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Novecento atto I

Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Novecento atto I

di Dany9007
7 stelle

Come ribadito da molti, è impossibile scindere quest’opera monumentale da una profonda connotazione politica alla quale il regista ha voluto completamente legarsi. Difatti erano anni in cui il cinema, fosse esso storico, poliziesco o persino western, difficilmente riusciva ad imporsi senza introdurre elementi di denuncia sociale, di riscatto o di critica agli standard del contesto contemporaneo. Novecento sviluppa un crescendo di tensione proprio in questo senso virando quindi dalla descrizione già opprimente della prima parte, relativa alla vita dei contadini ed ai loro primi moti di rivolta, per arrivare ad rappresentazione del fascismo, che si concretizza nelle modalità più brutali e feroci attravaerso l’agghiacciante figura del fattore Attila (D. Sutherland), come elemento più brutale della violenza e dellla sopraffazione dei diritti. Se da un lato l’impostazione del film è sontuosa, basti vedere il cast sia italiano che straniero, ma aggiungiamo anche un set con tecnici di prim’ordine, Bertolucci sembra però ancor più determinato a voler scandalizzare il pubblico mostrando senza filtri gli atteggiamenti quotidiani dei protagonisti, anche nei loro momenti più intimi e scabrosi, ma anche i delitti più efferati, senza filtri, anzi colpendo il pubblico sotto la cintola. Assistiamo alle perversioni dei vari personaggi, ove non risultano sufficienti esplicite scene di sesso ma addirittura arriviamo ad atti di pedofilia. Assistiamo alla morte di animali e di persone con la stessa brutalità e sempre con la consapevolezza che il regime fu ispiratore e protettore di malefatte e soprusi che avevano una copertura politica a favore dei propri adepti. Questa insistenza si osserva in particolare nel II atto, dove la narrazione della vita nelle campagne, che comunque era più concentrata sulle terribili vessazioni a cui erano sottoposti i braccianti (emblematica la sequenza in cui uno di questi si taglia un orecchio in segno di protesta davanti al padrone), viene sostanzialmente abbandonata a favore di un violento melodramma che pone come perno della storia le vicende personali dei due ex amici ora su fronti contrapposti. Il tentativo però di spettacolarizzare un’epopea che interseca lotta contadina, sopraffazione e fascismo è riuscito veramente a metà, con personaggi che spesso e volentieri sembrano usciti da alcuni manuali di dottrina politica (certi discorsi di Olmo piuttosto che la militante Anita che sembra perfetta anche per i movimenti femministi dell’epoca) sino all’exploit finale che determina una precisa visione del regista che sembra molto più vicina al sentore comune della sinistra degli anni ’70 che di quanti si impegnarono nella lotta al regime. Inoltre nonostante una lunghezza che ha addirittura determinato la separazione in due atti, come due film separati, certi sviluppi delle psicologie dei personaggi appaiono troppo rigide o persino poco chiare. Tra tutte sembra poco chiara quella di Alfredo, del quale non si riescono a cogliere i motivi di un radicale cambiamento una volta subentrato al padre nella gestione del suo impero. Egli è un ignavo perchè non sa imporsi contro lo strabordante potere che il Fascismo e dunque Attila stanno acquisendo? O forse il nuovo ruolo invece gli fa cogliere che i suoi precedenti ideali debbano essere accantonati in nome della propria ricchezza e propria posizione sociale? La rapacità con cui tratta anche i borghesi (il caso dei coniugi Pioppi) è figlia anch’essa di un desiderio di potere che atavicamente coinvolge anche le nuove generazioni di “padroni” che nelle campagne conoscono solo le regole del potere e del possesso, sia esso di cose o persone? Il declino del rapporto con la moglie poi sembra un po’ troppo scontato e “cinematografico” con un marito sostanzialmente debole e quasi circuito dallo strabordante impeto di Attila, contrapposto ad una moglie illuminata e obiettivamente sensibile alla spirale di violenza a cui è costretta ad assistere. Nella seconda parte del film inoltre, il Fascismo diviene un elemento portante della storia. Soprattutto su questo elemento il regista decide di dipingerlo nei suoi aspetti più meschini: i fascisti appaiono dunque violenti, assserviti ad una causa di pura sopraffazione degli indigenti, capaci di brutalità con la consapevolezza di avere una protezione politica che prevarica anche su delitti compiuti ai danni di innocenti. Donald Sutherland, incarnando il fattore Attila, si immerge in un personaggio che lascia francamente allibiti: incarnando gli slogan più beceri della dottrina fascista esprime gli episodi di violenza e di perversione più agghiaccianti del film. Passando dallo stupro ed il brutale assassinio di un bambino innocente fino allo stupro e all’assassinio su una cancellata di un’attempata vedova, che lo accusa di aver fatto morire il marito di crepacuore al fine di ottenere la loro villa sfruttandone la condizione economica precaria e infine attraverso una sconvolgente sequenza di esecuzioni dei braccianti che avevano protestato umiliando Attila e persino attraverso l’uccisione di un gattino con una testata, prende forma un villain che da solo simboleggia tutta la ferocia del regime. Una lettura così feroce può riportare ad un film che si è in qualche modo intersecato alla realizzazione di Novecento, ossia Salò o le 120 giornate di Sodoma. Film girati praticamente nello stesso periodo ed i cui rispettivi cast avevano condiviso delle partite di calcio, ma soprattutto i film hanno in comune una rappresentazione estremamente realistica ed aggressiva che nella volontà di denunciare le efferatezze del ventennio fascista, porta lo spettatore in un vortice di violenza pressochè impossibile da sostenere. Qui viene qualche dubbio sul campo stilistico: per descrivere la violenza è anche necessario metterla in mostra? La sopraffazione delle vittime deve essere così esplicita per cogliere il malessere di quegli anni? Non mi sorprende che all’epoca entrambi i film ebbero grossi problemi con la censura ed entrambi furono oggetto di discussione nelle aule di tribunale. Oggi forse più di allora film del genere incontrerebbero altrettante problematiche, a partire da una scelta di natura produttiva. Sorprende infatti, soprattutto con Novecento che il cinema italiano di allora avesse un tale fervore ed un tale richiamo internazionale da coinvolgere grandi nomi di Hollywood in ruoli ove la loro immagine più da “divi” ne usciva sensibilmente ridimensionata a favore di quella di attori. Spesso questo film viene confrontato con un’altra opera quasi coeva, L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Premesso che il solo elemento che li accomuna è proprio l’ambientazione contadina, in Emilia per Novecento nella bergamasca per il film di Olmi, le intenzioni dei rispettivi registi sono diametralmente opposte. La compostezza documentaristica di Olmi nel dipingere una campagna di fine ‘800 incentrata su povertà, fame e religione (cogliendo proprio l’essenza del contesto lombardo e addirittura impegnando un cast di attori non professionisti che recitano nel dialetto locale) è tutto sommato lontana dalle esigenze narrative di Bertolucci di natura ben più politica, con cui i suoi personaggi, come il protagonista Olmo, hanno già l’eloquenza da sindacalisti più che da contadini. Sebbene appunto Olmi fosse ben più deciso a non fare un manifesto politico, è da notare peraltro che in una sequenza de L’albero degli zoccoli vediamo proprio un comizio in cui l’oratore parla di diritti dei lavoratori, ma appunto con un vocabolario fin troppo forbito, innanzi al quale i contadini si guardano incuriositi ed impauriti, consapevoli di potersi attirare le ire del padrone. Si osserva altrettanto una visione diametralmente opposta tra la lettura di Olmi e quella di Bertolucci relativamente al ruolo della chiesa nei confronti dei contadini: se per Olmi il prete di campagna era anche una figura almeno di conforto spirituale e di qualche maldestro aiuto materiale (il prete per alleviare i problemi economici di una vedova con molti figli, le propone di mandarne uno in un collegio religioso dove avrebbe avuto garantita un’istruzione e vitto e alloggio ma sicuramente sarebbe stato indirizzato verso un percorso ecclesiastico) per Bertolucci il ruolo della Chiesa è stato di palese appoggio alle cause padronali, con il sacerdote dipinto come un cortigiano, incapace e indolente anche solo all’ascoltare le sofferenze di quanti pativano sotto la povertà e poi sotto il fascismo (la tristissima sequenza in cui la vedova Pioppi tenta di confessarsi ma ancor più di spiegare le vessazioni a cui è sottoposta provoca sgomento).  Due annotazioni: il film si apre con la morte di Giuseppe Verdi, avvenuta nel 1901 che coincide con la nascita dei due protagonisti, Olmo e Alfredo. Considerato che l’ultima leva ad aver fatto la Grande Guerra è quella del 1899 (i famosi ragazzi del ’99), entrambi non avrebbero dunque potuto combattere per motivi anagrafici. Infine per chi ha un po’ di dimestichezza con il mondo contadino, potrà constatare l’incongruenza della sequenza iniziale ove, durante la liberazione (25 aprile) si osserva il granturco già alto, del tutto incoerente con la stagione.

 

 

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