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Qualcuno deve morire

1 stagioni - 3 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Qualcuno deve morire

di scapigliato
9 stelle

La Spagna franchista del dopoguerra è ancora oggi per molti spagnoli e non, una ferita difficilmente sanabile, esattamente quanto la ferita della Guerra Civile stessa. Se quest’ultima ha diviso in due un paese e la sua popolazione, contrapponendo vicino con vicino, fratello con fratello, padre con figlio, in un’esaltazione di odio, violenza e morte, ciò che alla guerra è seguito non è stato da poco. La dittatura di Francisco Franco assumeva il cattolicesimo più primitivo e oscuro come codice morale, convertendo in crimine tutto ciò che fosse contrario alla morale cattolica. Il franchismo è stata la più perfetta dittatura cattofascista della storia. I brandelli di quel massacro, dove non morirono solo esseri umani, ma anche dignità, libertà, amore, pluralità e tante altre belle inclinazioni umane, è stato più volte raccontato dalla letteratura e dal cinema.

È vero, in Spagna ci si questiona, o ancora si aspetta, il grande romanzo definitivo sulla Guerra Civile; credo però, che anche tra le opere che raccontano gli anni peggiori del franchismo – i ’40 e i ’50 – si potrebbe trovare il racconto definitivo di quell’orrenda ferita che la Spagna porta con sé e che non ha ancora né rimarginato né battuto. Non va dimenticato infatti che l’attuale Partido Popular è nato grazie all’opera di ex-franchisti. Ed è solo il primo di tanti esempi con cui si potrebbe confermare la vitalità dell’ideologia franchista nella Spagna di oggi – come del fascismo nell’Italia odierna. Dopotutto, come tutti i fascismi che aspirano a dominare un popolo attraverso il plagio, la menzogna, la superstizione, la violenza e la coercizione, anche il franchismo si nutre della scarsa memoria del proprio paese per poter sopraffare la democrazia con i mezzi più bassi e meschini che ha a disposizione, tra costrizioni umilianti e limitazione delle libertà fondamentali.

Per tutto questo e per molto altro, produzioni come Alguien tiene que morir firmata dal regista messicano Manolo Caro, sono necessarie e urgenti per tenere viva la memoria e non dimenticare che basta abbassare di poco la guardia perché la montagna dell’ignoranza partorisca il topolino dell’ingiustizia. La colmena (Camilo José Cela, 1951), Duelo en el paraíso (Juan Goytisolo, 1955), La plaza del diamante (Mercé Rodoreda, 1962), El cordero carnívoro (Agustín Gómez Arcos, 1975), Madrid 1940 (Francisco Umbral, 1993), El vano ayer (Isaac Rosa, 2004), La higuera (Ramiro Pinilla, 2006), Donde nadie te encuentre (Alicia Giménez Bartlett, 2011), El lector de Julio Verne (Almundena Grandes, 2012), Ayer no más (Andrés Trepiello, 2012), La vida cuando era nuestra (Marian Izaguirre, 2013), Fosa común (Javier Pastor, 2016) e moltissimi altri romanzi, oppure film, uno su tutti Balada triste de trompeta (Álex de la Iglesia, 2010), cercano, chi più chi meno, chi per un verso chi per un altro, chi direttamente chi indirettamente, di non permettere agli anni bui e crudeli della dittatura di finire nel cassetto del buonismo revisionista.

Anche la serie in tre episodi scritta e diretta da Manolo Caro per Netflix persegue questo obiettivo e ci riesce perfettamente. Non solo vanta un ottimo cast in cui domina incontrastata Carmen Maura, diabolica come altre perfide donne della serialità spagnola – Adriana Ozores in Gran Hotel (Campos/Neira, 2011-2013) e Concha Velasco in Las chicas del cable (Campos/Neira, 2017-2020) – e dove tre giovani attori reggono da soli il dramma e la tensione narrativa, Carlos Cuevas, Alejandro Speitzer e il ballerino messicano Isaac Hernández, ma ha anche il pregio di maneggiare con maestria un argomento difficile e rischioso tanto quanto ambiguo qual è stata la società spagnola conservatrice e tradizionalista dell’epoca, votata alle regole machiste della chiesa cattolica e della mitologia marziale, e di innervarlo con altre tematiche, più contemporanee ma ugualmente storiche e cosmiche, come appunto l’omosessualità, la libertà sessuale, l’adulterio e tutto ciò che può ruotare intorno alle passioni più umane, più sanguigne e incontrollabili. Proprio come incontrollabile è la tensione violenta e aggressiva di una società aristocratica votata all’usurpazione e alla sopraffazione dei più deboli.

Perfetta quindi, la rappresentazione di quella società attraverso il punto di vista della passione amorosa e sessuale, dell’amore per un figlio e dell’ambiguità degli affetti, contraddittori o anche solo opportunistici. Le simbologie che si utilizzano nella rappresentazione di tale spaccato sociale, come il torneo di tiro al piccione o l’erotismo delle armi, aiutano a smascherare l’animalità e la depravazione della classe ricca e dominante in epoche di crisi e sotto dittatura. Il risultato finale, ottimo per quanto riguarda l’aspetto estetico, ma anche tecnico e strettamente artistico – direzione e recitazione – è un melodramma senza troppe concessioni al sentimentalismo, quanto piuttosto alla crudeltà del realismo e al ritmo incalzante della vicenda. Dimostrazione, inoltre, che storie senza sfasature temporali o più linee narrative, ma piuttosto ben radicate nell’unità di tempo, luogo e azione sanno essere ben più incisive e catalizzanti di altre.

Un unico piccolo difetto lo si può comunque riscontrare. Come al solito, in un dramma il cui tema principale è il turbinio carnale ed erotico, non c’è forma a questo contenuto, se non lievemente abbozzata – Carlos Cuevas nelle docce che soffre la propria omosessualità, Cecilia Suárez che contempla il corpo mezzo nudo di Isaac Hernández, e lo stesso Hernández nudo da tergo nel momento in cui la nudità diventa l’arma per la rivoluzione e, più narrativamente parlando, per la risoluzione della vicenda. Non viene concesso null’altro al visibile.

In più, la sceneggiatura pecca di una battuta banale che dimostra quanta strada bisogna ancora fare per scrollarsi di dosso falsi miti e ossessioni pornografiche che non giovano ad una vera e serena rivoluzione sessuale, soprattutto per aiutare i più giovani di accettarsi serenamente, senza turbe di nessun tipo. Ovvero, nel racconto che il personaggio di Gabino (Alejandro Speitzer) fa della sua prima esperienza sessuale, descrive il membro del ragazzo come “enorme”. Mai un pene normale, quindi reale e ugualmente apprezzabile, nelle narrazioni a tema sessuale. Il racconto del corpo maschile ha bisogno di essere normalizzato.

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