi per sempre (morta già in vita, "tra i morti"), sarà destinata alla tragedia.
 

Naomi Watts

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts

Naomi Watts, David Lynch

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts, David Lynch

 
David Lynch riesce nel miracolo di coniugare le proprie istanze personali alle tematiche più care a Billy Wilder, Alfred Hitchcock ed Ingmar Bergman: ossessioni, traumi, sogni, illusioni, condizionamenti ambientali, metacinema, sguardi, identità, spettatorialità, amori.
 
Quattro grandi maestri, quattro capolavori inarrivabili.
 
Ai quali - se siete arrivati fin qui, è evidente che il testo abbia suscitato la vostra curiosità, quindi perdonerete un'ultima riflessione - si possono aggiungere due film strepitosi di due registi italiani tristemente dimenticati: La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini e Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli. Aida Zepponi, magistralmente interpretata da Claudia Cardinale doppiata dalla splendida voce di Adriana Asti, ed Adriana Astarelli, cui presta corpo e voce una diciannovenne Stefania Sandrelli, sono due figure di donna molto simili a quelle tratteggiate fino ad ora: incapaci di capire davvero gli altri perché incapaci di capire se stesse, credono alle promesse di gloria dell'italico mondo dello spettacolo, meno luccicante di quanto le apparenze non lascino intravedere (come testimonia il meraviglioso Baggini interpretato da Ugo Tognazzi nel gioiello di Pietrangeli), volubile e passeggero come un vinile sul giridischi, continuamente sostituito da altri ed altri ancora, bergmanianamente precario.
 
 
La colonna sonora è la chiave di lettura di entrambe le pellicole: spaccato d'epoca di un'Italia d'altri tempi ma illusoria e perduta come oggi, rappresenta l'autentica, forse davvero unica, voce narrante, dove Celeste Aida ed Impazzivo per te si susseguono amaramente per lasciare il posto a Tintarella di luna nel capolavoro di Zurlini, mentre, nel capolavoro di Pietrangeli, la struggente ed immortale Roberta di Peppino Di Capri sembra persino più speranzosa dell'illusorio brano E se domani di Mina. Nell'angosciante attesa di un domani - anche qui, sia sentimentale sia lavorativo - che non diventa mai oggi, Aida vaga solitaria in stazione, di notte, alla ricerca del binario giusto della propria vita mentre Adriana compie il disperato gesto buttandosi dalla finestra. Giovane, giovanissima come la Diane Selwyin di Mulholland Drive
 

Claudia Cardinale, Jacques Perrin

La ragazza con la valigia (1961): Claudia Cardinale, Jacques Perrin

Joachim Fuchsberger, Stefania Sandrelli

Io la conoscevo bene (1965): Joachim Fuchsberger, Stefania Sandrelli

Naomi Watts, Laura Harring, David Lynch

Mulholland Drive (2001): Naomi Watts, Laura Harring, David Lynch

 
Dagli Stati Uniti alla Svezia passando per l'Italia, dal 1950 al 2001 passando per i Sessanta, il risultato di uno sguardo ossessivamente distorto è sempre tremendamente tragico. Universalmente tragico.
 
Grazie a questi grandi Maestri per averci messo in guardia: chi l'Arte ha onorato non verrà mai dimenticato!
 
 
 
 
 
 
 
 
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
 
Il Mereghetti - Dizionario dei Film 2021 di Paolo Mereghetti, casa editrice Baldini+Castoldi
https://www.analisidellopera.it/il-sonno-della-ragione-genera-mostri-di-goya/
https://youtu.be/zQ4UZyMc8o4
http://www.cinemecum.it/newsite/images/stories/P/PDF/mulholland_drive_libro.pdf
https://youtu.be/VF5fhzPbcjk
https://www.npcmagazine.it/mulholland-drive-david-lynch-film-analisi/
https://youtu.be/hkEVCFdgUHU
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/11/HOLLYWOOD-PARTY-30dd1641-bcb2-4dea-ace2-379aa7656532.html?wt_mc
https://youtu.be/D3-o6-7iYiM
https://quinlan.it/2016/02/06/eraserhead-recensione-streaming/
https://youtu.be/8UjeH1zWQQQ
https://www.treccani.it/enciclopedia/spostamento_%28Dizionario-di-Medicina%29/
https://www.treccani.it/vocabolario/spirale2/
https://thedigitally.it/post/come-il-film-vertigo-ha-portato-la-computer-grafica-nel-cinema/
https://youtu.be/StcvV1pZXz4
https://youtu.be/0XsdE6_Boic
https://youtu.be/u5JBlwlnJX0
https://birdmenmagazine.com/2021/02/18/effetto-vertigo-cinema-esempi/
https://youtu.be/TGGoVD2bZPA
https://quinlan.it/2021/04/16/la-donna-che-visse-due-volte/
https://www.raiplay.it/video/2020/10/Quante-storie-d3e32b8c-2473-4c40-bfb1-65e9934d8ee2.html
https://quinlan.it/2018/02/27/il-volto/
https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Aristotele-teoretico-luomo-animale-politico-e3555792-98ec-4f6c-8a1c-ecf555b30fca.html
https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2021/04/Aristotele-Scritti-politici--c45b88c0-4fa6-4c59-9689-ca0434d73b60.html
https://quinlan.it/2018/01/23/persona/
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/09/FAHRENHEIT-Il-contagio-della-negazione-9b83ba92-cf76-4ecf-b5ce-c869f257fb81.html
https://quinlan.it/2016/10/24/la-ragazza-la-valigia/
https://quinlan.it/2015/01/20/conoscevo-bene/
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