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Marnie

Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film

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La recensione su Marnie

di Letiv88
7 stelle

Inquietante e ambizioso, un Hitchcock imperfetto ma magnetico, riconosciuto dalla critica come uno dei suoi ultimi grandi film.

Con Marnie (1964) Alfred Hitchcock firma uno dei suoi film più controversi. Non si tratta del classico thriller ad alta tensione, ma di un melodramma psicologico che scava nelle ossessioni, nei traumi e nelle dinamiche di potere tra uomo e donna. È un’opera costruita con atmosfere artificiali e una regia che punta dritto all’interiorità della protagonista. All’uscita divise pubblico e critica, ma col tempo si è imposto come uno dei titoli più enigmatici e disturbanti della filmografia hitchcockiana.

Marnie Edgar (Tippi Hedren) è una giovane donna che vive di truffe: si fa assumere con identità fasulle, ruba e sparisce. Il suo percorso incrocia quello di Mark Rutland (Sean Connery), un uomo ricco e sicuro di sé che, scoprendo il suo segreto, decide di prenderla con sé invece di denunciarla. Convinto di poterla cambiare, cerca di penetrare nei suoi segreti più oscuri, legati a un rapporto irrisolto con la madre (Louise Latham), figura fredda e distante che grava come un’ombra sulla vita della protagonista.

Hitchcock si allontana dal realismo e abbraccia l’artificio con coraggio: fondali visibilmente dipinti, colori saturi e scelte visive che sembrano più da teatro che da cinema. Non è un difetto, ma un modo per trasmettere il senso di alienazione e la fragilità psicologica di Marnie. Ogni dettaglio visivo serve a sottolineare lo stato mentale della protagonista, trasformando il film in un viaggio interiore travestito da dramma romantico.

La scelta dei colori e dei costumi non è casuale: tonalità forti come il rosso e il verde riflettono stati d’animo, traumi e ossessioni della protagonista. In particolare, il rosso funziona come una vera e propria “miccia”: in presenza di oggetti o scene carichi di questo colore, Marnie reagisce con panico o ansia, facendo emergere le sue crisi interiori.

Lo script, firmato da Jay Presson Allen a partire dal romanzo di Winston Graham, è intriso di psicanalisi. Tutto ruota intorno al trauma infantile e alle sue conseguenze, con una costruzione che oggi può apparire ridondante ma che al tempo cercava di tradurre concetti psicoanalitici direttamente in linguaggio cinematografico. Il risultato alterna momenti di grande intensità ad altri più forzati, ma rimane una scrittura ambiziosa e legata alle ossessioni hitchcockiane per colpa, sessualità e repressione.

Tippi Hedren, reduce dal successo de Gli uccelli (1963), torna come protagonista femminile in un ruolo pensato su misura da Hitchcock. Il regista voleva imporla come sua nuova musa, costruendo un’immagine glaciale e tormentata che in Marnie trova la sua massima espressione. Dietro la macchina da presa, però, il loro rapporto divenne sempre più teso: Hedren ha raccontato di essere stata isolata sul set, di aver subito pressioni personali e di essersi vista negare la possibilità di liberarsi dal contratto quando chiese di interrompere la collaborazione. Dopo Marnie, infatti, i due non lavorarono più insieme.

Sean Connery, allora all’apice della popolarità con James Bond, portò al film un carisma virile e ambiguo che si incastra bene con la fragilità della protagonista. Louise Latham, al suo debutto cinematografico, interpreta la madre di Marnie: una figura austera e fredda, che diventa il fulcro emotivo dei traumi della figlia e aggiunge un tassello fondamentale al dramma interiore del personaggio.

Come spesso accade nei suoi film, Hitchcock si riserva un piccolo cameo: all’inizio di Marnie appare come cliente dell’hotel, osserva la protagonista allontanarsi lungo il corridoio e, per un breve istante, fissa la macchina da presa.

La colonna sonora di Bernard Herrmann è uno degli strumenti principali con cui il film trasmette tensione: temi ricorrenti, dissonanze e silenzi calcolati sottolineano ansia, paura e repressione della protagonista, accentuando la sua alienazione interiore.

Marnie rimane un film imperfetto ma affascinante. Non ha la compattezza dei capolavori di Hitchcock, ma osa affrontare temi disturbanti con un approccio visivo e narrativo insolito. È un’opera che mette a disagio, spiazza e non concede vie facili, e proprio per questo continua a incuriosire e a dividere chi la riscopre ancora oggi. Secondo la critica e gli studiosi di cinema, Marnie è spesso indicato come l’ultimo film in cui Hitchcock combina con successo stile personale e ambizione narrativa, prima che i suoi lavori successivi siano generalmente giudicati meno incisivi.

Marnie (1964): Trailer originale

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