
Come certamente saprete, nel naufragio di un'imbarcazione piena di migranti affondata al largo della costa di Crotone sono morte più di 70 persone. Le circostanze in cui questo fatto è avvenuto sono state ampiamente discusse in questi ultimi dieci giorni, molto nel dettaglio, e non credo sia utile andare a ripercorrere le tappe principali di questa dialettica che si sono concentrate un po’ su tutti gli aspetti: dinamica, reazioni, responsabilità, soluzioni. Un vero e proprio balletto, anzi una danza macabra, tra rappresentanti del potere e media che non si è ancora esaurita e che ha dominato la scena coinvolgendo il pubblico, nel senso di spettatore.
Spettatore anche io, a distanza, mi sono trangugiato tutto. Le ricostruzioni, le dichiarazioni delle figure istituzionali, le polemiche sulle dichiarazioni del potere, le risposte alle polemiche sulle dichiarazioni del potere e così via. Un ammasso di informazioni che mi ha permesso di giungere ad un’idea abbastanza precisa sulla dinamica dei fatti ma anche di percepire uno strano sentimento di scollamento che ho sentito la necessità di indagare, a distanza di qualche giorno.
Per compiere questa indagine personale sono partito dalle immagini che sono riuscite a resistire al frullato di informazioni al quale, suppongo come voi, mi sono intenzionalmente sottoposto. La prima immagine è quella del comitato istituzionale di cui faceva parte il Ministro degli Interni Piantedosi, accompagnato da alte cariche della Guardia di Finanza, sulla spiaggia di Cutro il giorno dopo il naufragio. Il mare ancora agitato sullo sfondo, l’esiguo drappello di persone vestite di grigio o in uniforme che si staglia in primo piano, figurine ritagliate e appiccicate lì, sulla battigia, anzi no, su una specie di passerella composta da blocchi di cemento. Il linguaggio non verbale dei loro corpi, le scarpe nere intonse del ministro - che non è stato capace di muovere neanche un passo verso una vera direzione ed è restato inchiodato per tutto il tempo al riparo perfino dalla sabbia - hanno generato in me la domanda: cosa diavolo stanno facendo lì?
La seconda immagine che non si scolla è quella del Presidente Mattarella che cammina tra le bare e poi si ferma alcuni minuti davanti a quella contrassegnata dalla sigla KR46M0. Anche in questo caso a colpirmi, a restarmi sulla retina, è il linguaggio non verbale del suo corpo, quei rari movimenti contenuti, quella totale immobilità, così piena, invece, di senso.
Poi ci sono le scarpe, altre scarpe. Decine e decine di scarpe da ginnastica. Inquadrate dal servizio di Diego Bianchi (Propaganda Live, venerdì 3 marzo). Ammassi di scarpe abbandonate sulla spiaggia, di notte. Residui, avanzi di umanità residuali. Scarpe che hanno percorso centinaia e centinaia di chilometri e poi sono finite così, strappate dai piedi che li hanno percorsi, arenate su quella spiaggia, insieme ad un ammasso di vestiti e povere cose.
Poi, sempre nel reportage di Propaganda, ci sono le mani di quel pescatore che ha guidato Diego Bianchi giù da una collina fino alla baia del morto, quelle mani che frugano tra i borselli abbandonati sulla riva. Quegli indizi di vita così personali, il cellulare di qualcuno, i fazzolettini di qualcun altro, un corano. Un'invasione che mi ha fatto star male.
E quegli stivalacci, quelle galosce con cui, sempre il pescatore, cammina sulla posidonia depositata dalla burrasca, quella sensazione di camminare su un pantano incerto e osceno nel terrore che le alghe potessero nascondere qualcosa. La vibrazione nelle parole, quel che si dicono, come si parlano. Quell'empatia debordante, mischiata al rumore del vento.
E poi, infine e certo, la conferenza stampa in cui il Ministro degli Interni dice quelle cose. Come le dice. Le espressioni che accompagnano le sue parole. Le parole che sceglie.
E improvvisamente la vedo. Quella sensazione di scollamento, quel desiderio di rifugiarmi, di allontanarmi, di rintanarmi nelle mie piccole cose, per inadeguatezza davanti ad una cosa così grande. La radice del mio malessere sta anche nella dicotomia di queste immagini. In questo banale gioco di opposti e di opposizioni. A fronte di un ministro incapace di muovere un passo, di sporcarsi le scarpe, di spingersi al di là della passerella, i media sono costretti (?) a rinforzare la dose, a sporcarsi le mani con la retorica, con il patetismo, spingendo lo zoom dell'obiettivo, o la portata delle parole, dove non si dovrebbe, dove bisognerebbe assolutamente fermarsi. Per un Piantedosi che non muove un sopracciglio, per una Meloni che non si presenta, c'è un Mattarella che resta paralizzato davanti a KR46M0. Ad un ministro incapace di mostrare alcuna empatia (o anche semplicemente un grado accettabile di umanità) e, invece, capace di attribuire reali responsabilità a chi fugge dalle bombe o da regimi oppressivi, si finisce per rispondere con un eccesso di trasporto emotivo che rischia di spettacolarizzare la tragedia, sperando, forse, che il risultato di questi due opposti si trasformi per miracolo in un'informazione equilibrata. Ma no, non funziona così.
Perché quello che succede è che questi due opposti determinano in chi assiste una specie di paralisi. E un senso di isolamento. Certo c'è l'indignazione, ma anche lei, l'indignazione, i "Vergogna", fanno parte del gioco dei ruoli. Ne ha parlato in maniera come sempre chiarissima Noam Chomsky nei numerosi saggi e articoli che ha dedicato all'argomento: la radicalizzazione della dialettica tra media e potere è un meccanismo che ha sempre come conseguenza la riduzione dello spettro del dibattito, l'alternanza strategica di toni di segno opposto comporta sempre una riduzione drastica delle cose di cui si parla, sulle quali ci si confronta davvero, inibendo qualsiasi cambiamento. E ha come effetto secondario, o principale?, quello di paralizzare e isolare l'individuo, alimentando la sensazione che questi argomenti che generano reazioni così opposte - forse proprio perché generano risposte così contraddittorie - siano alla fine troppo complessi per noi, poveri, semplici spettatori.
Ad aggravare la situazione c'è la consapevolezza che laddove il potere usa la propaganda per sedurre, fomentare, inseguire il suo elettorato, il comparto dei media è composto da imprese con fini economici, per le quali la notizia, l'articolo, il reportage sono prodotti diretti ad un'audience. Che anche se non paga direttamente, paga trasversalmente in quanto oggetto di messaggi pubblicitari comprati da aziende interessate alla sua attenzione. Quindi la visione di Chomsky è cospirativa. Nel senso che lui ci vede una intenzionalità in questo rapporto, una collaborazione fattiva, razionale, finalizzata esattamente alla nostra paralisi e alla riduzione del nostro status a quello di semplice consumatore/spettatore, un sistema dal quale neanche il nostro amato cinema e, ovviamente, la televisione sono esclusi.
O forse media e potere si comportano, invece, come una coppia che risponde in maniera inconscia cercando una via intermedia, un compromesso tra opposti, e quando uno dei due, ad esempio, alza troppo la voce con i figli, quando diventa troppo autoritario, l'altro è quasi costretto a rimodulare il tono. Nel migliore dei casi il sistema funziona, anche perché poi i figli crescono e se ne vanno, ma anche nelle coppie questa dinamica può generare dei mostri divorati dalla solitudine, figli incapaci di emanciparsi dall'uno o dall'altro genitore.
Invece in questa nostra epoca è quasi impossibile emanciparsi dalla coppia Media/Potere e ovviamente più il potere è autoritario e radicale nei suoi valori (e nei toni con cui sceglie di condividerli), più questa compensazione - consapevole o inconscia che sia - rischia di essere marcata e sbilanciata, più noi rischiamo l'isolamento.
Eppure c'è una cosa, da irriducibile ottimista, che mi porto dietro da questa storia e che, ancora, si basa sulle immagini che mi sono arrivate addosso in questi giorni. La circospezione con la quale quel pescatore camminava sul pantano di alghe, le parole pesanti e dolorose eppure non prive di una consapevole ironia dell'ex dirigente di Polizia e medico Orlando Amodeo, l'atteggiamento fiero e resiliente delle tante persone riunite in silenzio davanti all'edificio in cui erano state depositate le bare, la dedizione dei sommozzatori impegnati nelle operazioni di recupero. Figure non protagoniste che sapevano benissimo come comportarsi, cosa fare e cosa dire e che, sebbene siano apparse solo per pochi istanti, mi hanno lasciato la sensazione che noi possiamo, ancora, essere migliori di loro.
Anzi, di Loro.


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