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Ossessione

Regia di Luchino Visconti vedi scheda film

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La recensione su Ossessione

di Letiv88
7 stelle

Un esordio potente e realistico, che mostra corpi, passioni e miserie senza filtri, ma che nella parte conclusiva vira verso toni più melodrammatici e simbolici.

C’è un prima e un dopo Ossessione nella storia del cinema italiano. Esordio di Luchino Visconti, il film nasce nel 1943, in piena guerra, e scardina ogni regola narrativa e visiva del tempo. È il primo vero passo verso il neorealismo, anche se allora il termine non esisteva ancora. Ma al di là del mito, Ossessione è un film che colpisce per il suo ardore terreno e allo stesso tempo lascia qualche perplessità per la svolta finale.

Gino Costa (Massimo Girotti), un vagabondo senza radici, arriva in una locanda sulla statale e incontra Giovanna Bragana (Clara Calamai), moglie frustrata di un uomo rozzo e possessivo, Giuseppe Bragana (Juan de Landa). Tra i due nasce un’attrazione feroce, fisica, inarrestabile, che li spinge al delitto e poi alla fuga. Lo spagnolo (Elio Marcuzzo), viaggiatore che incrocia Gino lungo il percorso, ne percepisce le fragilità e introduce un sottotesto di desiderio e solidarietà. La passione che lega Gino e Giovanna diventa presto una condanna: travolti dal rimorso e dal destino, finiscono risucchiati da un finale amaro, dove l’amore si confonde con la colpa.

Visconti guarda al noir americano, ma toglie tutta la patina e lascia solo terra, sudore e realtà. Le inquadrature sono sporche, i corpi sudati, i luoghi veri: la pianura padana diventa un personaggio, viva e opprimente. È un film che parla di desiderio e disperazione con una sincerità mai vista prima nel cinema italiano.
Eppure, nella seconda parte, quella tensione sensuale e realistica sembra affievolirsi. Il ritmo rallenta, l’azione si fa più statica, e la fuga finale assume toni quasi mistici, più simbolici che drammatici. È qui che il film, pur restando importante, perde un po’ della sua forza iniziale.

In Ossessione emerge anche un chiaro rifiuto del modello piccolo-borghese caro al fascismoVisconti mostra una realtà sporca, fatta di frustrazioni e desideri repressi, e lo fa attraverso una regia che privilegia ambienti chiusi e volti segnati. L’antifascismo passa dal mostrare la vita vera e la miseria morale di chi sogna una fuga impossibile. Il film procede per ellissi, suggerendo più che mostrando, e alterna scene cupe a momenti di luce e respiro, come le rive del Po o le vedute del porto di Ancona. In quei brevi sprazzi di libertà si intravede l’illusione di un futuro diverso che però non arriverà mai.

Scritta da Visconti insieme a Mario AlicataGiuseppe De Santis e Gianni Puccini, la sceneggiatura adatta liberamente il romanzo Il postino suona sempre due volte (1934) di James M. Cain, sostituendo l’America dei diner e delle strade polverose con l’Italia contadina. Pur prendendo spunto dal romanzo, Visconti ne ribalta completamente il contesto e l’atmosfera, trasformando la storia in chiave italiana e realistica. Il linguaggio è diretto, il sottotesto sessuale evidente, e il senso di colpa aleggia costante. Questa scelta permette di raccontare persone e corpi veri, passioni autentiche e una sensualità mai idealizzata, allontanandosi dalla patina americana e concentrandosi sulla realtà concreta dei personaggi.

Visconti porta sullo schermo persone vere, corpi reali, passioni autentiche. Per la prima volta nel cinema italiano il corpo maschile diventa oggetto di desiderio, osservato con lo stesso sguardo sensuale riservato di solito alle donne. L’introduzione di Gino lo dimostra: la macchina da presa lo rivela solo quando Giovanna lo vede, come se il film condividesse il suo sguardo attratto. Girotti, spesso in canottiera e ripreso in modo fisico e diretto, incarna una sensualità nuova, quasi provocatoria per l’epoca.

Il personaggio dello spagnolo apre un sottotesto audace: il suo interesse per Gino mescola solidarietà e desiderio. La celebre scena del fiammifero — in cui lo spagnolo osserva il corpo di Gino al buio — fu una delle prime a essere tagliate dalla censura. In un’Italia dove adulterio e omosessualità erano tabù, Visconti osa rappresentarli entrambi, trasformando il gesto artistico in un atto politico. La scelta di adattare un romanzo americano in pieno periodo autarchico era di per sé un gesto controcorrente.

Ma la seconda parte risente di una struttura diseguale: l’inizio è magnetico, viscerale, mentre il finale tende al melodramma e smorza l’impatto del realismo.

Massimo Girotti è perfetto nel ruolo di Gino: un uomo diviso tra istinto e paura, sedotto dalla libertà ma condannato dalle proprie scelte. La sua fisicità, accentuata da Visconti con inquadrature ravvicinate e una recitazione asciutta, porta sullo schermo una sensualità ruvida e mai idealizzata. Clara Calamai, già diva del cinema dei “telefoni bianchi”, sorprende per intensità e realismo: il suo volto stanco e desideroso di fuga racconta più di cento battute. È una Giovanna che non chiede simpatia ma comprensione, tragicamente umana.

Juan de Landa, con il suo Bragana rozzo e autoritario, aggiunge peso al triangolo tragico: la sua presenza ingombra lo spazio, simbolo di un mondo maschile arcaico e possessivo che Visconti mostra senza pietà. Accanto a loro, Elio Marcuzzo interpreta lo spagnolo, viaggiatore e artista di strada che incrocia il destino di Gino, aiutandolo con ospitalità e attenzione ambigua: il suo legame con Gino introduce un sottotesto di solidarietà e desiderio, aggiungendo complessità e tensione alle dinamiche tra i protagonisti.

Ossessione fu osteggiato dal regime fascista, accusato di immoralità e pessimismo. Alcune copie vennero distrutte, e il film circolò a lungo solo clandestinamente. Nonostante le difficoltà, il suo impatto fu enorme: RosselliniDe Sica e tutti i futuri neorealisti partirono da qui. Girato in location reali, con attori sudati e ambienti sporchi, rompeva con il cinema “in posa” dei telefoni bianchi.

Dopo la prima presentazione a Roma nella primavera del 1943, pensata per aggirare la censura, il film venne distribuito in poche città del Nord e sotto occupazione tedesca. Rimase spesso in cartellone per pochi giorni o persino ore, prima di essere ritirato dalle autorità fasciste e dalla Chiesa, scandalizzate dal contenuto “immorale” e dall’ambiguità del personaggio dello spagnolo. Il film fu poi vietato e dato per distrutto, ma Visconti riuscì a salvare una copia del negativo, nascosta fino alla fine della guerra, da cui derivano tutte le versioni esistenti oggi. Anni dopo, Ossessione è stato inserito tra i “100 film italiani da salvare”, riconoscimento riservato alle opere che hanno segnato la memoria collettiva del Paese.

Ossessione è un film fondamentale, ma non perfetto. Il suo valore storico è indiscutibile, la sua forza visiva e fisica ancora palpabile, ma il finale trascina il film verso un tono quasi moralista che ne riduce l’impatto emotivo. È l’opera di un regista che sta cercando la sua voce e, nel farlo, cambia il corso del cinema italiano.

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