6 stagioni - 75 episodi vedi scheda serie
A chi è piaciuta Sons of Anarchy (2008-2014) non può non piacere anche Animal Kingdom (2016). Già a un passo dal capolavoro l’omonimo film originale di David Michôd (2010), Animal Kingdom riporta sul piccolo schermo la "famiglia criminale". Certo, sparisce l'immaginario motociclistico di Sons, e quindi anche il machismo dei suoi personaggi, ma Animal Kingdom è meno televisiva e più cinematografica, ha ritmi e respiri narrativi più romanzeschi e per nulla telenovelici, come le svolte e i twist della serie firmata da Sutter che rasentava a volte l’irritante. In Animal Kingdom tutto è dosato, calibrato e articolato con cura nell’evolversi delle azioni. Inutile poi dire che l’ottima performance di Ellen Barkin eclissa sia quella analoga di Katey Sagal – la Gemma di Sons – sia l’originale di Jacki Weaver. Anche il giovane Finn Cole, nella sua resa monoespressiva del diciassettenne che, morta la madre per overdose, va a vivere a casa dell’indiscussa matriarca, la nonna (la Barkin), e con i quattro zii, c’è tutta la forza dell’implosione sottrattiva, voluta o naturale che sia, che lo rende incredibilmente perfetto nel disfunzionale contesto socio-famigliare. Allo stesso modo, il personaggio e la conseguente interpretazione mimetica di Shawn Hatosy sono un'altro valore aggiunto del dramma.
Di Sons of Anarchy, di cui la serie TNT recupera l’estetica e le tematiche di base, restano emblematici per esempio l’esibizione del corpo fisicato e perfetto dei protagonisti, che dai rude boys di Sons diventano i surfer boys di Animal Kingdom, con tutto il campionario iconorafico che si porta dietro l’immagine solare e viziosa di una California patinata e lussuosa; la manipolazione inquietante e ambigua della matriarca; il sistema dei personaggi, con le sue tensioni omoerotiche, la fratellanza criminale, il codice dell’onore, la riluttanza e lo scontro con l’autorità.
Se Sons si reggeva tutta sulle spalle di Charlie Hunnam, in Animal Kingdom è tutto sulle spalle della Barkin, mentre il corrispettivo di Hunnam, ovvero il giovane Finn Cole, è il fascino nascosto, in filigrana, dell’intera serie. Un’ombra, un corpo, un volto, un “testo”, che si aggira silenzioso e sobrio nella rete tessuta dagli sceneggiatori; rete che premia in primis la Barkin e in seconda battuta proprio il “bandito adolescente”, per dirla alla Sender. Il risultato finale, se non è ottimo come il film originale, è sicuramente più che buono per essere un prodotto televisivo. Da qui, inutili le critiche mosse alla prima stagione di Animal Kingdom, colpevole di essere solo un prodotto derivativo e poco originale nella descrizione e nell’articolazione narrativa delle psicologie dei personaggi. Credo esattamente l'opposto.
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