Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
Elegante, intenso e psicologicamente profondo: Hitchcock dimostra il suo talento nella suspense, confermando Rebecca come classico immortale.
Con Rebecca, la prima moglie (1940), Alfred Hitchcock sbarca a Hollywood e conquista subito il pubblico e la critica. Prodotto dal celebre produttore David O. Selznick e tratto dal romanzo di Daphne du Maurier, il film non è solo un raffinato dramma gotico, ma anche un viaggio ossessivo dentro l’ombra del passato. Segna l’incontro fra due personalità ingombranti — Selznick e Hitchcock — e da quella tensione nasce un’opera sospesa tra fedeltà letteraria e impronta autoriale. Il risultato è un classico immortale, che parla di amore, gelosia e del peso che i morti possono esercitare sui vivi.
Una giovane donna timida e inesperta (Joan Fontaine) sposa l’affascinante Maxim de Winter (Laurence Olivier) e si trasferisce a Manderley, la sontuosa dimora del marito. La morte della prima moglie, Rebecca, continua a influenzare ogni aspetto della vita nella villa: la governante, la signora Danvers (Judith Anderson), nutre un attaccamento ossessivo alla memoria di Rebecca, mentre Maxim porta con sé i segreti del passato. La nuova signora de Winter si trova così intrappolata in un confronto costante con la memoria di Rebecca, che pesa come una presenza e soffoca chiunque cerchi di viverci, creando tensione e insicurezza senza mai far apparire realmente la defunta.
Hitchcock abbandona i suoi thriller più diretti e si muove nel terreno del melodramma gotico, raccontando la storia attraverso la soggettività della protagonista. Manderley non è solo una villa, ma un labirinto dell’inconscio: corridoi che imprigionano, scale e saloni che schiacciano, stanze che custodiscono segreti. Ogni inquadratura è calibrata per suggerire più che mostrare, e lo spettatore vive gli eventi attraverso gli occhi di Joan Fontaine, coinvolto emotivamente e costretto a condividere insicurezze e tensioni. Fin dal prologo Hitchcock costruisce la suspense giocando sul mistero e sull’incertezza delle situazioni, inserendo imprevisti e segreti che tengono alta l’attenzione fino al colpo di scena finale. La messa in scena e il lavoro della cinepresa amplificano il senso di intrappolamento della protagonista: i corridoi, le scale e i saloni sono inquadrati in modo da far percepire la giovane donna oppressa dai dettagli e dai primissimi piani che popolano il film, rendendo tangibile l’influenza della memoria e dell’ombra di Rebecca.
La sceneggiatura, curata da Robert E. Sherwood e Joan Harrison, segue fedelmente il romanzo di Daphne du Maurier, mantenendone tensione e psicologia dei personaggi, con l’unica modifica imposta dalla censura dell’epoca: il destino di Rebecca viene cambiato rispetto al libro. Questa scelta aumenta l’ambiguità psicologica del film, rendendolo più intrigante e aperto all’interpretazione. I dialoghi sono essenziali, ogni parola misura le emozioni e le paure dei protagonisti, mentre la struttura narrativa valorizza il confronto tra la seconda signora de Winter e la presenza oppressiva della prima moglie, trasformando Rebecca in un fantasma simbolico che incombe sui personaggi.
Joan Fontaine è la seconda signora de Winter, fragile e insicura, costantemente messa alla prova dall’influenza psicologica della prima moglie. Laurence Olivier interpreta Maxim de Winter, uomo tormentato e ambiguo, segnato dai segreti del passato. Judith Anderson, nel ruolo della signora Danvers, imprime al film la sua forza: la governante ossessiva rende tangibile l’influenza di Rebecca attraverso sguardi e gesti che opprimono la protagonista.
Il film vinse l’Oscar come Miglior Film e come Miglior Fotografia in bianco e nero, mentre Hitchcock non ottenne la statuetta come regista. La produzione fu complessa, con Selznick che voleva un adattamento fedele al romanzo e Hitchcock che spingeva per una visione personale, creando un equilibrio tra letteratura e cinema. Manderley diventa simbolo della memoria e della colpa: uno spazio che riflette i conflitti interiori dei personaggi e custodisce segreti che influenzano le loro vite. Hitchcock compare anche in un breve cameo, quasi impercettibile: verso la fine del film, dopo la telefonata di Jack Favell, lo si può vedere di spalle camminare vicino a una cabina telefonica, senza interagire con i protagonisti. Come nei suoi altri film, questi piccoli dettagli non interrompono la narrazione, ma aggiungono un gioco divertente per gli spettatori più attenti.
Rebecca ha inoltre ispirato diverse versioni nel tempo: nel 1979 la BBC realizzò un rifacimento televisivo con Jeremy Brett e Anna Massey, nel 2008 la RAI portò sullo schermo una propria interpretazione diretta da Riccardo Milani con Cristiana Capotondi, Alessio Boni e Mariangela Melato, mentre nel 2020 Netflix presentò (Rebecca) un nuovo adattamento con Lily James, Kristin Scott Thomas e Armie Hammer sotto la regia di Ben Wheatley, confermando l’attrattiva senza tempo della storia.
Il film affronta temi universali: la difficoltà di vivere all’ombra di qualcuno, il senso di inadeguatezza e le paure inconsce che influenzano le relazioni. Hitchcock mostra come i fantasmi più potenti siano quelli che abitano la mente, non quelli visibili. Rebecca, la prima moglie parla di fantasmi senza mostrarne neanche uno, costruendo un racconto di tensione e desiderio dove l’amore si intreccia alla paura e il passato diventa prigione mentale. È un’opera che riflette sul potere delle ossessioni e sulla fragilità dell’identità quando confrontata con un ideale irraggiungibile, mantenendo intatta eleganza visiva e intensità psicologica a oltre ottant’anni dalla sua uscita.
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