Regia di Marta Mateus vedi scheda film
"La morte apre gli occhi dei vivi."
Due generazioni a confronto: i nonni (che hanno vissuto - se non partecipandovi direttamente - la Rivoluzione dei Garofani - un cotro-golpe militare - spodestante il quasi cinquantennale regime fascista - da totalitario ad autoritario - dell’Estado Novo di Salazar - resosi defunto meno di un lustro prima - e dei suoi successori) e i nipoti, e come nazione cuscinetto, i figli (nati durante il passaggio dalla dittatura alla democrazia) degli uni e i genitori degli altri.
Brughiere, steppe, terreni brulli e lande desolate da coltivare strappandole ai sassi: linee della mano come solchi dei campi arati.
“Non esiste pane cattivo quando la fame è vera.”
Elegia contadina, elegia operaia, elegia socialista: “Farpões, Baldios” (“Barbs, Wasteland”), il cortometraggio d’esordio del 2017 dell’attrice portoghese Marta Mateus (classe 1984 e nativa dell’Alentejo, l’Oltre Tago, regione del Portogallo semi-continentale stretta fra l'Estremadura e l'Andalusia da una parte e l’Algarve e l’Oceano Atlantico dall’altra), da lei anche scritto e montato (mentre la fotografia “rurale” è di Hugo Azevedo), ma non (gli attori sono tutti non-attori) interpretato, (non) è “Novecento - Atto I e II” di Bernardo Bertolucci e “la Notte di San Lorenzo” di Paolo e Vittorio Taviani (o si consideri anche, se pur "paradossalmente" distante per forma e stile, ma non per contenuto e sostanza, il cinema tanto documentario - "o Pão" - quanto di finzione di Manoel de Oliveira) condensati in 25 minuti compresi i titoli di coda, ma – entrando in risonanza col recente e coevo, nonché finitimo e confinante, “For the Time Being / Tal Día Hizo un Año” di Salka Tiziana (Spagna, 2020), e con quell’idea di cinema primeva ed arcaica, ma puntata a diagnosticare il futuro, rappresentata dall’opera omnia di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (“Fortini/Cani”, “Dalla Nube della Resistenza”, “Sicilia!”, “Operai, Contadini”, “il Ritorno del Figliol Prodigo - Umiliati”, “Quei Loro Incontri”) –, nella sua breve e “densa” durata pone in essere un tentativo non di tarkovskianamente “scolpire” il tempo, ma di “scalfirlo”, creando un “buco di tarlo” fra le generazioni attraverso il quale le parole e gli sguardi s’incrociano e compenetrano.
“Questi campi, un cimitero a perdita d’occhio. Lì sono nati, e lì sono rimasti. I nostri morti, le nostre ombre, i nostri fiori.”
In controcampo frontale tra dicitore ed auditore due anziane raccontano ai bambini di oggi, che possono essere le loro ieri, quel che fu: il tempo collassa, precipita e si accartoccia, rinnovandosi e rinascendo.
E gl’interlocutori s’interlacciano, fra normali impossibilità a comprendersi e innata tendenza a sapersi/sentirsi famiglia: “Loro erano come noi, ma diversi.”
Una sardina da dividersi in 10, per sentirne giusto l’odore, sfregandola sulle fette di pane firmate da un filo d’olio: memorie universali, cosmopolite, collettive: e condivise: quante volte, sin da quando la memoria ci plasma, e a quali latitudini e longitudini, abbiamo già sentito questa storia portoghese, spagnola, italiana, americana, russa…
Non lazari felici, ma cittadini consapevoli: sui titoli di coda ogni attore interprete del proprio personaggio, ovvero di sé stesso, scandisce il proprio nome.
"La morte apre gli occhi dei vivi."
* * * (½) ¾
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