1 stagioni - 6 episodi vedi scheda serie
Da parecchi anni a questa parte, Woody Allen ha abituato il pubblico a un nuovo film ogni anno; nel 2016, ha aggiunto a Cafè society la sua prima, e probabilmente unica (almeno a sentir lui), incursione nella serialità che, a tutti gli effetti, somiglia pericolosamente a un lungometraggio, solamente un po’ più lungo del solito - nemmeno troppo poiché si superano di poco le due ore - con (alcuni) tagli chirurgici a sancire la divisione in episodi e un paio di cliffhanger (un rumore allarmante, un’esplosione), ma la struttura rimane assai vicina a quella di un (suo) film tradizionale.
In prima battuta, traspare la sensazione che sia stato pensato, e realizzato, in tempi stretti, ma d’altro canto i vezzi sono tipicamente suoi, tali da uscirgli dalla sua storica macchina da scrivere senza bisogno di ricamarci troppo, con cavalli di battaglia, e di ritorno, in abbondanza.
New York anni ‘60, Sidney Munsinger (Woody Allen) sta pensando di realizzare una serie televisiva quando la sua vita familiare è sconvolta dall’irruzione di Lennie (Miley Cyrus), una rivoluzionaria convinta, inseguita dall’Fbi.
Sidney teme per la sua sicurezza e vorrebbe cacciarla, ma sua moglie Kay (Elaine May) si oppone, diventando ben presto una fervente sostenitrice dei principi esposti dalla ragazza. In più, Alan (John Magaro), giovane ospite fisso e prediletto di casa Munsinger, s’innamora di lei mettendo a repentaglio quello che fin lì sembrava essere il suo futuro scritto insieme a Ellie (Rachel Brosnahan).
Per tutti il tempo scarseggia, i rischi aumentano, mentre Lennie progetta la sua prossima mossa.
L’aspetto più piacevole di Crisis in six scenes, risiede nel ritrovare impegnato il Woody Allen attore, poco attivo, tanto più in opere di cui lui stesso è intestatario, da parecchi anni a questa parte.
Ricaschiamo in tante frenesie tipiche delle sua identità cinematografiche, tra la paura di ammalarsi e poi morire, la preoccupazione di vedere la propria vita compromessa (in questo caso, con l’incubo della prigione), impegnato in inderogabili azioni rituali (i cibi che la nuova arrivata gli sottrae), con riflessioni su storia, cinema e letteratura che finiscono spesso per concatenarsi.
Attorno al suo personaggio, e a quelli di Miley Cyrus ed Elaine May, esplode lo scontro tra la borghesia liberal, che pensa parecchio, parla ancora di più ma poi non attua alcunché, e lo spirito rivoluzionario che al contrario sceglie di prendere in mano le redini del suo destino, costi quel che costi. Ovviamente, la descrizione ha un piglio prevalentemente giocoso, anche se alcune battute lasciano strascichi, e la netta prevalenza di colori autunnali accentua soprattutto la componente più tardiva (due personaggi principali, e tanti altri secondari, sono comunque ben oltre gli ottanta).
In aggiunta, il duetto tra Woody Allen ed Elaine May è felicemente assortito, mentre Miley Cyrus, anche grazie a una voce fuori asse per tonalità, è un incomodo sorprendente.
Così, il tourbillon di battute regge buona parte dell’impalcatura - insieme ad alcune parentesi anche molto gustose, penso all’invasione casalinga che apre l’ultimo episodio o alla missione valigetta - ma generalmente gli sviluppi sono mitigati, rimarcando una fatica piuttosto accentuata a evolversi. Sensazione che prevale soprattutto nell’atto finale, quando pare si sia semplicemente voluto raggiungere l’obiettivo minimo, ovvero i minuti necessari, visto quanto è tranciante, improvviso e cadenzato dal sapore dell’improvvisazione.
Alla fine, di serialità ce n’è proprio poca, così che, come in tanti dicono che buona parte del cinema di Woody assomiglia a se stesso, potremmo pensare ad alcuni dei suoi titoli come a un’ipotetica serie antologica e con lo stesso metro, Crisis in six scenes potrebbe tranquillamente ricostruirsi su infinite storie, anche intitolandosi in tutt’altro modo.
Un esercizio in salsa allenniana, con un respiro un po’ corto ma non per questo esautorato.
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