Regia di Sebastian Hilger vedi scheda film
Sterile, incompiuto, pretenzioso.
“Wir Sind die Flut” (We Are the Tide / Noi Siamo la Marea), lungometraggio opera seconda - dopo alcuni short(ini) e il comunque a tutt'apparenza interessante “Ayuda” - di Sebastian Hilger, classe 1984, cui seguiranno 2 tv movie, è un film sulla Zona, quella che, rimanendo ferma, continuamente muta, si estende immobile e turbinosa dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij (“Stalker” di Andrej Tarkovskij e “Dni Zatmeniya - i Giorni dell'Eclisse” di Aleksander Sokurov) sino a Jeff VanderMeer (“Annihilation” di Alex Garland), passando per molto cinema di Sarunas Bartas e alcune opere recenti quali “Monster”, “Morgenrøde” e “Everything Beautiful Is Far Away”.
Ma soprattutto è un film tanto vagamente affascinante quanto profondamente brutto.
Brutto (teneramente ingenuo e paurosamente inadatto a conferire dignità cinematografica alle proprie spropositate ambizioni narrative) in senso (in)compiutamente filmico: tecnico e stilistico. Girato mediocremente/discretamente, interpretato così così (e la direzione degli attori non aiuta), mal scritto (dalla collaboratrice abituale del regista, Nadine Gottmann), non solo per le impostazioni delle premesse, dello svolgimento e della risoluzione, ma pure per ciò che riguarda la modalità di costruzione e gestione del significante dei dialoghi, e orrendamente (ad opera concreta di Linda Bosch, che segue ovviamente le indicazioni di script e regìa) montato: il taglia e cuci, che vorrebbe – tanto quello a passo lungo legato allo svolgersi delle trame del racconto quanto quello a breve interazione interna tra sequenze susseguentisi relativo alla costruzione dei rapporti di causa-effetto e azione-conseguenza tra le scene, in dialogo e collaborazione con la sceneggiatura – essere fonte d'una scaturigine di senso, è completamente fuori fuoco/sincrono (per fare un esempio recente e non del tutto a caso, anche se però legato strettamente a inconvenienti e beghe di produzione e non di ideazione, mi tornano in mente i problemi di editing relativi a “the SnowMan”, trasferta in terra d'Albione dello svedese Tomas Alfredson atta a traslare il 7° tomo tra quelli componenti la serie del norvegese Jo Nesbø dedicata ad Harry Hole che ad oggi ne comprende 11) e finisce invece per promanare solamente una prurigine da contatto visivo: non è una questione di costruzione di una significante ingegneria del racconto, ma di mala stilizzazione prettamente tecnica: gli stacchi repentini sembra vogliano condensare una mini-serie di 3 o 4 ep. da 40-60 minuti l'uno: se non altro, ci è stata risparmiata la realizzazione della suddetta serie (ché già abbiamo, in Zona misterini: “Rain”, “the OA”, “les Revenants”, “Dark”, “the LeftOvers”, “il Miracolo”...).
( ↑ perplimimenti vari ↓ )
Per dire, tirando in ballo un film dalle ambizioni intimistico-poetiche simili ma di genere completamente o quasi differente, “Luci Lontane” di Aurelio Chiesa (da Giuseppe Pederiali) l'ho trovato un film molto più... ehm... ebbene sì, poetico, oltre che meglio interpretato [e doppiato, ma questo non c'entra: il doppiaggio di Tomas Milian è parte integrante del film, per quello della versione italiana di quest'opera di Hilger invece bisognerebbe rispolverare tutte quante (nel 2016 ha vinto il Premio del Pubblico al 34° Torino Film Festival) le Vergini di Norimberga non utilizzate per i nazisti in fuga, riciclatisi e voltagabbana] e diretto, il che è... tutto dire.
Buona la fotografia di Simon Vu. Complementari le musiche di Leonard Petersen.
“Wir Sind die Flut” è uno sterile germoglio di cemento che sboccia da un cul-de-sac narrativo fiorendo con un vicolo cieco compresso tra le infinitamente rigogliose foreste tropicali di “InterStellar” e “la Jetée”: è una deviazione lungo una linea morta speculativa, traversa della sterminata e straordinariament'evocativa via maestra dell'Hard SF, calpestata talmente tante volte, e con migliore spirito d'osservazione e creativo, d'aver esaurito – a meno che a percorrerla non vi sia un Architetto di Paesaggi modella(n)ti (sul)la fisica gravitazionale e quantistica e non un bimbominkiagigi in vena di mostrare la sua collezione di frasi fatte tirate giù dal grande libro del sentito dire in visita occasionale al Max Planck Institute di Civitavecchia – le proprie potenzialità riflessive.
Il film di Hilger – incompiuto e pretenzioso – è il Vuoto a mezzaluna e semicerchio che la bassa marea perenne ha lasciato come impronta latente di un'imago fantasmatica tra il Mare del Nord e il Mar Baltico, sulla costa di fronte al paesello epicentro della tragedia e ora zona rossa civil/militare.
Per sapere cosa è il Cinema, in Zona pifferaio magico, recuperare “the Sweet HereAfter” (1997) di Atom Egoyan (da un Russell Banks del 1991).
* * ¾ - 5 ½
Quattro film (due dei quali già citati) recenti dalle ambizioni simili, ma un po' migliori:
- Womb di Benedek Filegauf del 2010 : * * * ¼ (½) - 6 ½ (7)
- Morgenrøde di Anders Elsrud Hultgreen del 2014 : * * ¾ - 5½
- Bokeh di Geoffrey Orthwein e Andrew Sullivan del 2017 : * * ¾ (***) - 5 ½ (6)
- Everything Beautiful Is Far Away di Pete Ohs e Andrea Sisson del 2017 : * * * (¼) - 6 (6 ½)
Un film recente dalle ambizioni simili, ma decisamente migliore:
- Nooit Meer Slapen (Beyond Sleep, ovvero: Oltre il / Al di là - Alla fine del / Mai più Sonno) di Boudewijn Koole (da W.F. Hermans) del 2016 : * * * * (¼) - 8 (8 ½)
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