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Fariña - Cocaine Coast

1 stagioni - 14 episodi vedi scheda serie

Serie TV Recensione

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La recensione su Fariña - Cocaine Coast

di scapigliato
10 stelle

Nel settembre del 2015, il giornalista Nacho Carretero pubblica per Libros del K.O. Fariña. Historia e indiscreciones del narcotráfico en Galicia dove racconta come iniziò il traffico di droga in Spagna agli inizi degli anni ottanta, quando i contrabbandieri di tabacco delle coste galiziane passarono gradualmente all’importazione di cocaina dalla Colombia. Il libro in questione, a causa della chiarezza con cui parla di fatti, numeri, nomi e cognomi, fu subito oggetto di fervido interesse e non mancarono le critiche. Una arrivò dall’ex sindaco di O Grove, Pontevedra, citato solo rapidamente nel libro di Carretero e che nel 2016 denunciò sia l’autore che la casa editrice per ingiurie e calunnie. Il 5 marzo del 2018 il libro viene ritirato dal mercato, compreso quello online, violando per molti la libertà di stampa ed espressione proprio durante un governo repressivo e palesemente corrotto come quello di Rajoy, anch’egli citato nel libro, ma come avversario dei contrabbandieri che volevano entrare in Alianza Popular per godere di favoritismi clientelari di matrice politica. Il ritiro del libro, e la sua lettura proibita, viene revocato il 22 di giugno del 2018 dalla Audiencia Provincial de Madrid, e rimesso in circolazione con ottime vendite e una serie televisiva di Antena 3 trasmessa già dal febbraio 2018.

Diretta da Carlos Sedes, regista di alcune delle serie tv spagnole più importanti, seminali e meglio realizzate del momento come Gran Hotel (Campos/Neira, 2011-2013), Velvet (Campos/Neira, 2013-2016) e Las chicas del Cable (Campos/Neira, 2017-in corso), le prime due per Antena 3 e l’ultima per Netflix, è una delle serie spartiacque non solo della serialità spagnola, ma del linguaggio seriale stesso, soprattutto per quanto riguarda l’approccio al genere con nuove soluzioni tematiche, nuovi registri e nuovi linguaggi. Tant’è che queste serie spartiacque – rapidamente: La casa de papel, La peste, Fariña, Gigantes e a modo suo anche Gran Hotel – hanno già riscosso un ottimo successo di critica oltreoceano.

Il successo della serie non sta solo nei contenuti narrati – il traffico di droga che muove i suoi primi passi nella Galizia degli anni ottanta fino ad interessare anche Madrid e quindi la politica, la finanza, l’industria – ma soprattutto nella forma con cui questi vengono raccontati. Ogni episodio, come il libro di Carretero, è intitolato come l’anno di riferimento dei fatti narrati, coprendo un arco di tempo che va dal 1981 al 1990. Fondamentale quindi eliminare dalla narrazione tutto ciò che è superfluo, a costo di non dare respiro allo spettatore o fare salti temporali notevoli sia all’interno di ogni episodio sia tra un episodio e l’altro – ricetta seguita poi da Urbizo per Gigantes (2018).

Questa modalità di racconto, rapida, veloce, ritmica, quasi fatta di sole scene madri, è la prima grande differenza con la classica serialità spagnola ed il primo notevole apporto ad una nuova onda autoriale della serialità europea. Questa precisa forma implica innanzitutto che lo spettatore sia attivo e non passivo, scelta coraggiosa per una serie trasmessa su un canale generalista come Antena 3, più famosa per i drammi romantici o in costume prodotti spesso da Bambú Producciones e scritti quasi esclusivamente dagli autori di punta Ramón Campos e Gema N. Neira, gli stessi di Fariña – il che segna un cambio di prospettive anche per i creatori – dove gli episodi durano, come nella serialità italiana, intorno all’ora e un quarto, per poter in primo luogo riempire i vuoti narrativi con scene descrittive mostrando così la grandezza e la bellezza di location e set decoration per sedare il pubblico domestico ammaliandolo con la sola apparenza, e in secondo luogo per poter avere lo spazio sufficiente per presentare più linee narrative ed accontentare così più fasce di pubblico possibile. In Fariña, i cui episodi durano tanto quanto le fiction generaliste della stessa emittente, Antena 3, questo però non accade. L’idea di base è diversa e l’intenzione ultima pure: quella di arrivare a un pubblico preciso. Inoltre, la quantità di fatti e storie da raccontare, di personaggi su cui focalizzarsi è tale che i circa 70 minuti di ogni episodio sembrano davvero pochi. L’ottimo lavoro di sceneggiatura è alla base non solo del successo di Fariña, ma della nuova forma con cui autori spagnoli di prestigio si stanno avvicinando alle serie televisive.

Questa forma, implica anche un nuovo approccio linguistico alla narrazione. La forma è il contenuto, e così, il ritmo trepidante con cui assistiamo allo svolgersi dei fatti è lo stesso con cui il protagonista, Sito Miñanco, si eleva a leader dell’organizzazione. Una brama di potere e rivalsa, lui figlio di pescatori e contrabbandieri, che non gli concede il tempo per riflettere, permettendosi pure di giocare con la vita di amici e famigliari. Javier Rey, attore coruñés originario di Noia, paesino di mare che si affaccia proprio sulle rías dove contrabbandavano i personaggi di Fariña – che vuol dire appunto “farina” in galiziano (in spagnolo è harina) - dà volto e corpo a questo leader scespiriano, animato da buone intenzioni, ma che sceglie il modo sbagliato per conquistarsi il suo ruolo nel mondo. La severità dell’attore e la sua recitazione nervosa, lo pongono al vertice di un ottimo cast che va da un dolente è gigantesco Tristán Ulloa, nei panni del detective Castro, acerrimo nemico di Miñanco, ad Antonio Durán, caratterista di grande potenza che dà vita a Manuel Charlín uno dei più spietati degli “affaristi” galiziani, o almeno questo è il ritratto che ce ne fa il grande attore, regalandoci un cattivo tra i meglio riusciti dell’immaginario televisivo. E anche Tamar Novas, Isabel Naveira e Manuel Lorenzo ci restituiscono personaggi più grandi del loro nome e della loro storia, tutti perfettamente iconizzati dai loro rispettivi attori.

Non va dimenticato, sempre da un punto di vista tecnico, il grande lavoro di fotografia e montaggio che sta alle basi del successo estetico di Fariña, una serie che non concilia il pubblico medio per puntare ad un pubblico esigente, abituato a format stranieri e a storie poco spagnole. Con Fariña invece, il pubblico può divertirsi anche da un punto di vista puramente ludico, godendosi un prodotto di ottima fattura, che non si risparmia nella rappresentazione del nudo, del sesso e della violenza, modulato in un crescendo tale che il climax finale, l’arresto dei trafficanti, è desiderato e voluto spasmodicamente fin dalla prima puntata. Inoltre, il pubblico può interessarsi anche a una storia tutta spagnola – e direi italiana, tanto è forte il filo socioculturale e politico che ci unisce ai nostri veri cugini, gli spagnoli, non certo i francesi – ricercando nei fatti e nei nomi di un passato recente, uno specchio non ancora del tutto deformato in cui rispecchiarsi.

Fariña è quindi più efficace di Narcos (Brancato/Newman/Bernard, 2015-2017), che tratta argomenti lontani, quasi esotici se vogliamo, depotenziando la carica politica della produzione, e più vicina, per intenti, ai lavori del più politico tra i grandi registi spagnoli di oggi, Alberto Rodríguez, che sembra tirare la volata agli autori e al regista con La peste, dopo aver preparato il terreno per l’analisi della Spagna noventera con Grupo 7 (2012) e El hombre de las mil caras (2016). Ed è più efficace, e ovviamente tecnicamente ed esteticamente migliore, anche della serie gemella  Vivir sin permiso (Aitor Gabilondo, 2018), anch’essa ambientata nelle rías galiziane tra trafficanti di droga che si fanno la guerra da soli sul modello dei narcos colombiani – in un certo senso è il sequel di Fariña perché ne narra il lascito verosimile.

Purtroppo, Vivir sin permiso, targata Telecinco, seppur tratta da un racconto di Manuel Rivas, uno degli scrittori e poeti più rappresentativi delle lettere spagnole contemporanee e padre dell’attore Martiño Rivas, e nonostante un cast di razza su cui svetta José Coronado, boss locale che inizia a soffrire di Alzheimer, è strettamente ancorata non solo alle trame generaliste del family drama di base femminile – bugie, pettegolezzi, invidie, rancori, etc… - ma patisce l’estetica tipica dei prodotti Mediaset, in cui la finzione è regolarmente tradita dalla puerilità della messa in scena. Vivir si permiso si salva solo per le prove maiuscole di José Coronado e Luis Zahera, due dei migliori attori spagnoli di sempre, oltre ad Álex González, Álex Monner e Patric Criado. Gli ultimi due, nonostante le loro interpretazioni macchiettistiche, il primo omossessuale del tipo drama queen con pose innaturali e plastiche, e il secondo un messicano ambiguo ed equivoco dal marcato accento latino e dai movimenti ipertetrali, sono in realtà un piacere per lo spettatore attento alla recitazione. Un pugno di scene madri con gli attori protagonisti che fanno a gara di bravura e battute lapidarie e be scritte, fanno il resto. Va anche detto, a favore della serie di Gabilondo, che tra l’interessante espediente drammatico della demenza degenerativa di un boss intoccabile ed onnipotente, parabola forse di un mondo, quello criminale, sempre più instabile e ingestibile, e gli affondi, anche se retorici e didascalici, contro il fascino della vita da narcotrafficante che oggi tra cinema, tv e musica trap sta pericolosamente attraendo molti giovani, è una serie di carattere che merita almeno un’attenta visione.

Fariña quindi, risulta essere una serie che tra genere puro o ibridazioni di genere, come tra poliziesco, noir, crime e western – come le inquadrature dei duelli verbali tra caratteri opposti, soprattutto il duello perpetuo tra Miñanco e il detective Castro – e nuove forme narrative dettate da nuove libertà produttive e distributive, proprio come succede La peste (Alberto Rodríguez, 2018) e Gigantes, ha segnato la nuova onda dell’autorialità seriale europea.

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