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Gigantes

2 stagioni - 12 episodi vedi scheda serie

Serie TV Recensione

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La recensione su Gigantes

di scapigliato
10 stelle

Dopo Reservoir Dogs (Quentin Tarantino, 1992) il noir classico, con la sua deriva decadente, titanica e fatalista, si è sviluppato in altre direzioni, partendo soprattutto dalla caper story brillate, sarcastica e avventurosa che, insieme all’hard boiled, al giallo deduttivo e al poliziesco, o meglio la detective fiction, costituiscono le varie sfaccettature del crime. Con Reservoir Dogs, Tarantino introduce nell’ossatura del caper elementi narrativi inusuali per il genere, come l’umorismo nero, personaggi e dialoghi bizzarri e fumettistici, violenza stilizzata e pulp, e un linguaggio cinematografico postmoderno fatto di citazioni, montaggi di brani di cultura pop, cronologia frammentata e barocchismi stilistici. A seguire, molti film hanno ripreso il tipico plot da caper story, su tutti l’heist movie, virando drammaticamente verso il noir puro, senza però involarsi nei territori umbratili e decadenti del genere classico. Il risultato sono crime fiction ad alto tasso di violenza e di realismo, dove l’umore o latita o è totalmente assente, e per contrario abbonda di violenza e realismo naturalista.

È in questo nuovo criminal drama che si può inserire l’ottimo lavoro di Enrique Urbizo, non certo nuovo a questo peculiare genere di crime. Urbizo è, insieme ad Alberto Rodríguez, Rodrigo Sorogoyen e Daniel Calparsoro – ai quali andrebbero aggiunti Raúl Arévalo e Dani de la Torre in attesa di verifica sul campo – uno dei migliori regista spagnoli di polizieschi, e tra i più grandi autori spagnoli insieme a Pedro Almodóvar, Álex de la Iglesia, Agustí Villaronga e Alberto Rodríguez. Suoi sono infatti titoli che hanno segnato l’immaginario cinematografico spagnolo recente come La caja 507 (2002), La vida mancha (2003) e il capolavoro vincitore di diversi premi Goya No habrá paz para los malvados (2011), tutti e tre con José Coronado.

Partito dagli ultimi anni ’80 e attraversando anche la commedia, Urbizu è arrivato agli anni 2000 con una grande consapevolezza autoriale e un’invidiabile lucidità quasi eastwoodiana nella selezione degli elementi del discorso cinematografico. Il regista bilbaíno vanta una predisposizione naturale per le storie di criminali sulla scia del noir o del polar francese, ma molto più vicine, per estetica e temi di fondo, al poliziesco italiano, di cui si possono ricordare, oltre ai titoli già citati, anche Cachito (1996) e Todo por la pasta (1991). Non è quindi un caso che Gigantes, serie originale di Movistar+, principale competitor di Netflix in Spagna, sia l’equivalente televisivo di ciò che è stato No habrá paz para los malvados per il cinema, ovvero l’apice di un percorso estetico e poetico autoriale che segna indelebilmente la storia del genere, anche dall’altra parte del “charco”, come gli spagnoli chiamano l’Atlantico. Tant’è che l’America ha accolto con grande favore e plauso questa serie. Variety, a firma di Hopewell e Granada, sentenzia che «Gigantes non è un melodramma propriamente detto; si focalizza, come suggerisce la brutale lezione di Abraham durante il castigo, sulla famiglia, su come i valori si trasmettono da una generazione all’altra e su come le ferite emotive si agitano per decenni, temi che caratterizzano la Spagna contemporanea (https://variety.com/2018/tv/global/movistar-gigantes-raises-ante-for-original-series-1202951517)».

Una serie che marca una distanza netta con le serie Netflix spagnole che, va detto, per il momento non raggiungono l’alto livello qualitativo, sia tecnico sia artistico sia narrativo, delle serie targate Movistar+ (per intenderci Las chicas del Cable (2017-in corso) ed Élite (2018-in corso) – entrambe di buona fattura e ottimo successo - contro Gigantes, La peste (Alberto Rodríguez, 2017), La zona (Sánchez-Cabezudo, 2017), Vergüenza (Cavestany/Fernández Armero, 2017), Velvet Colección (Campos/Neira, 2017-in corso), Félix (Cesc Gay, 2018), El día de mañana (Mariano Barroso, 2018), Matar al padre (Mar Coll, 2018), Arde Madrid (Paco León, 2018), Skam España (Álvarez/Ayerra, 2018), El embarcadero (Álex Pina, 2019) [La casa de papel (Álex Pina, 2017-in corso) viene acquisita solo in seconda battuta da Netflix]. Distanza che sta tutta nell’idea di cinema di Urbizo, benché qui si tratti di prodotto seriale, e soprattutto nella poetica che ha espresso recentemente nei suoi film.

Il criminal drama di Urbizo è ipermascolino, testosteronico, animalesco e perfino esperpentico nel tratteggio di alcuni personaggi, soprattutto il patriarca Abraham interpretato da José Coronado, attore feticcio di Urbizo e uno dei più grandi attori di Spagna, paragonabile solo a Javier Bardem, che qui purtroppo appare, in tutta la sua furia recitativa, solo nel primo episodio, regalandoci comunque un enorme personaggio scespiriano, governato dalla tradizione e dal castigo, dalla vendetta e dalla crudeltà. Gigantes è, dopo tutto, un racconto sanguinario, violento, duro e fratricida, dove tre fratelli, educati come cani da combattimento dal padre Abraham, lottano uno accanto all’altro e uno contro l’altro per sopravvivere nel mondo criminale che il padre aveva creato decenni prima e che ora, a causa dei cambiamenti globali, sta cambiando per sempre, o peggio, si sta estinguendo.

Non si sta estinguendo il crimine in sé, questo purtroppo sopravvive come sopravvivono le montagne e i mari, tant’è superiore al concetto di umano, nonostante sia nato con l’uomo, bensì, secondo Urbizu, si sta estinguendo una società fatta di uomini disprezzabili che fanno degli stereotipi machisti, come la forza bruta, l’estetica muscolare, l’enucleazione brancale, l’aggressività e la sessualità, degli strumenti di potere. Inoltre, il regista mette in scena un tema topico della cultura spagnola moderna: la violenza che si tramanda di generazione in generazione. Purtroppo, la Spagna cainita nata con la Guerra Civil non si è ancora assopita, e viene rappresentata da Urbizo ad ogni confronto tra fratelli, soprattutto nella lotta fratricida, ben esemplificata nel corpo a corpo tra il fratello maggiore e il minore nel campo sinti per riavere quest’ultimo vivo, che animalizza ulteriormente i personaggi trasformandoli in cani da combattimento.

Non vanno però sottovalutati i personaggi femminili, altro elemento narrativo di punta della serie. Apparentemente marginali, le donne di Gigantes prendono spazio poco alla volta e sembrano ipotizzare un clamoroso cambio generazionale: mentre il mondo machista è in decadenza – cosa che la cronaca degli ultimi vent’anni smentisce – quello femminile prende sempre di più il suo posto e si rifà sul potere fallocentrico. Un esempio è l’agente Ángela Márquez che tra lotta al narcotraffico e colleghi corrotti terrà testa al mondo maschile e potente che la circonda. Ma per una donna retta e giusta, c’è n’è un’altra, poco più che adolescente, la figlia del secondogenito, interpretato da Daniel Grao, che alla fine della prima stagione dà chiari segnali d’interesse per le attività illecite del padre.

Un quadro sicuramente costumbrista, ma non folklorico. Un racconto complesso che articola temi importanti, universali e attuali, in una modulazione narrativa enucleata attorno alla mitologia ipermascolina delle organizzazioni criminali, retta su uno strano e paradossale senso dell’onore, del rispetto gangsteristico, dell’atto dovuto e del diritto a violare e a delinquere; inclinazioni rappresentate dall’estetica bruta che Urbizu attinge dalle tare socioculturali del milieu urbano come l’ossessione e l’ostentazione per il lusso e la fisicità muscolare, il culto spartano per il confronto fisico e violento che sostituisce il dialogo, un comportamento sessuale aggressivo e insensibile verso le donne, il pericolo come un eccitante. Tutte tare che gli studiosi ricollegano in buona parte alle immagini distorte divulgate dai media come la pubblicità, il cinema e i videogiochi, dove l’uomo seduce e domina la donna solo se muscoloso, esteticamente perfetto e stereotipato, risolve problemi con l’uso della forza e delle armi e, nei videogiochi, segue la linea narrativa prestabilita e guidata, fatta di sangue e violenza, per intrattenersi.

Ad un facile iperrealismo, Urbizu preferisce un realismo naturalista che si rintraccia nella genuinità degli ambienti e dei dialoghi. La messa in scena è stilizzata in efficacia espositiva, chiara, minimale ed evocativa, dove nulla è di troppo – e qui ritorna Eastwood – e i dialoghi sono innervati da questioni prioritarie per questa tipologia di maschio alfa, come la violenza, la corruzione, il machismo, il razzismo, il classismo, l’avidità. In aiuto a questa estetica atta ad articolare l’urgenza autoriale di Urbizu, arriva una grammatica cinematografica riadattata per la serialità televisiva che interrompe la tradizione generalista delle serie tv spagnole. Gigantes è infatti strutturata su ellissi narrative interne a ogni episodio e tra un capitolo e il successivo, ricercando così non un pubblico stanco e assuefatto, bensì un pubblico attento e partecipe, capace di aggiungere le informazioni omesse. La rottura con la liturgia generalista delle spiegazioni, dei riassunti e dei passaggi puramente informativi, è realizzata da Gigantes proprio grazie all’idea di cinema del suo autore. Ellissi, montaggio interno, chiarezza narrativa e set pieces dosate, stacchi corretti ed efficaci, inquadrature leoniane, assonanze visive, tutto concorre a rappresentare con taglio realistico e al tempo stesso evocativo, mitologico, il mondo criminale in estinzione creato da Urbizu. L’estinzione della mascolinità in luogo dell’ipermascolinità, che per non estinguersi necessita attivare tutto il proprio armamento machista e marziale per sopravvivere.

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