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True Detective

4 stagioni - 35 episodi vedi scheda serie

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79DetectiveNoir

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su True Detective

di 79DetectiveNoir
8 stelle

Matthew McConaughey

True Detective (2014): Matthew McConaughey

 

Col passare del tempo, la gente mi dice che io assomigli a Rust Cohle degli anni novanta. Freddo, apparentemente disincantato, invero molto romantico, passionale, giustamente irrequieto in quanto maggiormente senziente, perfino quasi sensitivo a livelli, non allucinatori, bensì allucinanti. 
E, fedelmente al nome di questo nick, ovvero 79DetectiveNoir, voglio qui inserire le mie vecchie recensioni di tutte e tre le stagioni di True Detective. Così come apparvero, in maniera cronologica, sulla rivista online Daruma View Cinema per cui, oramai da parecchio, svolgo un pregiato e invidiabile lavoro di specialissimo inviato. Posso vantarmi almeno di questo o è proibito? Grazie alle mie collaborazioni giornalistiche, lo scorso anno ottenni gli accrediti stampa per il Festival di Venezia e di Roma. Mi sa che andrò a Cannes a Maggio. Il Falò, signore e signori, è tornato alla ribata.

 

Se incapperete in qualche refuso, perdonatemi. Non ho intenzione né la voglia di correggere i miei pezzi. 

Sono appena rientrato a casa dopo un bel sabato sera di belle fighe, quindi, non fate gli stronzi. E godetevele. No, sparatevi queste mie recensioni. Ve le dono qui (chi, le fighe? No, i pezzi fighi non so se, fra una virgola e qualche doppia punta, no, punto e virgola, sullo sfigato di ritmo andante ancora bello pimpante e cazzuto), non so se di magistrale, impeccabile stile ma sicuramente degne del mio Falotico style imbattibile.

 

TRUE DETECTIVE, stagione 1

 

Matthew McConaughey

True Detective (2014): Matthew McConaughey


http://darumaview.it/2018/true-detective-fenomeno-culto

Ora, come molti sapranno, sono attualmente in corso le riprese della terza stagione di True Detective, interpretata da Mahershala Ali. Nell’attesa che i ciak si concludano e aspettando la sua messa in onda, che avverrà con tutta probabilità non prima della metà del prossimo anno, e tralasciando la seconda stagione, forse un intermezzo, una parentesi dimenticabile, facciamo un promemoria recensorio della prima stagione, quella celeberrima che ha inaugurato la Rust Cohle mania, ingenerando un fenomeno di culto che non si vedeva forse dai tempi di Twin Peaks.

Ecco che, dopo una lunga gestazione, dopo una segretezza assoluta riguardo al progetto, sulla HBO il 12 Gennaio del 2014 debutta appunto la prima stagione di questa serie antologica, cioè una serie che, mantenendo intatte le coordinate narrative e rimanendo coerentemente pressoché omogenea nei canovacci stilistici, si rinnova però a ogni stagione a seguire, differenziandosi per trama, personaggi e conseguentemente per gli attori principali che la interpretano.

In questa iper-osannata, lodatissima prima stagione, in archi temporali diversi magmaticamente collegati fra loro in maniera sulfurea e immaginativa, seguiamo l’indagine di due detectiveRustin Cohle (Matthew McConaughey), detto Rust, e Martin Hart (Woody Harrelson), detto Marty, alle prese con la spasmodica caccia a un serial killer della Louisiana, fra paludi plumbee, notti allucinate, visioni mesmeriche e una impalpabile, magnetica ambientazione cupa e magicamente esoterica. Dal 1995 al 2012 i due uomini si dannano per acciuffare questo fantomatico uomo misterioso che ha ucciso giovani donne con efferatezza mostruosa. Poi, dal 2012, quando tutto pareva essere stato risolto, l’ingarbugliata storia ha nuovamente inizio perché il caso viene riaperto. Tutto parte col ritrovamento di Dora Lange, una donna rinvenuta ai piedi di un gigantesco albero con la testa fracassata e sormontata da corna di cervo, stuprata e assassinata brutalmente dopo un rito satanico.

Rust Cohle è un uomo enigmatico, perennemente tormentato, afflitto forse dalla sua imperscrutabile solitudine, esperto di criminologia, che abita in un piccolo appartamento scarno e mal arredato, sovrastato da un crocefisso. Lui sostiene di considerarsi un uomo realista ma afferma che in termini filosofici è un pessimista. Magro, smunto, accigliato, nervoso, fuma imperterritamente sigarette su sigarette e par che reprimi ogni emozione briosa dietro una maschera taciturna gelidamente ascetica. Pace omeostatica del suo insanabile tormento esistenziale o elevazione zen di un’anima modellata nei muscoli tesi della sua carne sacrificata?

 

Marty invece pare essere felice, ha una famiglia e una bella moglie, è un uomo emotivamente stabile e all’apparenza soddisfatto, ma poi tradisce la consorte con una ragazza di facili costumi, e impariamo presto che, a differenza di quel che possa sembrare a prima vista, è un tipo sanguigno, irascibile, burrascoso, perfino irruento e istintivo.

Due personalità antitetiche ma al contempo speculari che si ritrovano, diventano coppia fissa e si fanno compagnia, fra litigi e scazzottate, in questo lungo, interminabile viaggio ai confini della follia dell’animale uomo, un’immersione dolorosissima prima della catarsi cristologica, dopo l’annientamento la rinascita, il tetrissimo buio dell’oscurità e poi forse la speranza che qualche bagliore cristallino soavemente illumini di bellezza questo mondo maledetto da Dio.

Scrive il prodigioso Nic Pizzolatto, che incede in meticolose riflessioni metafisiche, ammanta di ancestrale fascino, oserei dire, spiritico questa storia appassionante di demoni e uomini solitari, ricreando a nuova vita il mito di Carcosa, attingendo fantasiosamente dall’omonima, immaginaria, sotterranea, celtica e misterica città sepolta raccontata in The King in Yellow and other stories di Ambrose BierceRobert W. Chambers e del leggendario H.P. Lovecraft. Attinge dalle suggestioni di questo libro per reinventare temi e situazioni, lo plagia con scrupolosità filologica, lo purifica persino e quindi allestisce un’opera seriale di pregiata sciccheria, un raffinato potpourri sapientemente coagulato di aromatiche atmosfere boschive, umide, spettrali, giocate tutte sul lividoso colore opaco e traslucido post-uragano Katrina.

Allorché True Detective non riesci a dimenticarlo, ogni puntata t’incolla ipnoticamente alla sua visione.

Il merito è di Pizzolatto o della messa in scena disadorna, non effettistica ma efficacissima di Cary Fukunaga? Oppure gran parte del successo si deve alla prova carismatica di un possente, “mistico” Matthew McConaughey?

Ma, soprattutto, True Detective 1 è quella grande serie che ha meritato il plauso che continua ad avere?

Quentin Tarantino, intervistato da Vulture, ha detto… Ho provato a vedere la prima puntata di True Detective, prima stagione, e non l’ho capita.

Ma con tutta la grande stima che nutriamo per il mitico Quentin, sulle cui lecite provocazioni ci sarebbe da discutere e aprire dibattiti come iene che discettano di Like a Virgin, lui pare essere davvero l’unico a non averla capita e amata.

Ora, cosa voglio dire con questo? Che True Detective è davvero il gioiellino intoccabile sul quale mai ci sentiremmo di muovergli delle critiche, esente da difetti e che rimane ad anni di distanza un colpo indimenticabile?

No, mi sento in parte di dissentire. Come tutte le serie, anche le più belle e riuscite, la compattezza si avverte solo a visione completata e avvenuta, in molti, troppi punti, un certo senso di tediosità, e qui do ragione a Quentin, c’è inevitabilmente, è il prezzo che paga questo “format”. Allorché alcuni siparietti, alcune scaramucce fra Rust e Marty sembrano essere lì apposta per allungare il brodo, molte digressioni sono indubbiamente prolisse e non necessarie e spesso, va detto, pare che seguiamo il flusso narrativo solo per aspettare che si spezzi per ammirare l’interrogatorio monologhista di Rust e studiare a memoria quelli che sono oramai i suoi famosi discorsi, youtubizzati e stracitati, sul senso della vita, sulla religione, la coscienza. Monologhi retti dal carisma di McConaughey, sciupato, sdrucito, emaciato, ma che non di rado, rivedendoli, appaiono insopportabilmente sentenziosi, grevemente massimalisti, vanitosamente lapidari.

 


TRUE DETECTIVE, stagione 2

 

http://darumaview.it/2018/true-detective-2-storia-hard-boiled

 

Ebbene, procediamo la nostra tappa di avvicinamento alla terza stagione attesissima di True Detective, parlandovi stavolta proprio della seconda: True Detective 2.

Trasmessa da noi con una settimana di ritardo rispetto alla messa in onda degli Stati Uniti, almeno nella versione doppiata e non sottotitolata in originale, True Detective 2 debutta sul canale statunitense della HBO esattamente il 21 Giugno 2015, consta come quella capostipite di otto episodi e si protrae sino al 9 Agosto. L’ultimo episodio però di questa seconda stagione dura invece un’ora e mezza.

Stavolta i personaggi principali non sono due ma il numero raddoppia. Nell’immaginaria metropoli di Vinci, il detective Ray Velcoro (Colin Farrell) è un padre affettuoso forse di un figlio non suo che cerca come meglio può, anche maldestramente, di educare nel tempo libero in cui può averlo in affidamento, un figlio “adottivo” che divide con l’ex moglie, donna che ha avuto il bambino non desiderato dopo che rimase incinta perché stuprata da un uomo che fuggì impunito nel nulla e su cui Velcoro disperatamente è sulle sue tracce. Per acciuffarlo, si serve del suo “amico” Frank Semyon (un cupo Vince Vaughn), un potente uomo d’affari che sta cadendo in disgrazia dopo il che capo-socio dei suoi affari, il city manager Ben Caspere è stato trovato morto sul ciglio della superstrada. Con CaspereSemyon stava progettando una linea ferroviaria ad altissima velocità che gli avrebbe dato ancor più fama e gloria e gli avrebbe permesso così di aumentare esponenzialmente le sue ricchezze. Adesso, morto CaspereSemyon è costretto a tornare ai suoi vecchi, loschi e sporchi giri. Semyon è un uomo che vive con una bellissima, avvenentissima giovane moglie (la sexy Kelly Reilly), si era illuso di poter diventare finalmente qualcuno e di ripulirsi dal torbido passato, invece adesso è costretto nuovamente a corrompersi e a vivere di truffe. Il suo passato da criminale pare non volerlo abbandonare e torna prepotente ad avvelenargli la vita.

Ecco che poi abbiamo altri due personaggi centrali, una donna, Antigone “Ani” Bezzerides (Rachel McAdams), al servizio dell’FBI, e un agente della Highway Patrol (Taylor Kitsch), che per fortuite coincidenze si occuperanno, in concomitanza con Velcoro, dell’indagine riguardante proprio la morte di Caspere.

Una trama con forse troppa carne al fuoco, fra notti a luci rosse e lerce macchinazioni complottistiche, tradimenti banali, doppie piste insulse, orge che vorrebbero strizzare l’occhio a Eyes Wide Shut, e una tristissima vicenda di un fratello e di una sorella figli di nessuno, su cui incombette una scandalosa tragedia. Ed è forse questo spiacevole evento il fulcro dell’intera trama e la chiave per risoluzione del mistero della morte di Caspere. Ma è un “pretesto” narrativo debolissimo per renderci partecipi emozionalmente come spettatori che lecitamente pretendevamo di più.

Ecco, da True Detective 2 ci si aspettava tantissimo dopo il successo impari e planetario della prima stagione. E la delusione è stata evidente e marcata. Il personaggio di Farrell non affascina molto e, sebbene Farrell gl’infonda credibilità grazie al suo innato carisma e professionalmente sfoderi come sempre una lodevole bravura attoriale, il suo character non ha la stessa valenza portentosa di Rust Cohle, è un personaggio verso il quale non scatta mai davvero calorosa empatia. Per non parlare degli altri tre personaggi. Sì, Semyon rimembra spesso nel corso degli episodi il suo oscuro passato nel quale da bambino subì infinite violenze per giustificare in qualche modo la sua vita poco legalmente integerrima, ma tutto sommato è un ambiguo villain incolore e tagliato con l’accetta, mentre la McAdams, nonostante la sua bellezza, è insipida, così come scialbo è il personaggio di Kitsch.

E tutta la vicenda, siamo sinceri, si perde futilmente di qua e di là confusamente, schiacciata da un’ambientazione costellata di prevedibili riprese di dedali stradali, cemento armato a volontà e periferie suburbane che paiono una patetica imitazione di quelle di Heat. E, peraltro, il finale ammicca spudoratamente al capolavoro di Michael Mann. Senza possedere un minimo della sua sfolgorante epicità.

True Detective 2 ha anche i suoi bei, forti momenti, ciò è indubbio, ma il tutto sostanzialmente scorre piattamente senza regalarci autentici sussulti emotivi, senza stupirci mai più di tanto, anzi, quasi per nulla, e un senso opprimente di noia ci perseguita dal primo all’ultimo minuto.

Ancora una volta a scrivere tutto (fallendo) è Nic Pizzolatto, anche se per due episodi si fa “aiutare” rispettivamente da David Milch e Scott Lasser, non c’è più Fukunaga in cabina di regia, bensì ben sei registi differenti, fra cui spiccano i nomi di Justin Lin e John Crowley. E forse questa balzana scelta di affidare la regia a un’eterogeneità di registi stilisticamente troppo diversi fra loro ha davvero poco giovato alla coesione narrativa, spezzettando l’opera in tanti “embrioni” filmici dissimili e disomogenei.

No, non è andato per il verso giusto quasi niente. La prima stagione era detection purissima, limpida e secca, questa è una bislacca storia hardboiled poco coinvolgente e farraginosa.

 


TRUE DETECTIVE, stagione 3

 

http://darumaview.it/2019/true-detective-3-recensione-2-episodi

 

Ebbene, c’era grande attesa per il ritorno di una delle serie antologiche più amate degli ultimi anni, ovvero True Detective. Dopo la fastosa e irripetibile grandezza della prima stagione che, appunto, generò la true detective mania ed elesse in gloria il suo ardito creatore Nic Pizzolatto, elevandolo subito a genio incontestabile per aver dato vita, con la sua sceneggiatura nichilistica e profondamente dark, a ipnotiche atmosfere rarefatte di suadente potenza emozionale, dopo la consacrazione del suo straordinario protagonista, Matthew Conaughey che, con la sua eccezionale incarnazione dell’oramai leggendario Rust Cohle, visse un insuperabile anno mirabile, in concomitanza peraltro con la sua vittoria dell’Oscar per Dallas Buyers Club,  dopo la parzialmente deludente, forse fiacca e monotona stagione due con Colin Farrell e Vince Vaughn, eravamo tutti indubbiamente molto curiosi di assistere alle nuove, spericolate prodezze appunto partorite dalla fervida mente del suo poc’anzi menzionato “anfitrione” Pizzolatto, qui al suo terzo banco di prova.

Ecco, è ancora assai prematuro, in attesa che pian piano la HBO a puntuale scadenza settimanale rilasci gli altri episodi, poter avanzare giudizi entusiastici in merito a questo True Detective 3.

Quello che possiamo certamente affermare, dopo aver visto soltanto i primi due episodi, è che Pizzolatto, ottimamente servito dalla consueta regia malinconicamente plumbea, notturna e pallidamente ombrosa di Jeremy Saulnier (Hold the Dark), ci ha già riportato indietro con la memoria alla prima, succitata, acclamata stagione. Stagione forse non priva di difetti ma, come detto, fenomenica e probabilmente anche fenomenale.

True Detective 1 era un cupissimo noir ambientato nelle paludi della Louisiana. Sorretto, ripetiamolo, dalla performance travolgente d’un McConaughey in stato grazia, ottimamente affiancato da un altrettanto bravissimo Woody Harrelson, servito dalla regia fluidamente portentosa di un Cary Fukunaga parimenti ispirato, innestato sull’indagine di misteriosi, macabri omicidi perpetrati ai danni di giovanissime innocenze da parte di una micidiale setta satanica. E, nella superba mistura fascinosissima d’una detection intrecciata all’imponderabile natura sovrannaturale, magneticamente torbida e spettrale della vicenda, al di là di qualche trascurabile grossolanità, come già rimarcato, rimarrà indiscutibilmente una pietra miliare della televisione migliore. E della tv che, al suo zenit, si fa grande Cinema.

La stagione due invece, forse però criticata oltremodo, è stata un hardboiled decisamente claustrofobico e ripetitivo a cui non giovarono affatto i continui cambi di registro e di regie. E, per via della sua sin troppo scontata linearità e a causa della sua ambientazione metropolitana sicuramente affascinante ma povera di respiro, deluse non poco le aspettative.

Qui, Pizzolatto, torna a un setting più selvaggio. Siamo nell’altopiano di Ozark e, infatti, alla fine dell’episodio uno echeggia la voce rocciosamente, magicamente melanconica e ruvidamente cristallina di Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In) firmata da Mickey Newbury, reminiscente dell’incendiario Bruce Springsteen (il suo album Nebraska docet), e veniamo immersi tra gli anfratti montagnosi, desolati e boschivi d’una sperduta cittadina anonima.

Un bel giorno, anzi, sarebbe più appropriato dire, in una serata apparentemente tranquilla, un padre di famiglia divorziato, un po’ scalognato e teneramente abbandonato a sé stesso, Tom Purcell (Scoot McNairy), si mette alla ricerca dei suoi due figli piccoli, fratello e sorella. Che si erano allontanati per fare un giro in bicicletta, gli avevano promesso che avrebbero rincasato per le cinque e mezza del pomeriggio e invece, a tarda notte, ancora non si sono fatti vivi e paiono essersi sperduti nella foresta. Eclissatisi nella luna piena di un day indimenticabile oramai tramontato nel buio più maledettamente stellato. Al calar tenebroso dello stesso giorno, 7 Novembre del 1980, in cui è morto il mitico Steve McQueen.

Due investigatori del posto, in pattuglia a perlustrare la zona, il granitico e ieratico Wayne Hays (Mahershala Ali) e lo sbruffone Roland West (Stephen Dorff), vengono avvertiti della scomparsa dei due bambini e subito cominciano a indagare in merito alla scioccante sparizione.

Dopo qualche interrogatorio, molti dubbi e alcune conoscenze forse centrali per la loro stessa esistenza, scoprono la verità. O meglio, Wayne Hays decide di volerci immediatamente vedere chiaro e, in tutta intrepida solitudine, inizia istintivamente a seguire una pista personale, inoltrandosi nel bosco. Dopo uno spaurito, tremante e al contempo incalzante suo peregrinare nella boscaglia, scopre il cadavere del bambino scomparso, incagliato in un giaciglio fra le rocce. Non però quello della sorella, della quale invece non c’è traccia.

Sottolineiamolo, è ancora prestissimo per potersi sbilanciare ma sin ad ora True Detective 3 funziona parecchio. Anche se è una “copia” della stagione 1. Tra flashback, inquadrature sui volti in macchina dei due detective e interviste per tentare di elucubrare, anatomizzare e ricomporre in analessi e flashforward lo scandirsi degli eventi trascorsi e futuri.

La prima mezz’ora del primo episodio, inoltre, avvolta dalla calda fotografia di Germain McMicking, ricorda non poco le suggestioni atmosferiche del fincheriano Zodiac.

Strepitoso Ali. Qualche dubbio invece su Dorff, bellissima, ça va sans dire, Carmen Ejogo.

Ma siamo soltanto all’inizio. Vedremo se True Detective 3 manterrà le valide premesse e promesse.

 

http://darumaview.it/2019/true-detective-3-recensione-finale

 

Ebbene, come sappiamo, in concomitanza con la Notte degli Oscar, domenica scorsa la HBO ha trasmesso l’ultima puntata di True Detective 3. Proprio negli stessi attimi in cui il suo protagonista, Mahershala Ali, ha sollevato al cielo la sua seconda statuetta come migliore attore non protagonista per Green Book.

Un attore venuto dal nulla, come si suol dire, che in una manciata di anni ha sfracellato la competizione e si è imposto come un talento straordinario del panorama cinematografico mondiale. Assurgendo sin dapprincipio a indubitabile, grande attore da tenere perennemente d’occhio negli anni a venire, dotato di un innato carisma e di una presenza scenica che, al di là della sua sbilenca andatura quasi claudicante, l’ha reso uno dei volti irrinunciabili del firmamento contemporaneo.

Green Book è davvero un grande film o è stato Mahershala Ali, con la sua prodigiosa interpretazione e la sua magnetica sordina, elegantissimamente misurata, ad ammantarlo d’un fascino maliardo tanto attrattivo?

È quello che mi domando dopo aver assistito all’ultima puntata di questa terza stagione di True Detective. Perché, al di là dei movimentati cambi di regia, dopo i primi due episodi diretti da Jeremy Saulnier, col suo inconfondibile tocco misterico e metafisico, dopo due tranche dietro la macchina da presa dello stesso suo famigerato sceneggiatore Nic Pizzolatto, per la precisione If You Have Ghosts e The Hour and the Day, e l’incursione di Daniel Sackheim, avevo avuto l’impressione, come tutti d’altronde, che True Detective 3, con tanto di apparizione in fotografia dei celeberrimi detective Rust (Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson) potesse riagganciarsi, appunto, all’indimenticabile, giustamente celebrata prima stagione. E che potessero tornare tonanti e inquietanti i fantasmi di Carcosa miscelati in una vicenda complottistica da collegare alla storia interrottasi nelle paludi della Louisiana e ramificatasi negli altopiani montagnosi dell’Arkansas. Ma che, soprattutto, il potere fascinatorio profusoci dai primi episodi di True Detective 3, con le sue atmosfere cupamente sulfuree e macabre, fosse in gran parte adducibile a Mahershala Ali. Capace di rendere eccezionalmente sfumato il suo Wayne Hays, spezzettando la sua superba performance in micro-segmenti recitativi mirabilmente cangevoli, modulandosi in una varietà sottilmente variegata d’impercettibili cambi di registro attoriale, modellandoli a differenti e ben distinti piani temporali.

Ora invece, pur continuando a rimanere fermamente convinto, malgrado alcuni evidenti difetti, come ad esempio una certa, soporifera prolissità e una tetraggine sin troppo soffocante, che True Detective 3 sia una bellissima stagione, devo ancora una volta, oltre che complimentarmi con Ali, stringere la mano al suo creator Pizzolatto.

Sì, ci ha piacevolmente fregato. Prima illudendoci che potessimo trovarci di fronte una serie figlia di Carcosa e dello Yellow King, quindi mischiando sapidamente le carte, con morbosa raffinatezza, immergendoci in un finale del tutto imprevisto. Che svela la risoluzione, alquanto banale del caso, va detto, in solo mezz’ora e poi nuovamente mette essa stessa in discussione, fuorviando tutto l’assunto di partenza.

Perché alla fine Wayne Hays, corroso dall’Alzheimer, probabilmente, al pari di De Niro di C’era una volta in America, totalmente obnubilato e frastornato dalla sua malattia, depauperato e depistato dall’incoerenza dei suoi confusi, distorsivi allucinatori ricordi traumatici, si crea da solo la sua versione dei fatti. Forse per mettersi a posto la coscienza, senilmente riappacificandola nel darne una logica che, invero, non esiste o semplicemente non corrisponde alla veridicità degli accadimenti e del suo stesso interiore vissuto.

Filtra cioè l’intero senso di quest’indagine arzigogolata e complessa a immagine e somiglianza, forse enormemente erronea, della sua visione della vita. Secondo il suo preciso, umanissimo sguardo.

È stato tutto un abbaglio, un personale farsi quadrare il tempo (ricordate, a tal proposito, le emblematiche, esemplificative parole di Rust… time is a flat circle che si perpetua e riverbera ininterrottamente), un tempo infinito, indefinito, sfuggente com’è il tempo di qualsiasi persona. Un tempo non anagrafico bensì visceralmente congiunto inseparabilmente coi propri intimi sentimenti, col proprio io, col proprio subconscio, col proprio caleidoscopico animo in eterno tormento esistenziale.

Quindi, estremamente suscettibile di fallacità, persino di caducità e arrugginita lucidità.

Un tempo racchiuso nella purissima, inviolabile soggettività, nella propria incoercibile emozionalità.

Quante volte sarà successo anche a voi.

Ricordiamo qualcosa ma lo ricordiamo come a noi piace ricordarlo. Mentre al nostro amico, forse il Roland West di turno (Stephen Dorff) o a nostra moglie, alla quale piace peraltro romanzare gl’intrecci complicati, forse Amelia Reardon (Carmen Ejogo), i conti non tornano affatto o, comunque, potrebbero anche tornare, certo, ma secondo un’ottica più oggettiva, maggiormente analitica o soltanto più atrocemente, discutibilmente incredibile.

Allora True Detective 3, più che unirsi alla prima stagione, semmai assomiglia a un onirico, indissolubile torciglio assurdo e indistricabile da congiungere agli scollati pezzi del puzzle dell’altra serie “gemellare” della HBO, ovvero il capolavoro The Night Of di Steven Zaillian, scritto da Richard Price.

Cos’è successo?

Buonanotte.

 


Al momento, su FilmTv.it, mancano le foto della terza stagione.
Ma, vista questa piccola, perdonabile lacuna, per voi donne vi mostro un Colin Farrell senza testa ma col baffetto piccante mentre, per voi uomini, vi ficco Rachel McAdams, figona devastante.
Se non vi sta bene, fatete la fine di Mahershala Ali nel finale, appunto, della terza stagione.
Cioè, penserete di aver capito tutto della vita e del vostro caso ma, a mio avviso, non capiste nulla né del Cinema né delle migliori serie televisive e, detta come va detta, siete solo rimbambiti forse dalla nascita.
Anzi, sapete che faccio? Vi mostro pure Woody Harrelson e una Michelle Monaghan che conosce il gusto sexy della cravatta di un uomo che non riesce a odiare Rust Cohle nonostante Michelle fu belle anche con Rust.
Rust, uno dei più grandi bugiardi della storia. Prima, ai due poliziotti, sostiene che la via sia solo una giostra di patetiche ambizioni e, tirandosela da Hegel ante litteram, li incula. Poi, incula sia Michelle che Errol.


di Stefano Falotico

 

Woody Harrelson

True Detective (2014): Woody Harrelson

 

locandina stagione 2

True Detective (2014): locandina stagione 2

Rachel McAdams

True Detective (2014): Rachel McAdams

Michelle Monaghan, Woody Harrelson

True Detective (2014): Michelle Monaghan, Woody Harrelson

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